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Putin l’evasivo seriale, Trump l’aspirante “dealmaker”

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Dopo il vantaggioso accordo – almeno temporaneo – con la Cina sui dazi (30 a 10), Donald Trump ha intensificato il suo attivismo diplomatico improntato al pragmatismo. Ha spinto Volodymyr Zelensky a dirsi pronto ad andare il 15 maggio a Istanbul, cioè a “vedere” il bluff di Vladimir Putin, e poi ha messo il russo ancor più sotto pressione ventilando una propria apparizione sul Bosforo. In questo modo ha spiazzato i capofila dell’Europa che consigliavano al presidente ucraino di insistere sulla tregua come pre-condizione. Si è insomma presentato come l’unico ad aver fretta di mettere fine all’inutile carneficina, e non solo a sospenderla.

Non si può dire che Putin, mandando nella metropoli turca una delegazione di terzo livello (neanche Lavrov!) si sia rimangiato la sua proposta: questa indicava infatti la data e il luogo per il negoziato, non la propria presenza. Ma è inevitabile che, sottraendosi all’incontro al vertice proposto da Zelensky e poi da Trump venga visto come colui che non vuole fermare la guerra.

Possiamo certo deplorare che abbia respinto la proposta di una tregua di 30 giorni. Ma ciò facendo non ha violato nessun obbligo: le trattative di pace si possono condurre sia dopo un cessate-il-fuoco, sia in costanza dei combattimenti. Il trio europeo (E3), ignorando questo principio e minacciando Mosca di nuove, “devastanti” sanzioni, si è messo nelle condizioni di essere scavalcato da Trump e deriso da Putin. Il quale, trattandoli da “deficienti”, si è mostrato poco diplomatico ma non ha fatto che adottare lo stile del suo omologo americano.

Le sanzioni preannunciate, come i 17 pacchetti precedenti, non appaiono idonee a far venire Putin a più miti consigli, servono piuttosto a salvare la faccia degli europei e a tappare falle nelle sanzioni preesistenti.

L’incontro russo-ucraino svoltosi il 16 maggio nel palazzo che si affaccia sul Bosforo ha dimostrato l’atteggiamento dilatorio di Mosca, sia perché è stato chiuso dopo meno di due ore senza un risultato (se non l’intesa su uno scambio di prigionieri) e senza fissare un nuovo appuntamento, sia perché la delegazione russa ha ribadito la massimalistica pretesa di cessione delle parti non ancora conquistate delle quattro regioni.

 

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Ha però avuto l’effetto di ricompattare l’Occidente e di confermare il riavvicinamento americano all’Ucraina già delineatosi quando era emersa l’ambiguità del Cremlino nei colloqui con l’inviato speciale Steve Witkoff. Trump ha messo da parte la sua intenzione di disinteressarsi della questione e ha dichiarato che può essere risolta solo in un dialogo fra lui e Putin. Ci ha messo pochi giorni a smentirsi.

La lunga telefonata di lunedì 19 maggio fra i due presidenti ha confermato il rifiuto russo di fermare i combattimenti mentre si negozia e la rinuncia dell’americano ad esercitare pressioni su Mosca perché accetti una tregua e perché ammorbidisca le sue posizioni. Non sappiamo se abbia fatto un serio sforzo negoziale sui due nodi della smilitarizzazione e della cessione delle parti non ancora conquistate delle quattro regioni, ma nulla di quanto dichiarato dalle due parti indica che lo abbia fatto con un minimo di successo. È sembrato parlare sotto dettatura dell’avversario quando ha osservato che le problematiche sono troppo complicate e possono essere solo discusse dai diretti interessati (il contrario di quanto aveva detto dopo il breve incontro delle due delegazioni a Istanbul). Putin è disposto a trattare, in due fasi: prima un memorandum, poi un trattato di pace; ma prevede tempi lunghi, e ribadisce che devono essere affrontate le “radici” del conflitto – il che è al contempo un concetto vago e poco incoraggiante per il futuro dell’Ucraina come Stato indipendente.

 

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Nel corso della sua visita in Arabia Saudita, Trump ha dato prova del suo pragmatismo, in contrasto con la rigidità degli europei, incontrando Ahmed al-Sharaa, presidente (autodichiarato) ad interim della Siria dal gennaio scorso, ed ex-leader del ramo siriano di al-Qaida, e soprattutto annunciando la revoca delle sanzioni contro Damasco.

 

Se si aggiunge il successo della trattativa con Hamas per la liberazione di un ostaggio con doppia nazionalità e di quella con gli Houthi yemeniti per far cessare gli attacchi ai mercantili americani, e l’accordo con Riad su forniture militari, alta tecnologia e investimenti, di dimensioni che non hanno precedenti, Trump può ben sbandierare concreti risultati, sebbene specifici e di breve periodo, come dealmaker, anche qualora si confermi il fallimento del suo tentativo di mettere fine alla guerra in Ucraina.

Tutte queste iniziative diplomatiche, poco gradite a Netanyahu, indicano che l’appoggio a Israele non è più incondizionato, come era sembrato fino a poco tempo fa. Segno che il presidente americano si è reso conto di come la complicità con chi affama e massacra quotidianamente i civili a Gaza non giovi all’immagine di uomo di pace che ha voluto darsi; e che ha scelto il leader saudita Mohammed bin Salman (MbS), al posto del premier israeliano, come principale pilastro della sua politica di stabilizzazione del Medio Oriente. Altri sintomi di questa parziale dissociazione dal bellicismo di Israele: l’avvio di negoziati sul programma nucleare di Teheran, il veto all’ipotesi di bombardare i siti nucleari iraniani discussa a Gerusalemme, la preoccupazione per i bambini di Gaza che stanno per morire di fame.

 

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Su questi ultimi due scacchieri è presto per concludere che siamo in presenza di una vera svolta. Dobbiamo vedere se nel negoziato con l’Iran la delegazione USA si asterrà dal prendere posizioni massimalistiche, destinate a farlo fallire. E se Trump si deciderà ad esercitare reali pressioni su Netanyahu per fermare le stragi a Gaza e l’assedio (gli ha imposto di far entrare un centinaio di camion, ma è una goccia nel mare). Il suo proposito di trasformare la Striscia in una “zona di libertà” è troppo ambiguo. E la trattativa in corso con la Libia per la sistemazione di un milione di sfollati palestinesi appare funzionale ad un programma di pulizia etnica di buona parte di quel territorio.

Nella migliore delle ipotesi si può sperare che Trump imponga a Israele di cessare le operazioni militari e riaprire i valichi ai convogli umanitari senza limitazioni in cambio della liberazione di tutti gli ostaggi. Certamente da escludere è che prema per la creazione di uno stato palestinese indipendente, anche qualora Riad ne faccia una conditio sine qua non per la propria adesione agli “Accordi di Abramo” che lo stesso Trump ha impostato e fortemente promosso dal 2020.