Lasciata ormai alle spalle la scadenza simbolica dei “cento giorni” successivi alla vittoria elettorale, François Hollande si trova ad affrontare una situazione molto delicata. Benchè non vi sia stata una vera e propria luna di miele con un’opinione pubblica sempre più inquieta sulle prospettive immediate e future del paese, i francesi hanno complessivamente mostrato di apprezzare i primi provvedimenti del nuovo Capo dello stato. Tuttavia, il presidente che ha fatto della “crescita” e dell'”equità” le proprie parole d’ordine deve ora correggere con decisione una situazione economica che vede una stagnazione del pil lunga nove mesi e una condizione sociale in cui le diseguaglianze sono accresciute dagli effetti della crisi.
Le scelte che l’esecutivo socialista di Jean-Marc Ayrault potrà adottare, e il rispetto della promessa di politiche espansive e non ultra-rigoriste, dipendono da due elementi ineludibili. Da un lato, l’impegno, garantito a Bruxelles, di riportare il deficit pubblico al 3% entro l’anno prossimo: un compito non facile in un momento di crescita rachitica e di congiuntura instabile in tutto il continente, anche considerando che il dato previsto per il 2012 è del 4,5%. Dall’altro, la correttezza delle previsioni di crescita del governo, su cui si basano i piani di spesa, che indicano per l’anno in corso un +0,3% e per il 2013 un +1,2%, a fronte di stime molto più prudenti di economisti e istututi finanziari. La Corte dei conti ha già fatto sapere che se fossero i numeri del governo a rivelarsi errati, l’esecutivo si troverebbe costretto a una manovra correttiva per 30 o 40 miliardi – fatta perciò sia di tagli che di aumenti d’imposta generalizzati.
Il governo e la presidenza, per ora, tirano dritto per la propria strada. Si tratta di una scommessa piuttosto rischiosa, dettata in primo luogo da ragioni di consenso: Hollande e Ayrault decideranno di ricorrere alle politiche di rigore tanto criticate durante la campagna elettorale e il quinquennato di Nicolas Sarkozy solo e soltanto se dovesse allontanarsi troppo l’obiettivo del deficit al 3% patteggiato con la UE. I membri del governo non smettono di ricordare al paese che il mancato rispetto di questo impegno comporterebbe, per la conseguente ingerenza di Bruxelles nel bilancio nazionale, un’intollerabile perdita di sovranità.
Per il resto, l’evidenza di un calo degli occupati e di una diminuzione dei consumi – a livelli comunque ancora lontani da certi record “mediterranei” – suggerisce la necessità di provvedimenti non superficiali. Il bouquet di misure sociali previste dal governo è in effetti abbastanza ampio: include nuovi contratti di inserimento per i giovani poco qualificati, il lancio di un vasto programma di edilizia popolare, l’aumento del personale nelle strutture sanitarie e in quelle scolastiche, e più a lungo termine, un aumento dei costi previsti per le aziende in caso di licenziamenti. Il pacchetto si aggiunge alla discesa dell’età pensionabile a 60 anni per alcune categorie di lavoratori e all’aumento del 2% del salario minimo, già approvati.
Per coprire le nuove spese, l’esecutivo può contare su una leggera riduzione del personale della pubblica amministrazione, escludendo quello scolastico, sanitario e di polizia, e sul congelamento dei bilanci ministeriali. Il grosso della somma dovrà giungere però dalle nuove entrate fiscali: reintroduzione della tassa su successioni e donazioni e dell’imposta sui grandi patrimoni, introduzione di un’aliquota del 75% sui redditi oltre il milione di euro e pareggio tra la tassazione sul capitale e quella sul lavoro. Un’inversione di tendenza, se confermata nella sua totalità, davvero netta rispetto agli anni precedenti – in cui le imprese e le fasce più benestanti venivano coccolate dal fisco: non c’è da sorprendersi se ora i redditieri più facoltosi minacciano di trasferire la residenza o l’attività altrove.
