Prezzi dell’energia e inflazione: i possibili rimedi
Le armi a disposizione dei governi per combattere l’esplosione dei prezzi dell’energia e alleviarne le gravi conseguenze economiche e sociali comprendono da un lato misure strutturali, che richiedono tempi piuttosto lunghi, dall’altro interventi immediati, che sono per lo più palliativi non sostenibili alla lunga per i bilanci statali.
Primo capitolo: Prezzi dell’energia e inflazione: alla ricerca delle cause
Diversificare l’offerta, ridurre la domanda
Fra le prime, la priorità va alla accelerazione degli investimenti nelle fonti rinnovabili, soprattutto l’eolico, sia perché sono ormai diventate quelle più competitive, sia perché il contenimento del riscaldamento globale è un’emergenza che non può passare in secondo piano. L’unico difetto è la variabilità della produzione da vento e sole, che perciò dovrà sempre essere integrata da fonti fossili, più inquinanti e ora anche più costose. La potenza installata potrà però anche superare il fabbisogno minimo (ore notturne), dato che esistono sistemi di stoccaggio diversi dalle batterie: impiego dell’elettricità in eccesso per pompare acqua dal fondovalle verso i bacini in quota o per produrre idrogeno verde. Sono poi in via di progettazione grossi investimenti per la produzione di idrogeno verde da vasti impianti fotovoltaici in zone desertiche dell’Africa e per il trasporto verso l’Europa.
Le fonti fossili sostitutive del gas russo, cui è necessario ricorrere sia per eliminare la dipendenza da Mosca che per raggiungere la parità fra domanda e offerta e quindi tornare a livelli di prezzo ragionevoli, faranno però fare passi indietro alla battaglia per il clima, oltre ad essere più costose delle rinnovabili. La più inquinante è il carbone, ma ha il vantaggio che rimettere in funzione le relative centrali richiede al massimo qualche mese. Lo sfruttamento di nuovi giacimenti di gas nel Mediterraneo orientale, in Mozambico e altri paesi africani, e la costruzione delle strutture per il trasporto, richiederà diversi anni. A più breve termine dovremo importare gas naturale liquefatto (NLG) soprattutto da Stati Uniti e Qatar. Rispetto al metano che arriva per gasdotto dalla Russia o dall’Algeria è più caro, e anche più inquinante a causa del trasporto per mare e la rigassificazione. Un rigassificatore galleggiante (la SNAM ne ha recentemente comprati due) costa sui 400 milioni di euro. Gli ecologisti temono che una volta investiti miliardi per l’acquisto di tali impianti si tenderà a rinviare di parecchi anni l’uscita dal gas.
Leggi anche: EU-Africa energy partnerships: new expectations and challenges
Dati i tempi di questa duplice transizione energetica, è assolutamente indispensabile e urgente una sensibile riduzione dei consumi: riduzione del riscaldamento negli edifici pubblici e nelle case, minore uso di aria condizionata, tagli alla illuminazione di strade e monumenti, smart working, disincentivazione del trasporto automobilistico individuale, incentivi alle aziende per il miglioramento dell’efficienza energetica, etc. La Commissione Europea raccomanda un taglio del 10-15%, che potrebbe diventare obbligatorio ed essere inasprito nell’eventualità di un embargo totale. Ma questa lotta agli sprechi non deve essere una misura temporanea, anzi avrebbe dovuto essere lanciata molto prima e in modo più deciso se ci fosse stata una reale volontà politica di rallentare il cambiamento climatico.
