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Perché la pace in Ucraina è impossibile senza garanzie

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La guerra tra Russia e Ucraina è un episodio, tra i più gravi, di una “crisi” in realtà epocale, quasi naturale. Essa è frutto della storia e della natura dei rapporti tra le due nazioni, nelle loro diverse evoluzioni. Ed è arricchita dalle complicazioni della politica contemporanea, che con la caduta del comunismo e l’allargamento della UE ha scongelato le sovranità dei popoli dell’Europa orientale – incluso quello russo. Inoltre, “la geografia vorrà la sua vendetta”, ha detto il politologo Robert Kaplan, di fronte a un mondo che tralascia colpevolmente la sua esistenza e le sue necessità. E se questa sentenza è pur contestabile in molti ambiti, a cominciare dalla sua tautologia, non c’è dubbio che anche le coordinate territoriali hanno avuto una parte importante nel dare forma alle modalità della guerra in corso, e dello scontro tra le piccole e grandi potenze coinvolte. E dunque conteranno anche al momento di risolvere quella guerra.

La rete elettrica ucraina

 

La diplomazia bloccata

Ma proprio per le tante dimensioni del conflitto russo-ucraino, entrati nel terzo anno dall’invasione su larga scala del 24 febbraio 2022 ci si è accorti che la soluzione non era così a portata di mano come alcuni per motivi politici giuravano. Il più illustre sostenitore di questa teoria è stato lo stesso presidente americano Trump, soltanto per vederla poi smentita davanti ai suoi occhi. Non è servito umiliare in febbraio il collega ucraino Zelensky alla Casa Bianca, per farlo “mollare”. Non è servito riverire l’omologo russo Putin in Alaska in agosto, per farlo “ammorbidire”. Le posizioni e le pretese avanzate dai contendenti restano, in effetti, per molti versi inconciliabili.

D’altronde, dal punto di vista occidentale, si è sostenuta a lungo l’illegittimità dell’aggressione russa. Tra i motivi, che essa non fosse “simmetrica”: cioè Mosca combatteva per espandere la sua sfera di influenza, Kiev invece per la sua stessa esistenza – come impietosamente continuano a dimostrare i bombardamenti russi, mai come in questi mesi mirati a colpire e terrorizzare la popolazione civile ucraina in zone lontane dal fronte. Cambiare atteggiamento, spostandosi su un piano di neutralità o equidistanza, accettando le posizioni di entrambi i contendenti come legittime, dimenticando dunque l’esistenza di alcuni principi irrinunciabili da garantire anche dopo la fine della guerra, non poteva portare che a irrisolvibili incoerenze. Incoerenze pericolose, anche perché gravide di possibili future conseguenze. Lo stallo diplomatico resta, nonostante il gran lavoro di microfoni e fotocamere.

 

 

Le richieste della Russia si concentrano su alcuni punti, gli stessi che sbandiera fin dall’inizio del conflitto. Il ritiro ucraino dall’intero Donbass, anche nelle parti a forte presenza demografica ucrainofona e dove le truppe russe non sono arrivate. Il riconoscimento ufficiale delle quattro regioni “annesse” (Kherson, Zaporizhzhia, Donetsk, Luhansk), o comunque occupate militarmente. Uno status garantito per la lingua russa e la chiesa ortodossa affiliata a Mosca. E soprattutto la smilitarizzazione del Paese, e l’assicurazione che non entrerà mai nella NATO.

 

Nazionalità e sovranità

Ma in estrema sintesi, la pretesa è una sola: che l’Ucraina rinunci alla sua sovranità. Questo – non va dimenticato – è il vero obiettivo dell’invasione putiniana, lanciata appunto inizialmente proprio contro la capitale Kiev, e visto il fallimento dell’operazione, in seguito mirata a una presa generale del Paese, da ottenere a qualunque costo.

