Passaggi in India – Nuove vie per mare e terra
Tutte le strade che portano a Delhi
Crescere significa aumentare le proprie connessioni. Questo processo è evidente in un organismo biologico, che si sviluppa insieme alle sue diverse reti neurali, ma anche negli organismi sociali, siano essi città, Paesi o continenti interi. Avere buoni collegamenti è anche un modo di dire che connota la capacità di ognuno di noi di poter essere un’interfaccia. Che significa insieme essere fonte o destinatario di informazione, e quindi capace di azione.
Nel caso di una città i collegamenti, ad esempio quelli delle reti di trasporto o della rete elettrica, sono autentiche piattaforme logistiche che decidono molto della sua vivibilità e quindi del suo futuro economico e politico. Quando si tratta di un Paese, i suoi collegamenti dicono molto della sua capacità di stare nel mondo. Quindi di essere, ad esempio, un valido partner commerciale, o una buona meta turistica. Se parliamo di un continente, questi collegamenti sono nientemeno che vitali, in un mondo che nonostante certe vulgate che dicono il contrario, si globalizza sempre di più.
L’India, considerata un sub-continente, ha avuto in sorte di essere troppo grande per essere un semplice Paese e troppo piccola per essere un continente. Questa sub-identità, meravigliosamente espressa dalla sua geografia che la fa sporgere come un gigantesco cuneo fra due mari e sopra un oceano che le è stato intitolato, genera notevolissime complessità logistiche e anche esistenziali. Non essere abbastanza grande da candidarsi a partecipe dell’egemonia, né abbastanza piccolo da contentarsi di un posto nel mondo, metterebbe a rischio qualunque senso di autostima. Specie se vicino insistono due quasi-continenti come la Cina e la Russia che sommano quasi l’intera Asia. Solo da alcuni decenni, infatti, e al prezzo di guerre fratricide, l’India ha iniziato a pensarsi come un’eccezionalità, scoprendo al contempo che fra il dirlo e il praticarlo corre assai più mare di quello che la circonda.
La crescita delle connessioni indiane
Oggi la vulgata colloca l’India nel novero delle grandi speranze del secolo XXI, persino più della Cina, ormai decaduta nell’immaginario collettivo sia per le vicissitudini che affliggono la sua demografia e quindi, in prospettiva, la sua economia, sia perché ormai, molto banalmente, la Cina non è più di moda. Rimane un grande argomento, a volte un problema, visto che ispira diverse diffidenze, ma a nessun occidentale brillano più gli occhi di ammirazione quando parla della Repubblica Popolare come accadeva di osservare fino a qualche anno fa.
L’India però non è la Cina. Manca di quelle caratteristiche che fecero credere a molti di poter trasformare quel grande Paese governato dal partito unico nell’officina del mondo. Attrae per la vastità del suo mercato, per la quantità e la qualità della sua popolazione, ma non riesce a far convergere su di sé le grandi catene di fornitura, ancora saldamente orientate verso la Cina. E questo probabilmente perché l’India, detto semplicemente, ha ancora poche connessioni. Se vuole crescere deve svilupparne di nuove.
Si apre così una serie di problemi complessi. La storia dell’India è strettamente intrecciata con quella del mondo iranico ed islamico, anche se uno dei suoi rivali culturali è oggi il Pakistan – a cui in passato era etnicamente unita. D’altro canto, sin dal tempo degli zar, i Russi sognano l’India: ieri per far dispetto agli inglesi, oggi agli americani, consci che il sub-continente ha un disperato bisogno di risorse energetiche. L’India da parte sua sa perfettamente, come lo sa ogni Paese emergente, che ha necessità del capitale occidentale per attraversare la lunga strada che conduce a uno sviluppo sostenibile. L’India, insomma, ha bisogno di tutti. E tutti, poiché comunque rimane un sub-continente che si affaccia lungo le grandi rotte globali di collegamento, devono avere a che fare con l’India.
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Trasformare questi dilemmi esistenziali in una prospettiva politica è arduo, e costringe ad abbracciare il tuo nemico più del tuo amico, ben sapendo che molto facilmente si scambiano i ruoli. Bisogna, in ogni caso, aumentare le connessioni. Solo così si cresce.