La battaglia europea per il contenimento dei prezzi
Accanto a questi sforzi per diversificare l’offerta e ridurre la domanda, si invocano (soprattutto in Italia) interventi diretti sui prezzi. Ma cosa si intende per price cap? Se deciso in ambito nazionale può solo significare un prezzo politico del gas o della corrente elettrica sovvenzionato dallo Stato. E allora ci si muove pericolosamente verso l’aumento del deficit statale (detto eufemisticamente “scostamento”). Ma anche il tetto al prezzo del gas da decidersi a livello europeo, che tutti in Italia aspettano come un toccasana e che Olaf Scholz e Ursula von der Leyen sono ora cautamente disposti a prendere in considerazione, è problematico. Per imporre ai venditori un prezzo equo, bisognerebbe che gli acquisti venissero centralizzati (il contrario delle iniziative individuali e concorrenziali cui abbiamo assistito, con tempestive missioni di premier e ministri nei paesi fornitori), incaricando la Commissione di negoziare. Ma poiché siamo in presenza di un “seller’s market“, cioè di un mercato in cui la domanda supera l’offerta, gli acquirenti – anche se consorziati – hanno comunque un potere negoziale inferiore a quello dei venditori.
Perciò a Bruxelles ci si orienta verso un sistema analogo a quello concordato a inizio settembre in ambito G7, su iniziativa americana, per il petrolio: imporre alle società di assicurazione (tutte occidentali) di rifiutare la copertura se il gas trasportato è stato venduto a un prezzo superiore al tetto stabilito. I dubbi di molti governi sulla percorribilità di questa strada nel caso del metano derivano sia dalle differenze fra il trasporto di tale combustibile mediante gasdotti e quello del petrolio via mare, sia dai tempi più lunghi necessari per metterci in grado di affrontare una possibile rappresaglia russa sotto forma di embargo totale sul gas. L’ex-presidente russo Dmitri Medvedev ha infatti avvertito che l’introduzione del price cap significherebbe il blocco delle forniture dalla Russia. Vedremo chi vincerà il braccio di ferro sul prezzo del petrolio. Quanto all’elettricità, si prevede a livello europeo di fissare prezzi per quella prodotta da rinnovabili, dal nucleare e dal carbone che siano sganciati dal costo di quella prodotta bruciando gas (decoupling) e riflettano i costi più contenuti di tali altre fonti. Si parla di un prezzo intorno ai 200 MW/h
La tanto attesa riunione dei Ministri dell’Energia del 9 settembre non ha sciolto i nodi e rinviato tutto a fine mese: un ritardo dannoso, come ha detto il Presidente Mattarella. Dannoso perché nel frattempo chiudono aziende, ma anche perché gli alti prezzi dell’energia, aumentando i costi di produzione e trasporto, alimentano la spirale inflazionistica. Il nodo principale è il price cap, che la Commissione vorrebbe imporre solo al gas russo, mentre secondo l’Italia dovrebbe applicarsi a tutto il gas importato, poiché l’obiettivo è non solo il taglio agli introiti della Russia ma soprattutto la sostenibilità della spesa per aziende e famiglie. Tanto più che le importazioni dalla Russia sono già scese dal 40% al 9% e potrebbero azzerarsi, come minacciato da Putin.
Leggi anche: The Ukrainian conflict and the long story of energy pipelines
La Francia appoggia la posizione della Commissione. Le motivazioni non sono chiare e fanno pensare a pressioni delle lobby, compresa quella americana del GNL. Si sostiene che il calmiere dirotterebbe le esportazioni americane e norvegesi verso l’Asia, lasciando l’Europa a bocca asciutta; ma come ha fatto notare il Premier belga Alexander De Croo, basterebbe fissare il tetto poco sopra il livello asiatico, che è molto più basso di quello imposto all’Europa con il vigente sistema TTF. Il Cancelliere tedesco, condizionato dall’alleato liberale, manifesta forti riserve su entrambe le opzioni, benché convinto che l’attuale divario fra costi di produzione e prezzo sia inaccettabile; ripiega perciò sulla proposta di consorziarsi per gli acquisti di metano (vedi sopra) e sulla tassazione degli extra-profitti. Contrari anche al tetto sul gas russo sono gli ungheresi, cechi e slovacchi, che ne dipendono.
