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Crisi immobiliare, società e politica in America

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L’America della lunga crisi immobiliare è costretta a fare i conti con la probabile insostenibilità di una delle figure più potenti dell’American dream, ovvero la proprietà di massa. Sono molti i segni di un cambiamento del clima economico e sociale.

Il MoMA espone fino alla fine dell’estate “Foreclosed: rehousing the American dream”. La mostra presenta i risultati di un esercizio progettuale sul futuro di otto aree suburbane esposte agli effetti della crisi – essenzialmente il crollo dei valori e il moltiplicarsi degli immobili ipotecati – e del cambiamento sociale e demografico che sta impetuosamente trasformando il suburbio un tempo uniformemente bianco e middle-class. Le previsioni di crescita eccessive sono abbandonate, accanto alle case unifamiliari spuntano anche gli appartamenti, vengono immaginate nuove soluzioni abitative in affitto anche in condivisione e si punta alla creazione di una nuova generazione di servizi collettivi e spazi pubblici.

Di recente, il Center for American Progress ha proposto un ambizioso piano di riutilizzo dei molti immobili ipotecati che ora sono sotto il controllo di fatto del governo federale, a seguito della nazionalizzazione delle agenzie di garanzia del credito Fannie Mae e Freddie Mac. L’idea è quella di affidare questo patrimonio ad attori del privato sociale che li reimmettano sul mercato dell’affitto: anche in questo caso, la gran parte della nuova offerta si concentrerebbe nelle aree suburbane.

Al di là di queste escursioni probabilmente utopiche, è il futuro del ciclopico sistema di sostegno pubblico alla homeownership ad essere oggetto di dibattito. La crisi si è portata via molte certezze. Le minoranze hanno visto i propri patrimoni restringersi e la percentuale di case di proprietà crollare di diversi punti. La regressione del tasso di americani che possiedono la casa in cui vivono ai livelli degli anni novanta, vale a dire prima del grande boom dei 2000, è dovuta largamente proprio alle difficoltà di ispanici e afro-americani. Aspettare che l’economia riparta davvero per continuare a sussidiare l’accesso alla proprietà – attraverso incentivi come vantaggiose esenzioni fiscali – non sembra un’ipotesi percorribile.

Esiste un consenso abbastanza ampio – a partire da un rapporto della stessa amministrazione Obama dell’anno scorso – sull’idea che l’intervento federale debba ridursi divenendo più selettivo. L’idea che sia il governo a garantire la quasi totalità dei mutui immobiliari appare, fra le macerie del collasso, per quello che è: un’idea tutto sommato estremista. Un paper recente dell’Harvard Joint Center for Housing Studies propone di preservare l’intervento federale pur accettando il destino di un suo importante ridimensionamento: una strada che sembra vicina a quella ipotizzata da molti Democratici.

C’è poi l’ipotesi liberista:sulla rivista Policy Analysis del Cato Institute si mette in discussione l’opportunità di considerare l’homeownership quale un valido obiettivo di policy. L’interventismo federale si sarebbe rivelato costoso, in parte ridondante rispetto a tendenze macroeconomiche che già favorivano il calo dei tassi d’interesse e infine anche dannoso. I danni, in linea con l’interpretazione conservatrice delle origini del collasso del credito immobiliare, sarebbero stati originati anche dall’estensione “forzosa” del credito ai redditi bassi, ovvero in gran parte alle minoranze. Prima emarginati dal cosiddetto red-lining – vale a dire la pratica di escludere gli afro-americani e i loro quartieri dal credito immobiliare – le minoranze sono state poi le destinatarie di un eccesso di credito, in gran parte predatorio, che ne ha gonfiato la domanda. Se i conservatori usano questo argomento per accusare le politiche pro-minoranze dei Democratici, la sinistra radicale lo usa per sottolineare – si veda il recente volume “SubprimeCities”, introdotto da David Harvey – come il sistema del credito abbia riorientato le proprie tendenze discriminatorie in senso speculativo.