Questa necessità l’India sembra averla ormai maturata compiutamente, e ne troviamo traccia osservando il fiorire di collegamenti immaginari, nel senso di possibili corridoi economici, che ancora emergono saltuariamente sui media per essere poco dopo dimenticati. Salvo da pochi addetti ai lavori.
Fra questi ci sono ovviamente gli osservatori che guardano con curiosità e interesse il processo di crescita dell’India, quindi il suo infittirsi di connessioni, che anche di recente ha dato un’importante prova di sé proprio nei giorni, vuole il caso, nei quali la Cina, il vicino ingombrante, celebrava il suo decennale della Belt and Road Initiative, quindi l’ottobre 2023.
Fra il 17 e il 19 ottobre, infatti, New Delhi ha ospitato il Global Maritime India Summit che già dal nome ci dice tutto quello che l’India vuole far sapere al mondo: la sua vocazione di penisola marinara. La geografia, d’altronde, in qualche modo è un destino. E quello dell’India non poteva che passare dal mare. E’ sempre così fin dall’antichità. La novità è un’altra. E viene illustrata nel dossier presentato dal governo nei giorni dell’evento, dove si riepilogano alcuni fatti e viene sostanziata una visione.
I fatti e la visione
L’India ospita 12 porti principali che sono gli assi portanti della ragnatela degli oltre 200 che costituiscono l’infrastruttura portuale indiana. Se l’India fosse un organismo, i porti sarebbero i suoi recettori. Questo le ha consentito di aumentare del 50% in dieci anni il volume cargo e del 102% la propria capacità portuale, ossia le merci che alimentano il metabolismo economico indiano. In tal modo due porti indiani, quello di Mundra e quello di Jawaharlal Nehru, sono riusciti a entrare nella classifica dei 30 grandi porti globali. Entrambi si trovano sulla costa occidentale dell’India. Il primo vicino al Pakistan, il secondo presso l’area metropolitana di Mumbai.
Questo ci comunica già un’informazione: il lato occidentale dell’India è quello più recettivo.
Un’economia che esprime la sua vocazione marittima non può ovviamente fare a meno di sviluppare un forte settore di costruzioni navali. I dati presentati a New Delhi ad ottobre raccontano di un Paese con 28 cantieri di costruzioni navali che hanno portato l’India al ventesimo posto nella classifica dei costruttori globali, “con rapida capacità di espansione”, come sottolinea il sito dedicato all’evento. Lo shipping indiano occupa, nel 2023, il 38° posto del Logistic Performance Index, un indicatore che misura la capacità di un Paese di attrarre commercio. Nel 2007 era al 42°. Quindi ha scalato quattro posizioni. L’Italia, per fare un confronto, era al 25° posto nel 2007 ed è arrivata al 23° quest’anno.
Dopo porti e navi, servono ovviamente le vie di navigazione. L’India conta 111 “strade marine”, 22 delle quali di livello nazionale, che hanno consentito di aumentare a un ritmo annuo del 19% negli ultimi cinque anni il traffico cargo, che arriva al 300% se si usa come base il 2014. Conclusione: l’economia marittima indiana cresce e sembra godere di ottima salute e buone prospettive. Ma è ancora lontana dall’esprimere un flusso di scambi paragonabile ai grandi hub internazionali. Cosa le manca? I collegamenti, che sono aumentati, ma non ancora abbastanza.
Un crocevia di corridoi
Nel 2016, quando fu celebrato il primo “Maritime Summit”, si contarono circa 5.000 delegati presenti e circa 140 Memorandum of Understanding (MoUs) firmati. Nel 2021 i delegati superarono i 20.000 e i MoUs arrivarono a sfiorare i 500. Collegamenti che crescono, e altri che si vorrebbero sviluppare. Fra questi, ovviamente, primeggiano i corridoi economici. Ce ne sono almeno tre, che raccontano delle grandi complessità nelle quali è inserito l’enigma della crescita indiana. Cominciamo dal primo.
