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Tra le proteste pacifiche e i saccheggi, uno scontro istituzionale

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Anche nel caso George Floyd, Donald Trump ha scelto la strada dello scontro. Dopo un’iniziale apertura – quando diceva che i dimostranti “protestano per i giusti motivi” – il presidente si è lanciato in una serie di attacchi durissimi. Ha definito i manifestanti “feccia” e thugs, teppisti. Ha tirato fuori lo slogan di un vecchio capo della polizia di Miami, che nel 1967 spiegava che “quando iniziano i saccheggi, si inizia a sparare”. Ha evocato “cani aggressivi e fucili” per bloccare le proteste. Ha chiesto l’intervento dell’esercito. Ha twittato, tutta in maiuscolo, la frase LAW AND ORDER. Ha fatto sgomberare l’area attorno alla Casa Bianca per farsi una foto di fronte alla St. John’s Episcopal Church, con una Bibbia tra le mani.

 

La strategia di Trump appare chiara. Nessuna comprensione per le richieste dei manifestanti. Nessun cedimento sulla questione del razzismo – “ci sono nella polizia alcune mele marce, ma non esiste un razzismo sistemico negli Stati Uniti”, come ha spiegato Robert O’Brien, il Segretario alla Sicurezza Nazionale. Le parole chiave, in questo momento, sono proprio “law and order”. Il presidente si propone all’opinione pubblica come il restauratore dell’ordine minacciato dai disordini razziali. È la stessa strada che seguì Richard Nixon nella campagna elettorale del 1968 (in due anni, tra il 1967 e il 1968, si contarono oltre 150 rivolte razziali nelle città americane). Ed è la strada che proprio Trump scelse alle presidenziali 2016, con il tema dell’American carnage, l’impoverimento e quasi l’umiliazione della classe media bianca, cui l’allora tycoon prometteva di rimediare con una presidenza energica e riparatrice dell’antica grandezza.

Ci sono poche certezze – tra gli stessi consiglieri della Casa Bianca – sul fatto che questa strategia possa funzionare. Nel 1968, Nixon era il candidato che cercava di strappare la Casa Bianca ai Democratici. Lo stesso vale per Trump nel 2016. Oggi il presidente è in carica da quasi quattro anni ed è curioso che intenda proporsi come restauratore di un ordine che lui stesso non è riuscito a garantire, visto che si è sistematicamente posto in contrasto con l’establishment e accusato il “deep state” di cospirare contro la presidenza. Di fronte all’esplodere della crisi, Trump reagisce del resto nell’unico modo che conosce: aggredendo, dividendo il mondo in amici e nemici, soffiando su rabbia e frustrazione. L’obiettivo desiderato è chiamare a raccolta il mondo conservatore ma anche l’elettorato moderato bianco – quello dei sobborghi urbani, soprattutto i più anziani – che assiste con disagio alle immagini delle città americane travolte da manifestazioni e disordini.

Quanto questa strategia possa davvero aver successo è, per l’appunto, in dubbio. Non sono infatti soltanto i Democratici e in generale il mondo più liberal e progressista a reagire con un senso di indignazione alle uscite di Trump. È lo stesso mondo conservatore, in questa occasione, a esprimere molte riserve. Guardiamo per esempio alla reazione di Fox News di questi giorni. Fox è stata, negli anni, un baluardo del trumpismo più ortodosso. Anche se il presidente si è recentemente lamentato per certe posizioni meno allineate, la rete tv resta un utile indicatore delle attitudini dei conservatori americani. Ebbene, in questa occasione il sostegno alle posizioni di Trump è stato tutt’altro che granitico. Jeanine Pirro, ex procuratrice distrettuale repubblicana e incarnazione dell’appello a “legge e ordine”, si è presentata a “Fox & Friends” e ha espresso tutto il suo orrore per i fatti di Minneapolis: “George Floyd stava implorando, non riusciva a respirare, ripeteva ‘vi prego, vi prego’ –ha detto Pirro – L’uomo che ha messo il ginocchio sul collo di George Floyd non merita di restare libero in questo Paese”.

Stessa indignazione da una delle voci più radicali del giornalismo conservatore. Rush Limbaugh, intimo di Trump, da poco insignito dal presidente della “Medal of Freedom”, è andato in onda in uno dei suoi show radiofonici ed è stato molto chiaro. Ha così spiegato: “Guardate, gente della polizia, io sono in cima alla lista delle persone che vi appoggiano e capiscono quanto sia duro il vostro lavoro… Ma non riesco a trovare un modo per spiegare quanto successo. Non riesco a trovare un modo per giustificarlo”. È vero che altre voci importanti del conservatorismo televisivo hanno mostrato meno comprensione verso le proteste. Tucker Carlson, uno dei volti di Fox preferiti da Trump, ha definito i manifestanti “una folla criminale”. Laura Ingraham e Sean Hannity li hanno accusato di “sfruttare la morte di George Floyd”. Ma, nell’insieme, la reazione del variegato arcipelago dei commentatori della destra appare ben lungi dal dimostrare un appoggio compatto a Trump.