E’ un’operazione pienamente coerente con la visione internazionale della Russia di Putin, per cui “il crollo dell’Unione Sovietica è stata la più grande catastrofe geopolitica della storia recente”: le sovranità degli Stati europei orientali devono essere dunque “ricongelate”, e richiuse nel freezer moscovita. L’Ucraina e gli ucraini, insomma, devono avere il destino della Bielorussia, non quello della Polonia. E che se lo segnino i moldavi, i georgiani e un po’ tutti gli altri. L’invasione di Putin è apertamente anti-europea – non è un caso che il Cremlino ignori bellamente i leader della UE – nel senso che tra i motivi dell’integrazione europea c’è anche la conservazione e la garanzia della sovranità dei piccoli Stati del nostro continente davanti ai colossi del mondo.

Non stupisce, da questo punto di vista, la legittimità offerta da Donald Trump a Vladimir Putin. L’attuale presidente americano ha detto, mostrato, sostenuto in ogni modo possibile che la sovranità europea ai suoi occhi non esiste: casomai c’è un rapporto di vassallaggio. Evidentemente l’Ucraina non interessa a Washington, oppure gli Stati Uniti hanno capito di non saperla difendere come pensavano – l’ha chiamata “la guerra di Biden”, ma lo stesso Trump ha armato Kiev dal 2017. Ha deciso allora di capitolare, forse, cioè di far arrendere l’Ucraina.

Ufficializzare il ritiro dal Donbass e le “annessioni” significa infatti accettare l’idea che la violazione dei confini e la conquista di territori (seppure mascherata da “scambio”) può essere sanzionata positivamente dalla comunità internazionale. E’ chiaro che l’Ucraina di Zelensky non potrà mai consentire a un simile principio, che metterebbe fine alla sua esistenza. Anche perché l’attuale linea del fronte passa dentro le regioni pretese dalla Russia, e dunque il sistema di difesa ucraino dovrebbe ricostruirne una per intero più indietro.

Certo, ci sarebbero le “garanzie di sicurezza”: ma di cosa parliamo esattamente? Truppe di terra europee e copertura aerea americana, come si è detto? Promessa di sostegno armato in caso di nuova invasione? E’ chiaro che è un controsenso: forse che Putin ha fatto la guerra per ritrovarsi i soldati occidentali sotto casa, pure di più che se l’Ucraina fosse entrata nella NATO? E gli ucraini? Se avessero accettato la smilitarizzazione del Paese, non avrebbero combattuto, non sarebbero morti.

La guerra è colpa dell’espansione della NATO, hanno detto in tanti. Eppure, a sostegno dell’ipotesi che sia la sovranità ucraina in gioco, cioè che Mosca voglia controllarne e deciderne tutte le opzioni e tutte le scelte, e non il semplice ingresso o meno nell’Alleanza Atlantica, c’è il semplice fatto che la Russia ha invaso l’Ucraina anche nel 2014. All’epoca, l’ingresso di Kiev nella NATO non era nell’agenda politica immediata, ma l’invasione del Donbass e l’annessione della Crimea ci sono state lo stesso.

 

La delegittimazione dell’Ucraina

Perciò non deve stupire che Putin non accetti nemmeno lontanamente l’idea di un incontro con Zelensky. Sì, Trump l’ha detto, ma il Cremlino l’ha smentito subito. L’attuale presidente ucraino rappresenta, con la sua stessa persona, l’idea di un’Ucraina indipendente: incontrarlo sarebbe riconoscere che l’Ucraina ha diritto all’indipendenza e alle sue opzioni – che includono il diritto a provare a entrare nella NATO o nella UE, benché queste abbiano anche il diritto di non accettarla. Putin incontrerà forse il nuovo presidente di un Paese in cui le elezioni vengano messe sotto controllo russo, quello sì: qualcuno che accetti la mutilazione del suo territorio e delle sue opzioni politiche, economiche e di difesa. Il continuo bombardamento terroristico russo sui civili serve proprio a spingere l’opinione pubblica ucraina in quella direzione. E’ un tema che sta al cuore della sfida nazionalista tra Mosca e Kiev.

