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Il tour europeo di Xi Jinping e il volto della Cina all’estero

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Il primo aprile il presidente cinese Xi Jinping è tornato a Pechino dal suo viaggio in Europa. Nell’arco di dieci giorni, ha visitato Olanda (dove ha partecipato al Summit sulla sicurezza nucleare all’Aia), Francia, Germania e Belgio, e ha incontrato i capi dell’UNESCO a Parigi e dell’Unione Europea a Bruxelles (la prima volta di un presidente cinese). Lo scopo principale del viaggio è stato economico: con circa 200 imprenditori al seguito, Xi Jinping ha facilitato la firma di accordi miliardari nei paesi visitati con un occhio sempre rivolto all’obiettivo finale: tracciare una nuova Via della seta attraverso la firma di un vasto accordo sul commercio con l’Unione Europea.

I rapporti economici tra Cina e Unione Europea sono sempre più importanti: la Cina è il secondo partner commerciale dell’UE, mentre Bruxelles è la principale destinazione dell’export cinese. Nel 2013 lo scambio totale tra le due parti ammontava a 590 miliardi di dollari (1,6 miliardi di dollari al giorno), secondo i dati della Commissione Europea. Ma il totale degli scambi non è equamente suddiviso: l’Europa, infatti, vende molto meno di quanto compra soprattutto a causa delle barriere con cui Pechino blocca possibili investimenti stranieri.

In Olanda, Xi ha sottoscritto accordi di collaborazione sull’agricoltura e la sicurezza alimentare: il governo olandese metterà a disposizione di Pechino esperti del settore per migliorare la sicurezza alimentare e aumentare la produzione di latte fino a 40 miliardi di chilogrammi nei prossimi anni. In Francia, ha firmato contratti per 18 miliardi di euro nei settori  automobilistico, aeronautico e dell’energia nucleare. Per quanto riguarda la Germania, Francoforte diventerà il principale hub europeo per le transazioni finanziarie con la moneta cinese: l’accorso siglato dalla Bundesbank e dalla Banca Popolare Cinese è stato annunciato da Xi e Merkel. Il renminbi non è convertibile liberamente e le transazioni devono coinvolgere obbligatoriamente la banca centrale cinese; fuori dall’Asia, le transazioni fino a 350 miliardi di yuan potranno passare da una nuova banca, a cui manca ancora il nome, che sarà aperta a Francoforte (superando per importanza anche la Bank of England di Londra, che ha da poco firmato un accordo simile a quello tedesco).

Xi Jinping ha dichiarato di voler raddoppiare gli scambi commerciali con l’Unione Europea nei prossimi cinque anni e raggiungere quindi i mille miliardi di dollari di scambi entro il 2020. Per ottenere tale risultato avrà bisogno di trovare un accordo complessivo con i leader dell’UE: in questo senso i primi colloqui sono già avvenuti a gennaio e, come dichiarato prima della partenza di Xi dal ministro degli Esteri cinese Wang Yi, “speriamo di accelerare i negoziati verso un accordo sugli investimenti”. Non basta però la buona volontà: anche Pechino dovrà fare delle concessioni, aprendo più settori agli investimenti stranieri, in particolare trasporti, telecomunicazioni e sanità.

Ci sono altri fattori che frenano la stretta di mano definitiva: non è un mistero che la scarsa affidabilità dei partner commerciali cinesi e la diffusa corruzione siano tra gli elementi che frenano la crescita dei rapporti economici. Questi temi, però, al pari della sicurezza regionale e dei diritti umani, fanno parte di un insieme di problemi in cui Pechino non accetta che paesi stranieri si intromettano. Non è un caso infatti se Xi Jinping si è rifiutato di incontrare i giornalisti dovunque si sia recato, negandosi perfino alla conferenza stampa proposta da Bruxelles per non dover parlare di ambiente, e di rispetto dei diritti umani di tibetani, uiguri, e anche migranti interni di etnia Han (vero motore economico della Cina, che la legislazione rende di fatto cittadini di serie B).

In modo ancora più esplicito, in un discorso pronunciato a Bruges al Collegio d’Europa, Xi ha voluto mettere in chiaro con l’Europa che non è il caso di battere sul tasto della democrazia o della fine del partito unico: “Voglio costruire quattro ponti fra l’Europa e la Cina – ha dichiarato – che comprendano pace, crescita, riforme e civiltà”. Ma come un albero di arance non dà gli stessi frutti se piantato al sud o al nord, così Pechino “non può copiare il sistema politico o il modello di sviluppo di altre nazioni”. La Cina quindi non si allontanerà dalla via del “socialismo con caratteristiche cinesi”, anche perché il paese ha “già sperimentato la monarchia costituzionale, la restaurazione imperiale, il parlamentarismo e il sistema multipartitico, ma non hanno funzionato”.

È chiaro che il discorso di Xi era rivolto a chi, tanto in Europa quanto in patria, chiede che tra le riforme annunciate dopo la sua nomina a segretario generale del Partito comunista non ci siano solo quelle economiche ma anche quelle politiche. Il potere resterà invece nelle mani del partito unico, anche se secondo molti è proprio l’autoreferenzialità al potere che causa la smisurata corruzione contro cui Xi sta attuando una delle sue campagne più famose anche all’estero. Che il presidente cinese faccia sul serio non c’è dubbio, visto che (dopo l’arresto del generale Gu Junshan) sembra che stia per essere incriminato uno degli uomini più potenti del paese: Zhou Yongkang, già capo della sicurezza ed ex membro del Comitato permanente del Politburo del PCC, il più alto organo decisionale della Cina. Se il presidente cinese riuscirà a insidiare un politico così ben posizionato nella scala gerarchica comunista significa che ha ragione chi afferma che Xi ha perfino più potere di Mao Zedong 50 anni fa. Ma questo potere deve essere usato con cautela perché, come dimostrano anche le circa 180mila proteste, o “incidenti di massa” nel linguaggio ufficiale, che avvengono nel paese ogni anno, il popolo cinese non è più disposto a subire i soprusi di una ristretta élite.