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Crepuscolo del disarmo e insicurezza europea

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Nel malandato scafo della sicurezza europea si è aperta una nuova falla: il 22 maggio Washington ha notificato il ritiro dal Trattato Cieli Aperti, firmato nel 1992 per promuovere la trasparenza sulle attività militari e a cui aderivano USA, Canada, la maggior parte dei Paesi europei e la Russia. Distratta da Covid-19, l’Europa ne ha preso nota con rassegnazione. Problemi e rischi legati al controllo e limitazione degli armamenti, specie nucleari, sono tuttavia destinati a farci compagnia ben più a lungo della pandemia. Le armi nucleari, come scrive Jared Diamond sul Financial Times, sono un “rischio esistenziale” al pari dei cambiamenti climatici e della sostenibilità delle risorse naturali; Covid-19 no.

 

Il Trattato offre ai 35 firmatari la rassicurazione di una limitata “licenza di spionaggio aereo” per sorvegliarsi l’uno con l’altro. Senza gli Stati Uniti è condannato all’estinzione, tanto più che c’erano già inadempienze russe. Gli americani sostituiranno i satelliti agli aerei; idem i russi; gli europei molto meno. Il venir meno di quest’accordo è sintomatico delle faglie strutturali dell’intera architettura pattizia su cui ha poggiato la sicurezza dell’Europa per oltre un quarto di secolo.

Le crepe di quell’edificio hanno l’effetto secondario di aprirne un’altra – transatlantica. Dall’osservatorio privilegiato della NATO, c’è chi vede in prospettiva un’Europa sempre più “oggetto anziché soggetto di sicurezza”, vaso di coccio fra USA, Russia e Cina. Le tre grandi potenze militari scelgono di aver le mani sempre più libere da vincoli – Mosca e Washington liberandosi di quelli passati, mentre Pechino vi si è sempre sottratta; gli europei ne subiscono le conseguenze.

Molti osservatori – europei, americani, russi – hanno prontamente notato che di tutta l’impalcatura di controllo e limitazione degli armamenti rimane ormai in piedi un solo pilastro: il New START bilaterale russo-americano (Trattato per la Riduzione delle Armi Strategiche) del 2010, in scadenza il 5 febbraio del 2021. Mosca e Washington stanno negoziando, e non è escluso che se raggiungono un accordo salveranno anche Cieli Aperti (il ritiro americano prende effetto sei mesi dopo la notifica). Ma i precedenti, e la ratio della decisione americana, non inducono all’ottimismo.

Ecco i precedenti. Nel 2002 gli USA si ritirano dal Trattato ABM (Anti-Missili Balistici) del 1972 per portare avanti il programma di difesa missilistica. La Russia prima sospende (2007) poi pone fine (2015) al Trattato CFE sulle armi convenzionali in Europa del 1990. Nel 2018 Washington annuncia l’uscita dal Trattato INF (sulle forze nucleari intermedie – gli “euromissili”) del 1988, che poi sospende il 1° febbraio del 2019, seguita a ruota dalla Russia (2 febbraio). Dietro ciascun passo ci sono motivazioni, giustificazioni, comportamenti e insoddisfazioni specifiche, nonché naturalmente contestazioni di violazioni altrui.

Si possono individuare due rispettive molle: l’aggressività militare russa “nell’estero vicino”, poi estesasi al Medio Oriente (Siria) e Mediterraneo (Libia); il crescente unilateralismo americano. Le riserve di Vladimir Putin sul CFE erano fondate in quanto il Trattato era costruito su una URSS e un Patto di Varsavia che non esistevano più, ma le ragioni vere per cui si è voluto liberare di quei vincoli pattizi vanno cercate nelle operazioni strategico-militari che poi ha condotto in Georgia, Crimea, Donbass. Dopo che Jim Mattis ha lasciato il Pentagono (è stato Segretario alla Difesa dal gennaio 2017 al dicembre 2018), l’amministrazione Trump non fa più neppure mostra di consultare gli alleati europei, informati della decisione di abbandonare Cieli Aperti solo ventiquattrore prima. L’Europa si trova regolarmente di fronte ad iniziative destabilizzanti russe, come lo schieramento dei missili balistici Iskander a Kaliningrad, nell’enclave russa tra Paesi Baltici e Polonia, e al fatto compiuto americano.

