Perché alle monarchie del Golfo non conviene scegliere tra Washington e Pechino
Perché scegliere quando si può avere tutto? Al netto delle semplificazioni, dev’essere questo il ragionamento strategico prevalente tra Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti (EAU) e Qatar, per citare solo le principali delle sei monarchie del Consiglio di Cooperazione del Golfo. A esse non conviene infatti scegliere tra Stati Uniti e Cina, “Occidente” e “Sud globale” (concetti comunque di per sé fumosi), blocco del G7 e paesi BRICS. Né, dunque, in termini di infrastrutture, tra la Belt and Road Initiative cinese e il Corridoio Economico India-Medio Oriente-Europa a trazione statunitense, appena lanciato al G20 di New Delhi (progetto che solo la guerra a Gaza, con il congelamento della normalizzazione diplomatica tra Arabia Saudita e Israele, può ostacolare). E su questo assunto si basa la scelta multipolare, o di multi-allineamento, che le monarchie stanno perseguendo e anche rivendicando, soprattutto dal 2022, dopo l’invasione russa dell’Ucraina.
Il Golfo dei due mondi
I motivi sono due. In ogni caso, il Golfo è geograficamente al centro di progetti economico-infrastrutturali concorrenti: la Belt and Road e il Corridoio. Progetti di proiezione commerciale ma anche d’influenza geostrategica di cui Arabia Saudita, EAU e le altre sono il perno ineludibile tra l’est e l’ovest dell’Eurasia, nonché verso sud (direzione Africa). Inoltre, Stati Uniti e Cina, così come Europa, India e Giappone, non possono attualmente prescindere dalla cooperazione con le monarchie del Golfo.
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Le cause si chiamano petrolio e gas (di cui rifornirsi direttamente, come fa l’Asia, o da fornire agli alleati europei in chiave anti-Russia, come da prospettiva statunitense), vie marittime e choke-points (Hormuz e Bab el-Mandeb), potere finanziario globale (vedi OPEC per la stabilità del mercato energetico), peso economico e crescente ruolo diplomatico nonché di stabilizzazione, in Medio Oriente e a livello globale.
Pertanto, le monarchie possono permettersi di non schierarsi e di non scegliere – nonostante i ripetuti inviti a farlo da parte di Washington – perché sanno che il multi-allineamento fa innanzitutto i loro interessi, in una fase assai delicata di trasformazione dei sistemi economico-sociali delle monarchie. E soprattutto non provocherà rotture. Questo è l’attuale punto di forza del Golfo, sempre più Golfo ´dei due mondi`.
Arabia ed Emirati, la scelta BRICS
Più che portare un vantaggio concreto, far parte dei BRICS rappresenta, per Arabia Saudita ed Emirati Arabi, un posizionamento – che dovrebbe tradursi in membership dal 2024. Certo, le opportunità economiche sono tante, anche se le monarchie in trasformazione economica post-oil hanno da tempo avviato investimenti, joint ventures e cooperazione multidimensionale con la totalità dei Paesi BRICS.
Tuttavia, entrare a far parte del gruppo incrementerà interscambio commerciale e penetrazione economica, specie con Africa e America Latina, anche grazie alla presenza di istituzioni come la New Development Bank con sede a Shanghai e presieduta dalla ex presidente brasiliana Dilma Rousseff (di cui gli Emirati fanno parte dal 2021) e la Asian Infrastructure Investment Bank con sede a Pechino (AIIB, che nel 2023 ha aperto proprio ad Abu Dhabi il suo primo ufficio all’estero). D’altronde, Africa e America Latina sono due continenti, nonché mercati, ai quali sauditi ed emiratini guardano con sempre maggiore interesse: lo conferma, per esempio, il primo Saudi-African summit, svoltosi a Riyadh il 10 novembre.
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Per le monarchie del Golfo, l’attrattività dei BRICS risiede inoltre nel loro formato di forum e framework, non di alleanza. Un “dettaglio” che riduce responsabilità e costi, massimizzando invece i benefici. Ed è assai probabile che la tendenza alla polifonia dei BRICS, già evidente date le differenze interne (innanzitutto tra Cina e India), si consolidi proprio a seguito dell’allargamento a nuovi membri, continuando così a premiare la strategia di sauditi ed emiratini. L’ingresso nei BRICS di Arabia Saudita ed Emirati Arabi è allora funzionale a un obiettivo più alto e ambizioso, di lungo periodo: acquisire un peso politico ancora maggiore, provare a dettare l’agenda politica su tematiche d’interesse globale, contribuendo così a ridefinire le regole, scritte e non scritte, del sistema internazionale.
Il potenziale diplomatico del Golfo
La diplomazia, compresa quella umanitaria, è un altro strumento che sauditi ed emiratini, oltreché il Qatar, utilizzano sempre più apertamente per accrescere il loro status nell’arena internazionale. Spesso, per Riyadh e Abu Dhabi, anche la diplomazia diventa un modo per enfatizzare il potenziale ruolo di pontieri in un mondo altamente polarizzato. Ciò riguarda sia le crisi ad alto impatto internazionale (Ucraina), che quelle capaci di destabilizzazione regionale (Sudan). La mediazione qatarina tra Hamas e Israele è un discorso a parte: in questo caso, la guerra è in Medio Oriente e la diplomazia di Doha ha come prima finalità la tenuta della stabilità regionale.
Nell’agosto 2023, il regno saudita ha organizzato a Jedda una riunione sull’Ucraina: in quell’occasione, l’Arabia Saudita è riuscita a far sedere la Cina, per la prima volta, a un tavolo diplomatico organizzato dagli ucraini in cui si discuteva, anche con gli americani, a partire dalla “formula di pace” elaborata da Kiev. Dall’inizio della guerra tra le fazioni militari del Sudan nel 2023, l’Arabia Saudita ha affiancato gli Stati Uniti, sempre a Jedda, per promuovere la de-escalation tra esercito e Forze di Supporto Rapido, giungendo fin qui soltanto a brevi cessate il fuoco umanitari subito violati dalle parti. Da membri dei BRICS, Arabia Saudita ed Emirati Arabi potranno capitalizzare ancora di più il loro peso negoziale nelle crisi d’interesse globale e in quelle d’impatto regionale. Per esempio, trasformandosi in attori di raccordo tra i BRICS e le istanze del G7, promuovendo aiuti finanziari e di ricostruzione nelle zone di crisi.
Consapevoli della propria attuale indispensabilità, le monarchie del Golfo – a cominciare dai sauditi e dagli emiratini – attueranno politiche di multi-allineamento sempre più audaci: Stati Uniti e Paesi europei, Cina e India, Russia. Per il momento, la scelta strategica delle monarchie del Golfo di assoggettare la politica estera agli obiettivi economici post-oil mette “alleati vecchi” e “nuovi partner” al riparo da rischi di instabilità regionale.
Nell’attuale fase, Arabia Saudita ed Emirati Arabi sono infatti in prima linea su questo fronte, come dimostra innanzitutto la scelta di riaprire il dialogo con l’Iran. E di mantenerlo aperto, fin qui e fino a quando sarà possibile, nonostante le imprevedibili implicazioni della guerra scatenata dall’attacco di Hamas a Israele.