Le analisi che propongono la liquidazione dell’interventismo federale, però, tendono a omettere un aspetto fondamentale dell’intera controversia, vale a dire la progressiva finanziarizzazione del bene immobiliare e la sua trasformazione in una leva finanziaria in grado di dissimulare il calo dei redditi reali di fasce molto larghe della società. Se fosse possibile, una politica a sostegno della homeownership capace di prevenire gli effetti più disastrosi della finanziarizzazione del settore immobiliare apparirebbe desiderabile a fasce molto ampie dell’elettorato sia democratico sia repubblicano. Così facendo, l’idea della proprietà della casa potrebbe essere ricondotta alla sua ideologia pre-deregulation: incarnazione di un’etica  del lavoro capace di generare ricchezza e non di dissiparla, baluardo della convivenza locale in comunità in cui il possedere è visto come uno dei fondamenti indispensabili della cittadinanza. In altre parole si dovrebbe tornare a quando la proprietà della casa era il segno del successo della working-class e non della sua necessità di fare leva sulla ricchezza immobiliare per obliterare il declino dei salari. La retorica del “rebuilding the middle class” portata avanti dai Democratici nel 2008 muoveva anche da lì: proprietà immobiliare radicata nell’economia reale e nel lavoro.

Mettendo da parte questi scenari desiderabili ma forse anacronistici rimane il dilemma di cosa fare delle agenzie e delle politiche federali. Il ruolo del governo di Washington nelle politiche per la casa rappresenta certo un caso di big government, ma di big government messo al servizio dell’estensione della proprietà, del capitalismo e dei suoi valori. Quello della homeownership è stata una passione largamente bipartisan, e la proprietà immobiliare di massa ha a lungo rappresentato un’arma temibile nell’arsenale del soft power del capitalismo occidentale. Il fatto che fasce sempre più larghe della società potessero possedere un immobile equivaleva a dimostrare concretamente la capacità integratrice del capitalismo, perfino di quello post-industriale e post-keynesiano. Rinunciare all’interventismo federale sarebbe un duro colpo per i Democratici, che dovrebbero mettere in discussione il loro impegno trentennale a sostegno dell’accesso delle minoranze alla proprietà. Ma in fondo lo sarebbe anche per i Repubblicani, che dovrebbero accettare realisticamente la contrazione della proprietà, il restringersi del mercato dei mutui e forse – certo protestando – addirittura una qualche resurrezione di politiche di sostegno al mercato degli affitti, se non addirittura di una qualche forma di public housing.

Oggettivamente è molto difficile distinguere nel medio periodo responsabilità repubblicane e democratiche nella costruzione formulazione delle politiche che hanno condotto al collasso della finanza immobiliare e poi alla recessione. La deregulation finanziaria è stata infatti perseguita da entrambi i partiti e l’obiettivo della homeownership per tutti è stato propagandato da Bill Clinton come da George W. Bush: negli anni di Bush il mandato a Fannie e Freddie e di espandere il credito nei confronti dei redditi bassi non è stato solo confermato ma addirittura ampliato. 

Insomma, la tradizionale contrapposizione filosofica tra progressisti e conservatori nel dibattito tra big government e small government potrebbe non reggere alla prova dei fatti. Oggi, quello di ridimensionare l’intervento federale a favore dell’homeownership tornando a investire nelle politiche dell’affitto potrebbe essere a tutti gli effetti un obiettivo progressista; allo stesso tempo il tenere in piedi la macchina dei sussidi e delle garanzie federali potrebbe essere egualmente un obiettivo conservatore se questo servisse a costruire una società di proprietari e ad alimentare i circuiti del liberismo finanziario.

Vanno infine considerati gli interessi stratificatisi attorno alle strutture delle politiche della homeownership a partire, ovviamente, da quelli finanziari. La risposta saggia sarebbe forse avere meno governo in un mercato immobiliare il cui peso nell’economia reale andrebbe drasticamente ridotto. Ma si tratta di una proposta che ha davvero poco appeal per gli elettori americani (e non solo). Di conseguenza, il presidente (e candidato) Obama si limita a rivendicare le proprie politiche a sostegno dei proprietari in difficoltà, mentre in campo repubblicano la parte del liberista cattivo la fa il candidato alla vicepresidenza Paul Ryan, che da sempre propone il ritorno tout-court del credito immobiliare al mercato. Mitt Romney non dice molto se non che bisogna lasciare che il mercato immobiliare tocchi il fondo per poi risalire con le proprie forze. Ma sul futuro delle costosissime politiche per le homeownership – un campo affollato di attori, interessi organizzati e significati simbolici – non si è ancora udita una parola chiara. Ed è lecito supporre che il silenzio duri almeno fino al voto di novembre.