La proposta italiana di un tetto globale ha raggiunto 15 adesioni: un successo, come ha detto il ministro Cingolani, ma una vittoria di Pirro se nelle prossime settimane non si riuscirà a convincere gli altri partner, magari con concessioni ed esenzioni ai citati paesi centro-europei, e la Commissione. Questa sta elaborando un nuovo pacchetto, dal quale al momento è sparito del tutto il price cap (persino quello sul solo gas russo). Rimangono gli altri punti: prezzo di riferimento per l’elettricità a 180-200 MWh e prelievo sugli extra-profitti dei fornitori che usano le fonti meno costose; via libera a sussidi per quelli che bruciano gas; tassazione degli extra-profitti da energie fossili; riduzione dei consumi mensili del 10% in ogni paese. Se ne discuterà ancora al livello dei ministri dell’Energia il 30 settembre, ed eventualmente fra Capi di Governo in ottobre. La tempestività non è il forte dell’Unione.
Le soluzioni nazionali
Passando alle misure che si limitano ad alleviare i disagi imposti dai prezzi esorbitanti alle famiglie e i rischi di fallimento per le aziende, vediamo nei vari paesi europei sia versamenti diretti una tantum e crediti fiscali, sia sovvenzioni per limitare gli aumenti delle bollette elettriche. In Austria, ad esempio, nelle prossime settimane ogni cittadino o residente riceverà 500€ (metà come indennità per caro-vita, e metà per il caro-energia). Inoltre sta per essere approvata la fissazione di un limite entro il quale l’elettricità consumata da una famiglia beneficerà di un prezzo politico (0,1€ a kWh) a spese dello Stato, mentre l’eccedenza verrà fatturata a una tariffa di mercato molto più alta; quel limite (2900 kWh) corrisponde all’80% del consumo medio degli anni precedenti.
Si può qui notare che una percentuale più bassa sarebbe stata preferibile: tutti i nuclei familiari che già sono sotto questo limite (ad esempio quelli composti da 1-2 persone, o che portano il bucato in lavanderia) non saranno incentivati a tagliare i consumi. Il provvedimento dovrebbe gravare sul bilancio per 3,5 miliardi circa (fatte le debite proporzioni in Italia sarebbero 20-25 miliardi). Qualcosa di simile verrà fatto per le bollette del gas. A parte sono allo studio analoghe misure per le aziende industriali e artigianali, nonché sgravi fiscali. Il calmiere sulle varie bollette contribuirà a moderare l’ascesa dell’indice del costo della vita.
L’adozione di questi e altri “ristori” temporanei è urgente. Altrimenti la pressione per aumenti salariali adeguati alla crescita dei prezzi diverrà irresistibile e si formerà una spirale inflazionistica difficile da arrestare.
Tassare i profitti delle società energetiche? Sì
La relativa spesa può essere affrontata senza causare impennate del deficit e dell’indebitamento solo se si superano le diffuse esitazioni a scremare in misura adeguata gli ingiustificati profitti delle grandi società che producono e vendono energia. Nel primo semestre di quest’anno, l’ENI ha dichiarato utili per 7,39 miliardi di euro, vale a dire un aumento del 600%; e l’azienda specifica che vi ha contribuito per 1 miliardo il “significativo rialzo dei margini della raffinazione“ (chiaro segno che non esita a sfruttare il suo potere di oligopolio). Altre società hanno triplicato questo margine. Nel solo secondo trimestre Exxon ha fatto 17,6 miliardi di utili, Chevron e Shell 11,6 ciascuna, BP 8,45 – tutte in aumento fra il 300 e il 500 per cento rispetto a un anno prima. Questi miliardi vengono in parte distribuiti come dividendi agli azionisti e in parte utilizzati per comprare azioni proprie (buyback), così da aumentare il valore dei titoli detenuti dagli stessi azionisti.
Il Segretario Generale delle Nazioni Unite, António Guterres, ha definito immorale questo fenomeno, dovuto a “grottesca avidità”, e raccomandato di tassare gli extra-profitti per sostenere i redditi degli strati sociali più vulnerabili, prevedendo che altrimenti si andrà incontro a sconvolgimenti economici, sociali e politici.
