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Russia e Ucraina: il pericoloso ‘non sequitur’ di Putin

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La questione ucraina, rilevante già di per sé, riguarda in effetti l’intero assetto di sicurezza dell’Europa e di buona parte dell’Eurasia. I giorni tra il 10 e il 13 gennaio hanno visto una serie di incontri ad alto livello, in tre diversi formati (USA-Russia, NATO-Russia, OSCE), che possono essere sintetizzati in una frase presa a prestito dal Segretario Generale della NATO, Jens Stoltenberg: “restano differenze significative, non facili da colmare, e c’è un reale rischio di conflitto armato in Europa”. Non è certo un quadro tranquillizzante, sebbene sia decisamente positivo il fatto stesso che siano stati attivati tre tavoli negoziali, senza che il dialogo si sia interrotto. .

Soldati ucraini pattugliano la linea del fronte con i separatisti russi nella regione del Donetsk

 

A conferma della situazione grave in cui ci troviamo, l’amministrazione Biden ha annunciato che, in caso di un’intensificazione della crisi ucraina, prenderà in considerazione una serie di sanzioni nettamente più dure rispetto a quelle imposte nel 2014 a seguito dell’invasione russa della Crimea. Il Capo di Stato Maggiore della Difesa americano, Generale Mark Milley, ha rincarato la dose precisando che il governo di Kiev potrebbe ricevere consistenti aiuti militari da Washington per difendersi e rendere assai costosa un’operazione militare russa.

 

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Da parte sua, Mosca ha presentato la questione ucraina come parte di un problema più ampio: il Viceministro degli esteri, Aleksandr Grushko, ha dichiarato che quella russa è una “posizione di principio”, appellandosi però a una visione delle relazioni internazionali che di fatto nega la piena sovranità ucraina sul proprio territorio.

Il primo nodo da sciogliere – o forse da aggirare – è in effetti proprio quello delle questioni di principio.

La Russia di Vladimir Putin sta chiaramente tentando di ricostruire o consolidare una sua sfera di influenza, adottando una classica logica di forze contrapposte. Come ha espressamente indicato lo stesso Viceministro, si tratta di ricercare “soluzioni pacifiche basate sull’equilibrio”. Stiamo dunque parlando di un equilibrio di potenza, per usare in forma più compiuta il tradizionale gergo della Realpolitik.

Il fatto che poi la politica di potenza sia in costante aggiornamento – tra strumenti “ibridi” e cyberwar – non toglie che la sua logica resti la stessa di sempre, e che la Russia la interpreti nel modo più assertivo nel cosiddetto “estero vicino”.

Qui si apre però lo spiraglio per una possibile via d’uscita dall’attuale impasse, se i Paesi della NATO fossero disposti a immaginare un compromesso molto pragmatico. Di fatto, l’Alleanza non prevede un ingresso a pieno titolo dell’Ucraina (e della Georgia, altro caso molto controverso) in un futuro prevedibile. Tanto è vero che il percorso di adesione (MAP) non è mai stato attivato dopo il vertice di Bucarest del 2008. Un ulteriore allargamento della NATO resterà tecnicamente sempre possibile, a discrezione dei suoi membri – dunque, senza alcun veto russo – ma andrebbe politicamente tolto dal tavolo negoziale in questa fase specifica. Si tratta di trovare una formula che lo permetta, in accordo con Kiev.

