Nelle ultime settimane la Bosnia-Erzegovina è stata teatro di crescenti proteste di piazza contro le autorità. Iniziate nella città di Tuzla, importante centro industriale della ex Jugoslavia, si sono rapidamente diffuse in buona parte del paese, in particolare nelle zone a maggioranza bosgnacca, come Sarajevo, Biha, Zenica – e a Mostar, dove inizialmente croati e bosgnacchi sono scesi in piazza assieme. Nei primissimi giorni, alcuni edifici pubblici e sedi di partito sono stati incendiati, ma i danni sono stati causati da piccoli gruppi di violenti, favoriti da un atteggiamento passivo della polizia. Malgrado l’eco di questi episodi sulla stampa internazionale, le proteste hanno avuto un carattere sostanzialmente pacifico.
La Bosnia-Erzegovina ha ereditato dalla guerra degli anni Novanta un assetto istituzionale ampiamente decentrato. A fronte di un centro statale particolarmente debole, convivono due entità: la Republika Srpska (RS), la cui popolazione è in maggioranza composta da serbi di Bosnia, e la più popolosa Federazione di Bosnia-Erzegovina. Quest’ultima è suddivisa in dieci cantoni, dove abita gran parte della popolazione bosgnacca e la quasi totalità dei croati di Bosnia.
È interessante notare come le proteste abbiano assunto connotati diversi nelle due entità: nella Federazione, dove le manifestazioni hanno avuto una larga partecipazione, hanno protestato gruppi spontanei di cittadini, in particolare disoccupati e pensionati. In RS sono scesi in piazza quasi unicamente i veterani dell’ultima guerra, uno dei pochi gruppi nel paese capaci di mobilitarsi in modo coordinato.
La differenza nelle forme della protesta si spiega con il maggior dinamismo del governo dell’RS, che malgrado non possa vantare performance migliori del resto del paese, è percepito come più efficiente e meno corrotto. Inoltre, il dominus dell’RS, Milorad Dodik, è riuscito negli anni a creare un sistema di potere basato su un controllo capillare dei centri amministrativi (e delle fonti di informazione) in tutti i territori a maggioranza serba: un controllo fatto di favori, prebende, e intimidazioni pubbliche agli oppositori.
Le richieste dei manifestanti, in definitiva, erano molto semplici: lotta alla disoccupazione e alla corruzione. Non è un caso che i primi gruppi in piazza, quelli che hanno innescato la protesta, fossero gli operai di due industrie privatizzate in crisi. Le privatizzazioni hanno fallito nell’intento di rilanciare le ex aziende pubbliche e sono state costellate di passaggi poco chiari: in molti casi, gli acquirenti hanno semplicemente usato gli asset privatizzati come collaterale per ottenere crediti, abbandonando poi azienda e lavoratori al loro destino dopo aver portato i soldi all’estero.
I piani di rilancio concordati con le autorità sono rimasti lettera morta, nel disinteresse di chi avrebbe dovuto controllare e, in molti casi, con la connivenza dei sindacati. Questo circolo vizioso di corruzione e fallimenti ha portato danni enormi al tessuto produttivo, poiché ha colpito un gran numero di piccole e medie aziende sparse su tutto il territorio, ma ha anche impedito il rilancio di siti produttivi strategici, come la grande raffineria di Brod e la fabbrica di alluminio di Zvornik. Il destino delle industrie tenute sotto il controllo pubblico non è stato migliore: sono diventate terra di conquista per partiti politici e leader locali, interessati al clientelismo più che a renderle competitive sul mercato.
La risposta dei partiti al potere alle proteste è stata sostanzialmente unanime: denunciare inesistenti complotti ai loro danni. I rappresentati delle varie etnie hanno infatti indicato le manifestazioni come un tentativo degli altri gruppi etnici di destabilizzare il paese, mettendo in guardia i membri del proprio gruppo dallo scendere in piazza e farsi strumentalizzare dai leader avversari. Come noto, la contrapposizione etnica in passato si è mostrata estremamente utile per creare un forte sentimento identitario.