Il principio di una simile tassazione è generalmente sostenuto dai partiti socialdemocratici e verdi, avversato da quelli liberali e conservatori. Divide coalizioni di governo come quella tedesca, dove il Ministro dell’Economia Habeck è favorevole, quello delle Finanze Lindner contrario; in Austria il Cancelliere Nehammer si era detto possibilista, ma le reazioni all’interno del suo stesso partito lo hanno costretto a fare marcia indietro. I contrari rifiutano “interferenze nel libero mercato”. Al che si può obiettare che prezzi impazziti e windfall profits così massicci sono una chiara dimostrazione del malfunzionamento del mercato, suscettibile di essere manipolato da attori oligopolistici, e quindi della necessità di correttivi. A Bruxelles Ursula von der Leyen ha ora preso posizione in favore del prelievo, a Londra la neo-premier Liz Truss si è detta contraria.
L’Italia è uno dei pochi paesi che hanno superato le resistenze delle lobby, imponendo (maggio scorso) un “contributo solidaristico straordinario”. Ma l’entità, pur aumentata dall’iniziale 10 al 25 % (degli utili eccedenti il 110% di quelli dell’anno precedente) appare ancora troppo timida. Le società colpite (quelle che registrano profitti superiori a 5 milioni) pensano naturalmente il contrario. Il governo Draghi si attendeva un gettito di 10,5 miliardi, calcolato su 42 miliardi di extra-profitti in 7 mesi; il che voleva dire lasciare alle aziende 31,5 miliardi di “windfall profits“, in aggiunta ai pingui utili considerati normali, cioè equivalenti a quelli dell’anno precedente aumentati del 10%. Ciononostante la maggior parte delle società (l’ENI è fra le eccezioni) ha preferito non pagare e fare ricorso, sperando in una sentenza di incostituzionalità. Con il risultato che, su 4 miliardi previsti come acconto, nelle casse dello Stato sono entrati per ora solo 1,2 miliardi. Il Presidente Draghi ha (giustamente) reagito con parole insolitamente dure.
La Commissione appare al momento orientata verso una formula appena più incisiva di quella italiana: un prelievo del 33% sui profitti che superano quelli del triennio precedente aumentati del 20%.
Al festino partecipano, insieme alle società che vendono idrocarburi, molte di quelle che vendono elettricità, in quanto applicano il prezzo determinato in base ai costi (altissimi) della generazione da gas, mentre gran parte dell’energia elettrica da loro prodotta è da fonti rinnovabili. Anche queste dovrebbero pagare la tassa straordinaria. Paradossalmente, altre aziende del settore rischiano di affondare, sia perché hanno un’alta percentuale di centrali a metano, sia perché hanno sbagliato le scommesse sui futures, e devono essere salvate con i soldi del contribuente (vedi il caso della Wien Energie citato nella prima puntata). In Germania il gigante Uniper, in acuta crisi di liquidità, ha chiesto alle casse federali 15 miliardi; si prevede che non rimarrà un caso isolato. Vige evidentemente la legge fondamentale del capitalismo: privatizzazione dei profitti e socializzazione delle perdite.
Un progetto dei sindacati austriaci offre una formula che può apparire radicale ma in realtà concilia la copertura di buona parte delle spese per “ristori” a famiglie e aziende con la garanzia di un aumento ragionevole dei profitti per i grandi fornitori di energia: assumendo come profitto normale quello dell’anno precedente aumentato del 10% (come fa la legge italiana), prevede un prelievo sugli extra-profitti del 60%, che sale al 90% per la parte eccedente il 130% degli utili dell’anno precedente. Anche qui sono stati sollevati dubbi sulla costituzionalità.
Ma a parte l’opportunità di evitare il malcontento popolare per un così cinico trasferimento di ricchezza dalle famiglie alle grandi società senza loro merito, un provvedimento di questo genere dovrebbe essere considerato legittimo in considerazione della situazione eccezionale creata da fattori internazionali e dei pericoli di destabilizzazione economica e sociale. Un prelievo della entità qui ipotizzata darebbe un gettito che per la Germania sfiorerebbe i 100 miliardi annui; e anche in Italia, fatte le debite proporzioni, consentirebbe di far fronte alle suddette sovvenzioni senza nuovo indebitamento fino a quando i mercati delle fonti di energia avranno ritrovato un ragionevole equilibrio.