Contraddizioni come queste rendono un accordo di pace quasi impensabile, alle condizioni attuali. A meno che, appunto, non cambino le condizioni attuali. L’opinione pubblica ucraina è contraria in stragrande maggioranza alle richieste della Russia – nonostante l’opera di convincimento con le bombe. Anche perché la Russia ha occupato, considerando “sue”, le parti del Paese dove si trovava la quota più russofona e russofila della popolazione, e resta dunque appannaggio della componente più vicina al nazionalismo ucraino la decisione su come terminare la guerra.

Dubitiamo che Putin e i suoi non abbiano fatto questo semplice calcolo: ciò significa che lo show di buona volontà offerto di recente, il palcoscenico di Anchorage occupato da gran mattatore mentre il presidente degli Stati Uniti stava di lato a guardare, sono serviti al capo del Cremlino soprattutto come una parata internazionale. Risultata in effetti in una grande vittoria politica, per di più ottenuta fuori casa, in territorio americano, davanti agli occhi di tutto il pianeta.

Tendiamo in effetti a dimenticare come anche il Cremlino abbia la sua propria narrazione sulla guerra, e quanto strumentale essa sia ai suoi obiettivi politici. La denazificazione. La difesa dei russi all’estero. La sicurezza nazionale. L’espansione della NATO. Queste erano le parole d’ordine quando la Russia doveva giustificare la propria aggressione come “difesa personale”. Ora che le trattative si sono aperte, invece, l’intervento in Ucraina è presentato (molto trumpianamente, in effetti) come il diritto del più forte a risolvere le sue beghe senza interferenze. “Ci sarà la pace quando le cause storiche del conflitto saranno risolte”, ha detto Putin in Alaska. Tra queste cause c’è la pretesa russa di allargare la sua sfera di influenza a Kiev – ma ovviamente non c’è la pretesa ucraina di mantenere una sovranità indipendente.

 

La visione russa della fine del conflitto

Questo cinismo politico, e il suo successo, rafforza nella dirigenza russa l’opinione che le condizioni attuali possano essere cambiate a proprio favore, e che l’Ucraina possa effettivamente essere ridotta a pedina insignificante: zona russificabile senza tanti complimenti. C’è un altro fatto da tenere sempre presente: Vladimir Putin non può accontentarsi di un successo parziale. La guerra da lui voluta è costata alla Russia centinaia di migliaia di morti, l’emigrazione di milioni di persone, uno shock economico fortissimo, e la perdita di ogni influenza politico-economica sull’Europa – con Svezia e Finlandia entrate persino nella NATO, e la UE che basa i suoi piani di riarmo proprio contro Mosca. Dall’interno della Russia, i settori pro-guerra hanno criticato l’incontro in Alaska, temendo di uscire fuori dal conflitto con un pugno di mosche: sanno molto bene, loro, che l’obiettivo della guerra non sono quattro province ucraine, ma il prestigio della Russia sul palcoscenico globale. E la storia ci ricorda che pochi dittatori sopravvivono a una guerra persa.

 

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Perciò, più si parla di trattative, più la Russia in realtà attacca e intensifica la guerra: è chiaro come i negoziati e i vertici internazionali vengano considerati dal Cremlino come un segno non di buona volontà, ma di debolezza, sia dell’Ucraina, sia di un Occidente che non vuole fare altri passi in suo favore. Perciò il Cremlino attacca per portare il fronte militare e civile ucraino al crollo definitivo: questo è “cambiare le condizioni attuali” – perché solo così, con la resa, le richieste russe potranno essere accettate e Putin potrà salvare la faccia e la poltrona.

Anche la Russia, infatti, ha un fronte interno; anche per la Russia la guerra muove enormi quantità di denaro. “Economia di guerra”, si è detto, commentando positivamente la resistenza russa alle sanzioni. Ma un’economia di guerra, in cui le fortune politico-economiche sono più influenzate che mai dalle armi, e dove su quelle si costruisce il consenso, non smetterà di esserlo in un giorno: è proprio per questo che nessuna pace duratura potrà prescindere dal rispetto del principio della sovranità ucraina.