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Valore e lavoro: ripensare il capitalismo

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La crisi attuale, pandemica e quindi economico-finanziaria globale, pone il problema del lavoro, unitamente al tema digitale, al centro della riproduzione della società in forma omeostatica con la difesa della salute e mai in forma separata: questa è la tendenza che prevarrà se vogliamo sopravvivere e che fa apparire l’incompetenza e i conflitti di interesse come residui manifesti di un mondo che muore.

L’ innovazione globalmente intesa, dalla tecnologia alla morale, è la sola via di salvezza. Il capitalismo, se vuole sopravvivere, deve cambiarsi per conservarsi, rispetto al tema del lavoro, riconducendo la tecnologia al ruolo più corretto di supporto al lavoro umano, elemento base del valore per ogni organizzazione.

E dovrà sorgere, di già sorge spontaneamente, dal lavoro umano associato una sorta di nuova territorialità con la scoperta che la delocalizzazione non è inevitabile.

Oggi, anche coloro che credevano nel mercato (o vi credono ancora), nella virtù allocativa ottimale del mercato, scoprono che la delocalizzazione ha delle esternalità negative su molteplici aspetti della vita sociale: dal lavoro all’ambiente, alla qualità dei prodotti e dei processi di produzione e distribuzione.

Ma è anche l’ora della rifondazione dei miti della nuova semantica del landscape ideologico globale.

Senza questo ripensamento,  per citare un archetipo emerso con prepotenza, l’economia circolare come nuovo modello di produzione e non solo di riciclaggio dei rifiuti non ha possibilità alcuna di inverarsi, così come la lotta contro il cambiamento climatico, senza una trasformazione rifondativa.

In tal modo anche il cosiddetto “interesse nazionale” sarà riclassificato e troverà un saggio fondamento non aggressivo, ma invece costruttivo.

E vi sono già emblematiche realizzazioni imprenditoriali creative a questo riguardo in tutto il mondo.

Ricostruire e costruire, per esempio,  la manifattura nei territori tanto del Sud quanto del Nord del mondo, farà parte di un continuo lavoro di manutenzione e di riproduzione dei sistemi sociali territorialmente insediati nel pianeta, sia in forma stabile, sia in forma migratoria e in cerca di un radicamento.

In questo dobbiamo impegnarci sulla base della riscoperta di antichi modelli sapienziali e scientifici.

Secondo la prospettiva dell’entropia[1], per esempio, le nozioni classiche di valore, come il valore d’uso e di scambio, non fanno che aumentare l’entropia stessa: il valore d’uso non è altro che l’usura stessa del bene, quindi aumenta l’entropia, giacché l’entropia non è che la dissipazione dell’energia. E il valore di scambio, cioè la possibilità di un bene di cambiare infinitamente di località (per essere scambiato), non fa che aumentare l’entropia. Molto empiricamente: consumando energia per spostare il bene in questione si genera sempre nuova entropia. Se definiamo “valore pratico” ciò che non aumenta e possibilmente riduce l’entropia, scopriamo che la vera ricchezza è qualcosa che non è calcolabile matematicamente o algebricamente: è valore relazionale, asset immateriale – come la fiducia, la roussoiana pietà, la misericordia, la benevolenza[2]. Il “valore pratico” incarna un sapere che prende cura, o meglio, risponde a un problema, e come tale non può essere che locale, persino singolare, il cui valore anti-entropico è locale e non necessariamente globale. Poiché ciò che può avere valore in Scandinavia, non necessariamente lo ha tra le tribù nomadi del Sahara.

La località del “valore pratico” non si riduce alla semplice scarsità locale di materie prime o prodotti, benché possa essere una componente che ne determina il valore pratico, che implica sempre un aumento del “sapere” e quindi la possibilità di “biforcare”. E non si possono monetarizzare quelle dimensioni dello scambio extraeconomico, che avvengono attraverso la valutazione di un servizio su una piattaforma come Uber, Amazon o Deliveroo: queste logiche sono sempre interne agli algoritmi che producono strutturalmente l’entropia e nessun vero valore relazionale.

Ma questo non significa che bisogna, come i luddisti, rigettare la tecnica e le nuove tecnologie: al contrario!

Occorre costituire una collettività che abbia i “saperi” che permettano di “biforcare”, produrre alternative, interagendo consapevolmente con i sistemi complessi artificiali che costituiscono il proprio ambiente sociale. Di fronte all’esponenziale sviluppo delle tecnologie, occorre prevedere che le ore di lavoro (non di impiego) dovranno essere integrate e alternate da ore di formazione, aggiornamento, ricerca per esprimere al meglio il potenziale soggettivo durante le ore di lavoro. La vera sfida è la territorializzazione delle istituzioni senza perdere la dimensione scalare offerta dalla tecnologia digitale e dal mercato globale: la tecnologia “blockchain” può strutturare le interazioni locali dell’economia, ma anche  cercare di porre le basi di un dispositivo atto a  “contabilizzare” il “valore pratico” a tutti i suoi livelli micro, meso e macro.

 

 


Note:

[1] T. Georgescu-Roegen , Analytical Economics: issues and problems, Harvard University Press Cambridge, Mass.: 1966 e il fondamentale:The Entropy Law and the Economic Process,.: Harvard University Press Cambridge, Mass 1971.

[2] J.Navarro Valls e G Sapelli, Può la benevolenza cambiare il mondo?in di G, Sapelli, “Economia, Impresa, Società. Saggi e articoli dal 1998 al 2016”, Edizioni GoWare e Fondazione ENI Enrico Mattei, Milano, 2016, pp5-18.