L’unica eccezione è stata l’Alleanza per un Futuro Migliore (SBB), partito creato nel 2009 dal ricchissimo magnate dell’informazione Fahrudin Radonci, personaggio che ha approfittato delle proteste per provare a rafforzare la sua immagine di uomo nuovo, estraneo ai passati decenni di malgoverno e dialogante nei confronti dei manifestanti. Ha pagato le sue posizioni perdendo il posto di ministro della Sicurezza, ma è stata probabilmente una mossa calcolata. Infatti le elezioni si avvicinano (a ottobre si voterà) e i partiti al governo sconteranno una legislatura di totale immobilismo.
Per di più, stavolta la carta etnica potrebbe non funzionare. Da un lato, i problemi si stanno accumulando: la disoccupazione viaggia nel paese stabilmente attorno al 27%, l’occupazione è in calo, e un quinto dei bosniaci vive in condizioni di povertà. Ma le bizantine regole costituzionali rendono necessaria una larghissima maggioranza parlamentare per formare il governo, con il risultato che è assai complicato ottenere una vera alternanza politica e il sistema resta bloccato. Da qui deriva il diffuso senso di frustrazione per i meccanismi elettorali e di disaffezione verso la politica, certificato non solo da tutti i sondaggi di opinione, ma anche da una bassa affluenza al voto.
Va comunque notato che l’alibi dell’ingovernabilità, spesso usato dai partiti, regge soprattutto a livello centrale, mentre gli altri livelli di governo hanno procedure più prossime a un normale sistema parlamentare: sono, peraltro, proprio questi ultimi a decidere ed implementare la maggior parte delle politiche sociali ed economiche. In definitiva, l’inadeguatezza dell’offerta politica costituisce il problema principale, come è emerso chiaramente negli ultimi mesi. Le divisioni etniche e le inefficienze dei meccanismi istituzionali non possono nascondere la mancanza di una società civile ben strutturata e di un’opposizione politica capace di costituire un’alternativa. Anche la stampa appare estremamente debole e, di fatto, controllata dai principali partiti del paese.
In questo la Bosnia-Erzegovina si differenzia dalla vicina Serbia, paese colpito da problemi economici e sociali simili, dove però non si vedono proteste di massa. La nuova coalizione di governo, al potere dal 2012, sta raccogliendo un buon consenso. Lo si è visto nelle trionfali elezioni del marzo 2014, dove l’uomo forte del momento, il vice-premier Aleksandar Vui, ha conquistato la maggioranza assoluta dei seggi parlamentari. La differenza tra i due paesi, in definitiva, sembra motivata dalla prospettiva di cambiamento, percepito come possibile in Serbia, ma non in Bosnia-Erzegovina – tuttora frenata dall’eredità politica della guerra nella sua stessa struttura costituzionale.
Anche la comunità internazionale ha giocato un ruolo diverso nei due paesi: la Serbia è uscita da un periodo di isolamento, ed è tornata ad essere un importante attore nella regione. Non solo ha normalizzato le relazioni prima con la Croazia e poi con il Kosovo (che pure continua a non riconoscere formalmente), ma procede spedita verso una possibile membership dell’Unione Europea. In Bosnia-Erzegovina, al contrario, tale processo è in stallo.
Errori sono stati compiuti da entrambe le parti: i leader bosniaci hanno continuato a litigare per definire i meccanismi richiesti dall’UE di gestione dei fondi di pre-adesione IPA, molti dei quali sono stati quindi congelati. L’UE, da parte sua, ha concentrato gran parte delle proprie energie nel richiedere, senza successo, una modifica costituzionale, resa necessaria da una sentenza della Corte europea dei Diritti dell’Uomo, per eliminare alcune disposizioni considerate discriminatorie. Per quanto si tratti di un tema importante in linea di principio, è un aspetto dalle ricadute pratiche nulle nell’immediato, che non ha generato alcun interesse nella popolazione e ha anzi contribuito al cinismo e alla frustrazione dei cittadini bosniaci.