Un ulteriore elemento complica il quadro: l’aumento del prezzo del petrolio, dovuto a diversi fattori tra cui la svalutazione dell’euro sul dollaro: questa, se avvantaggia l’export delle aziende transalpine, d’altro canto rafforza l’inflazione e indebolisce i consumi, con un effetto deprimente sul pil e sulle entrate fiscali. Può farci poco l’Eliseo, a parte prospettare un possibile sconto fiscale ai petrolieri. Intanto, l’avvio del programma di trasformazione energetica (con un peso assai minore del nucleare) è stato rinviato a data da destinarsi: i costi della riconversione supererebbero di troppo i benefici immediati, ed obbligherebbero la Francia a importare più energia dall’estero.
François Hollande ha invece dalla sua la recente pronuncia della Corte costituzionale, secondo cui non c’è bisogno di una modifica alla carta fondamentale perchè Parigi aderisca al Fiscal Compact (il federalismo budgetario europeo, che prevede tra i punti più controversi l’adozione del principio del pareggio di bilancio). Questo significa, tanto per cominciare, che l’obbligo del deficit zero diventa meno stringente, almeno per la Francia – Sarkozy prevedeva al contrario la sua costituzionalizzazione e il raggiungimento del traguardo entro il 2015; inoltre, la modifica della Carta avrebbe necessitato il voto dei 3/5 dell’Assemblea, e avrebbe costretto la maggioranza a un difficile negoziato con l’opposizione dell’UMP.
Non bisogna dimenticare infatti che il partito socialista è piuttosto diviso sull’argomento – con una quota non trascurabile di contrari a cedere sovranità a Bruxelles. Anche i Verdi, che costituiscono un piccolo ma litigiosissimo gruppo parlamentare all’interno della maggioranza, sono divisi sulla ratifica del Trattato – in questo caso perchè alcuni di loro lo considerano troppo debole e limitato. Il voto a maggioranza semplice potrà disinnescare (in parte) queste contraddizioni, data anche la non contrarietà dell’UMP, attualmente piuttosto impegnato nella partita per la successione a Nicolas Sarkozy.
Perchè dunque il presidente francese si lancia in un programma di spese che, alle condizioni attuali, ha scarse possibilità di essere interamente coperto dalle finanze dello stato? La strategia di Hollande punta in effetti a un ammorbidimento delle posizioni europee di Berlino, che dovrebbe comportare la disponibilità di maggiori risorse da investire nell’obiettivo della “crescita”. In primo luogo, l’Eliseo vuole che la Grecia resti a tutti i costi nell’euro – e quindi che la BCE possa intervenire più liberamente in soccorso dei paesi indebitati. La tregua nei mercati che ne risulterebbe, secondo i calcoli francesi, servirebbe a liberare preziosi capitali che riattiverebbero il credito bancario. Non solo: sarebbe spianata la strada dei project bonds, titoli del debito europei destinati a finanziare grandi opere infrastrutturali, capaci di sbloccare lo stallo economico, trainare i numeri del pil in un confortevole territorio positivo, contenere la disoccupazione – da qualche trimestre in crescita anche in Francia.
Non è detto che la Germania si opponga con troppa decisione a un’evoluzione in questo senso; soprattutto gli industriali tedeschi stanno cominciando a sperimentare gli effetti della lunga recessione che colpisce i mercati dei grandi paesi indebitati e che potrebbe presto estendersi proprio alla Francia. La Cancelliera Angela Merkel non può tuttavia, all’apertura dell’ultimo anno della propria legislatura, accettare uno slittamento così rapido sulle posizioni difese dagli stati più indebitati e anche dai suoi oppositori socialdemocratici, pronti a sfruttare la tensione latente nella coalizione di governo tra i falchi del rigore e i fautori di una revisione delle strategie economiche.L’ennesimo vertice tra Hollande e Merkel il 23 agosto (l’undicesimo in appena tre mesi) ha fotografato queste posizioni, senza che si giungesse ad alcun accordo preciso. I prossimi mesi riveleranno come le dinamiche politiche di Berlino influiranno sulle scelte economiche di Parigi.