E’ importante notare che un approccio del genere non implicherebbe neppure l’abbandono dei principi più generali giustamente cari agli europei (e agli USA) che, ad esempio, sono alla base dell’OSCE: il pieno rispetto della sovranità, cioè dei confini, e al contempo la tutela dei diritti fondamentali al loro interno. In altre parole, un’architettura di sicurezza continentale (o meglio macro-continentale) fondata sul rispetto dei confini e su una qualche tutela dei diritti umani teoricamente esiste già, e non sarebbe contraddetta da un’intesa più specifica sull’Ucraina. Peraltro, alcuni hanno parlato in questi mesi proprio di una “Helsinki 2”, riecheggiando appunto l’atto fondativo della Conference on Security and Cooperation in Europe del 1975 da cui è poi derivata l’OSCE (Organization for Security and Cooperation in Europe) nel 1994. Sarebbe un’ottima idea soprattutto se si inserisse nell’eventuale nuovo accordo una clausola sui diritti umani come avvenne nel 1975, senza che l’allora Unione Sovietica desse troppo peso alla cosa – con un notevole errore di valutazione, vista la rilevanza che assunse ad esempio per un fenomeno come Solidarność in Polonia pochi anni dopo.

Eppure, perfino un’intesa di questo tipo non basterebbe probabilmente a risolvere il problema di fondo: la Russia ritiene di essere stata umiliata e in qualche modo tradita dall’Occidente senza aver realmente perso la guerra fredda – essendosi cioè arresa senza combattere. La prova evidente sarebbe l’allargamento della NATO e l’intervento militare dell’Alleanza nella ex-Jugoslavia (in particolare contro la Serbia nel 1999). Questa interpretazione del recente passato spiega perché Putin insista, a intermittenza e da molti anni, nel ricorrere alla minaccia militare e in alcuni casi all’uso diretto della forza. In sostanza, è convinto che non ci sia altra strada per ottenere concessioni da USA ed Europa, troppo più forti economicamente e troppo più attraenti come modello per i Paesi dell’ex blocco sovietico. Il guaio è che, così facendo, Mosca avvera proprio la profezia che vorrebbe evitare: i Paesi vicini si sentono effettivamente minacciati e dunque cercano di accelerare l’avvicinamento alla NATO e/o all’Unione Europea – anche quando non ne condividono in pieno i valori e le regole, come mostrano i casi dell’Ungheria, in parte della Polonia, o in modo diverso della Serbia. Del resto, almeno il precedente della Crimea – invasa nel 2014 – corrobora la tesi di un imperialismo russo che non accenna a placarsi.

 

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In questa dinamica, la NATO stessa viene quasi attirata fatalmente in una trappola, rispondendo in forma ambigua alle richieste di sostegno da parte di Paesi come l’Ucraina, pur non avendo intenzione di integrarli nell’Alleanza. E’ logico salvaguardare il diritto generale di accogliere nuovi membri, ma l’incertezza si inserisce in un contesto di sfiducia e dunque non aiuta il dialogo. In quell’ambiguità si crea invece lo spazio per le tensioni con la Russia, fino alle minacce reciproche degli ultimi mesi.

C’è però una trappola, o meglio un’illusione, ancora più pericolosa da cui deve guardarsi anzitutto la Russia: quella della storia. E’ chiaro a tutti che la storia plasma l’identità di ciascun Paese e di ciascuna società, lasciando segni profondi e cicatrici. E’ altrettanto chiaro che le rivendicazioni basate su presunti diritti storici portano a conflitti insanabili, proprio perché di tipo identitario. Purtroppo, le rivendicazioni russe fondate su una storia che sembra non chiudersi mai sono oggi sfruttate da Putin per orientare il futuro del suo Paese.  Lo ha ricordato drammaticamente il lungo documento che il Presidente della Federazione Russa ha pubblicato la scorsa estate, sottolineando che russi, ucraini e bielorussi sono tutti discendenti del più vasto Stato europeo di sempre (“Rus”, meglio noto come “Russia di Kiev”).

Una nave dei variaghi – mitico popolo secondo la leggenda all’origine della Rus’ di Kiev- nel dipinto del simbolista russo Nikolaj Konstantinovič Rerich

 

Quel che più conta, il leader del Cremlino ha aggiunto che, dunque, una vera sovranità per l’Ucraina è possibile soltanto in partnership con l’attuale Federazione Russa – un tragico non sequitur che rischia di determinare la direzione della sicurezza europea.