L’International North-South Transport Corridor (INSTC), che ha fatto capolino nei giorni dell’evento indiano, sembra pensato apposta per far venire il mal di testa all’Occidente. Si tratta di un sistema di connessioni che collega il lato occidentale dell’India con l’Iran e la Russia e con il vasto mondo centro-asiatico, da dove si aggancia al nord-ovest cinese. Arriva in Europa centrale passando dalla Turchia e dai Balcani.
L’idea del corridoio fu presentata nel settembre del 2000 a San Pietroburgo da Iran, Russia e India, e nel tempo ha coinvolto diversi attori che insistono nell’ampia area di collegamento, alcuni dei quali non proprio in rapporti reciprocamente idilliaci: Azerbaijan, Armenia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Turchia, Ucraina, Bielorussia, Oman, Siria, Bulgaria. Da allora non si è visto granché, ma l’acronimo del corridoio rimbalza ogni tanto sulle cronache.
Oltre ad accorciare i tempi di collegamento terrestre con l’Europa, il corridoio, se completato, potrebbe regalare alla Russia quell’accesso alle “acque calde” che Mosca vagheggia dal XIX secolo. Basterebbero meno di una ventina di giorni per raggiungere l’India dal Baltico via terra, circa la metà rispetto alla rotta marittima che passa da Suez.
Soprattutto, lo sviluppo del corridoio sarebbe di notevole vantaggio per l’Iran, che vedrebbe collegata la sua parte occidentale col Medio Oriente e l’Europa. Sempre le cronache raccontano dell’avvio di questo collegamento nel giugno 2022, nella sua direzione Nord-Sud – con l’Iran, appunto, a giocare un ruolo centrale. Anche in quest’ottica va considerato il progressivo avvicinamento dell’Iran all’Unione Eurasiatica promossa da Mosca – lanciata nel 2015 e che oggi coinvolge Russia, Armenia, Bielorussia, Kazakistan, Kirgizistan.
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Di recente si è anche parlato di trattati commerciali per abbattere i dazi che hanno accompagnato la firma dell’accordo fra Mosca e Teheran per la realizzazione della ferrovia iraniana Rasht-Astara, parte appunto del corridoio. Si tratta di una linea di 160 chilometri che collega la città di Rasht, vicino al Caspio, con Astara, vicino all’Azerbaijan, Paese caucasico al centro di tanti crocevia. In generale, Russia e Iran hanno rinnovato il proprio interesse per il corridoio dopo la seconda invasione dell’Ucraina e le relative sanzioni contro la Russia, annunciando di voler investire 36 miliardi di dollari nello sviluppo del corridoio, che ormai di fatto è diventato una loro creatura. Ma se è comprensibile che entrambi i paesi provino a fare asse contro l’Occidente, lo è meno per l’India. Che tuttavia, per diverse ragioni, non può assolutamente fare a meno dei suoi partner russi.
Abbiamo già parlato, raccontando della Northern Sea Route russa, dei numerosi abboccamenti che ci sono stati fra il governo russo e quello indiano per lo sviluppo di un altro corridoio al quale l’India ha fatto capire di non voler in alcun modo rinunciare: quello della sua costa orientale, e in particolare il porto di Chennai, con il porto russo di Vladivostok tramite quello che è stato chiamato Eastern Maritime Corridor (EMC).
Il progetto fu presentato diversi anni fa, ma non è mai finito fuori moda. Mentre si intensifica la propaganda sulle sorti magnifiche e progressive che attendono la rotta artica russa, il dibattito su questo collegamento ha fatto passi avanti.
Più di recente alcune cronache hanno riportato quanto raccontato dal console russo a Chennai, Oleg Avdeev, alla Tass, secondo il quale il primo viaggio fra i due porti è stato già compiuto e solo in 17 giorni. Non sfuggirà ai più attenti che la rotta immaginata si affaccia sul già affollatissimo Mare Cinese Meridionale ed è saggio chiedersi quanto alla Cina piacerà un intenso traffico di navi russe o indiane in un’area sulla quale rivendica diritti, già al centro di molte tensioni internazionali.