Il promettente regime di controllo e limitazione degli armamenti con cui era cominciato il XXI secolo è chiaramente in crisi. I due principali attori hanno perso interesse, anzi sembrano convergere tacitamente nella scelta di eliminare, uno alla volta, gli accordi. Strapparsi le vesti è però inutile. Bisogna invece capire i “perché” di quanto sta avvenendo. Elementare, Watson, direbbe Sherlock Holmes: è la Cina. A che serve a Washington e a Mosca legarsi le mani a vicenda se non sono legate anche quelle di Pechino? Gli americani non ne hanno fatto mistero nello spiegare il ritiro dall’INF e, ancor più, dai Cieli Aperti; nell’informativa relativa al secondo hanno parlato molto più di Cina che non di Russia. I russi non lo dicono, ma lo pensano.

Il controllo degli armamenti era comunque già in perdita di velocità sul piano bilaterale russo-americano. Nel dopo guerra fredda l’arma nucleare, specie quella tattica e a corta-media gittata, è diventata particolarmente importante per Mosca per compensare il complesso d’inferiorità negli armamenti convenzionali alimentato dalla superiorità tecnologica occidentale, dall’allargamento della NATO verso i suoi confini e dalla sindrome di accerchiamento territoriale. L’atomica era diventata l’ancora di sicurezza della Russia, oltre che titolo al residuo status di superpotenza.

Fallisce così sul nascere, con tacita complicità francese e britannica (soprattutto di Parigi), il tentativo di avvicinarsi all’opzione “zero”, l’eliminazione di tutte le testate atomiche, propugnata all’inizio dell’amministrazione Obama. Per i russi l’idea di rinunciare all’arma atomica è pura ingenuità. Danno la luce verde (2010) solo alle riduzioni strategiche del New START (missili intercontinentali) dove i due Paesi conservano un’indiscussa schiacciante superiorità sulla Cina e su tutti gli altri. Da parte loro gli americani vogliono conservare il vantaggio tecnologico e spingono sulla difesa missilistica, da sempre bestia nera di Mosca. L’amministrazione Obama ne riduce la portata ma non convince i russi dell’idea che questa serva solo contro l’Iran.

Dunque, la “cultura” del controllo degli armamenti era già in crisi di fiducia e d’interessi nazionali dei due protagonisti storici quando v’irrompe il fattore Cina. Oggi l’esigenza d’includervi Pechino è dominante e condizionante di futuri progressi. “Il controllo degli armamenti non può più essere bilaterale”, osservava recentemente David Ignatius. USA e Russia possono forse ancora salvare il New START ma oltre non andranno.

New START è importante per il clima generale fra NATO e Russia ma riguarda praticamente solo le testate nucleari che possono raggiungere direttamente gli Stati Uniti dalla Russia, e viceversa – le limita attualmente a 1550 per parte.  Non tocca le armi che potrebbero essere usate in Europa. Il rinnovo farebbe giustamente la gioia del pubblico europeo, ma poco per la sicurezza europea.

Per far sentire la loro voce a favore delle dinamiche di limitazione degli armamenti, gli europei hanno innanzitutto bisogno di acquistare una maggiore credibilità militare, soprattutto nella NATO. Finché, a mani vuote o semivuote, chiedono il disarmo solo altrui non c’è da stupirsi che non siano presi sul serio. Il risultato è che non hanno altra scelta che avallare le decisioni degli USA da cui dipendono per la propria sicurezza, come avvenuto con l’INF e con Cieli Aperti.

Occorre poi mettere la Cina di fronte alle responsabilità di seconda potenza mondiale. Tocca anche all’Europa farlo. Vale per il commercio come per le armi. Pechino non può più né invocare lo status di paese in via di sviluppo né ritenersi legibus soluta da un rinnovato regime multilaterale di controllo degli armamenti. Non sono necessari i toni sopra le righe dell’amministrazione Trump, ma conta il messaggio. Un’azione europea in questo senso sarebbe sicuramente ben accolta a Washington. A Mosca non dispiacerebbe. Aiuterebbe Pechino a far fronte alla realtà del proprio straordinario successo internazionale che comporta oneri, non solo onori.