La stessa cosa vale per altri settori della società da sempre baluardo del conservatorismo americano. Il fastidio e il timore degli ambienti militari sono stati espressi da James Mattis, ex segretario alla Difesa proprio di Trump, generale in pensione, che si dice “arrabbiato e stupefatto” per la gestione della crisi e gli “abusi di potere” del presidente. Per Mattis, gran parte dei dimostranti “difendono i valori americani”. Un segnale molto chiaro dell’atteggiamento dei generali viene anche dalla dichiarazione dell’attuale capo del Pentagono, Mark Esper, secondo cui l’esercito non deve essere usato per funzioni di polizia delle strade e un suo intervento “può essere considerato soltanto come ultima risorsa”. Quando a Trump è venuto in mente di tirar fuori una vecchia legge del 1807, l’ “Insurrection Act”, per sedare le proteste, è stato proprio un militare, il generale Mark Milley, chairman del Joint Chiefs of Staff, a dire di no.

In altre parole, i militari vogliono restare fuori da un conflitto in cui Trump cerca a tutti i costi di infilarli. “Siamo nel momento più pericoloso per le relazioni tra civili e militari che io abbia mai visto nella mia vita”, ha ammesso un ammiraglio in pensione, Sandy Winnefeld. Dispiegare l’esercito per strada, contro i dimostranti, potrebbe avere conseguenze disastrose. A proposito poi di polizia – da sempre uno dei serbatoi di consenso più affidabili per il presidente – c’è un altro episodio incredibilmente significativo. Il capo della polizia di Houston, Art Acevedo, ha detto di parlare a nome del suo corpo e ha chiesto a Trump di “tener la bocca chiusa, se non hai qualcosa di costruttivo da dire”. Anche qui il messaggio non potrebbe essere più limpido. A forza di tweet, battute estemporanee, foto-simbolo, il presidente rischia di far precipitare la situazione.

L’atteggiamento non cambia se ci volgiamo al mondo politico repubblicano. Le dichiarazioni di questi giorni, a decine, sono improntate a prudenza, attesa, desiderio di non infiammare gli animi. Una reazione tipo può essere considerata quella di J. McCauley Brown, potentissimo chairman del partito repubblicano del Kentucky, che ha detto che “è una disgrazia che alcuni scelgano la violenza”, aggiungendo però che “la morte di Floyd è tragica… e posso del tutto capire perché la gente protesta”. Tra l’altro, proprio in questi giorni, è successo un fatto importante. Steve King, esplosivo deputato dell’Iowa, ha perso le primarie per tornare in lizza il prossimo novembre. King, in questi anni, è salito alla ribalta per le sue dichiarazioni razziste, xenofobe, in difesa della “civilizzazione occidentale” e del suprematismo bianco (teneva una bandiera dell’America confederata sulla scrivania). Dopo anni di scontri e polemiche, gli elettori dell’Iowa hanno mandato a casa King e scelto un repubblicano più moderato, Randy Feenstra, per rappresentarli a novembre. Un segnale abbastanza chiaro di come la maggioranza del popolo repubblicano, in uno Stato conservatore del Midwest, non abbia gran voglia di infilarsi in ulteriori battaglie di supremazia razziale.

È questo ampio mondo conservatore che reagisce con diffidenza, timore, fastidio, freddezza alla gestione che Trump offre della crisi. Del resto, l’omicidio di George Floyd pare uno spartiacque difficile da superare. L’efferatezza dell’omicidio, ripreso dai passanti senza che gli agenti se ne dessero preoccupazione, mostra il grado di abuso che molti afro-americani, soprattutto i maschi più giovani, devono sopportare nelle città americane. Su un omicidio così esibito ed inutile si innestano sofferenze antiche e recenti, non ultima l’emergenza Covid-19 che ha duramente toccato le comunità nere. Solo in Minnesota – dove a Minneapolis è stato ucciso Floyd – i neri rappresentano il 6% della popolazione ma il 30% dei contagiati dal coronavirus.

La brutale realtà dei fatti non può essere negata e impone un ripensamento anche al mondo repubblicano e conservatore. Donald Trump appare sintonizzato su tutt’altra lunghezza d’onda e questo preoccupa parte della realtà sociale di riferimento – che teme che caos ed esasperazione dei conflitti possano non pagare alle prossime presidenziali. È insomma come se il “massacro americano” fosse alla fine arrivato per davvero, ma che a crearlo e a gonfiarlo sia stato il presidente repubblicano.