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La rotta russo-indiana, peraltro, va a interferire con la Maritime Silk Road Cinese, proprio mentre gli Stati Uniti investono centinaia di milioni di dollari in un porto in Sri Lanka per fare uscire il Paese dall’orbita cinese, con ciò interferendo nella costruzione logistica portuale cinese lungo l’Oceano Indiano che viene spesso chiamata Strings of Pearls.
Ciò per dire che creare nuove connessioni non porta solo vantaggi, ma anche diversi rischi. Ma d’altronde se l’India vuole crescere deve rischiare, puntando tutto sulla sua centralità euro-asiatica che suggerisce di adottare un atteggiamento equi-distante. O equi-vicino, se preferite. Perciò si comprende benissimo perché dopo essersi sbilanciata con la Russia, e con l’Iran, e aver in qualche modo lambito la Cina, l’India abbia sentito il bisogno di rafforzare la sua proiezione verso Occidente, fidando nel rapporto, anch’esso di lunga data, con l’anglosfera, e quindi oggi innanzitutto con gli USA.
Verso l’Europa
Così arriviamo alla terza grande strada che collega, o che vorrebbe collegare, all’India: il corridoio economico India-Middle East-Europe, meglio conosciuto come IMEEC.
Di questo corridoio si è riparlato in occasione del G20 indiano di settembre, quando la presidente della Commissione UE, Ursula von Der Leyen, ne accennò nel suo discorso dedicato all’illustrazione della volontà occidentale di promuovere la Partnership for Global Infrastructure Investment (PGII). Si tratta di un progetto molto ambizioso che si articola lungo due rami: uno asiatico, che collega il Medio Oriente al versante occidentale dell’India; e uno euro-mediterraneo, che da Israele, dal porto di Haifa, si proietta verso il cuore dell’Europa, passando da Grecia e Italia.
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Un progetto fortemente sponsorizzato anche dagli Stati Uniti, ma che richiede un notevole impegno da parte dei paesi arabi e di Israele per essere realizzato. E’ chiaro che l’esplosione del conflitto a Gaza ha complicato questa già complessa operazione. L’acuirsi della conflittualità in Medio Oriente non gioverà allo sviluppo della globalizzazione di domani, ma avrà anche effetti imponderabili anche sull’internazionalizzazione indiana. Dovendo promuovere i propri collegamenti, e in mancanza della possibilità di espandersi verso Occidente, c’è una concreta possibilità che l’India scelga di promuovere quelli nuovi verso Oriente. Più BRICS e meno Occidente, insomma
E questo a ben vedere è la morale di tutta questa storia. L’India sta giocando su tutti i tavoli possibili per provare almeno a restare in partita. Un gioco che la Turchia svolge ormai da diversi anni, per trovare un esempio assimilabile. E l’idea di sfruttare la sua centralità sub-continentale, facendo leva sulla sua ovvia vocazione marinara, è sicuramente un modo intelligente per partecipare al Grande Gioco.
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Ma anche se tutte le strade portassero in India, come tanto piacerebbe a New Delhi, ciò non significa affatto che il sub-continente riuscirà a superare i suoi dilemmi esistenziali. La scommessa indiana, per quanto si può capire al momento, è quella di diventare un forte hub dell’Eurasia, con connessioni in tutte le direzioni, essendo in fondo geograficamente una sua appendice marittima.
Ma il gioco globale è molto più ampio di questo. A pochi gradi di longitudine dall’India la gigantesca zolla africana sembra la candidata ideale a svolgere per il mondo quel ruolo che l’India sta provando a svolgere per l’Eurasia. Il ruolo del pilastro centrale.
L’India insomma potrà pure essere attraversata da molte connessioni, così prosperando, ma ciò non implica che diventi il terminale di questi scambi. Al più una terra di passaggio. Il centro della nuova globalizzazione, infatti, sembra stia orientandosi di nuovo verso Occidente, dopo aver stazionato in Cina per un ventennio. L’India verrà attraversata da questo movimento. E ne trarrà giovamento. Ma difficilmente sarà in grado di trattenerlo. In economia, come in fisica, la massa pesa.