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Il “Great Game” dei mondiali di calcio in Qatar

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I mondiali di calcio più controversi da Argentina ’78, per i più critici della decisione della FIFA di affidarli al Qatar. La Coppa del Mondo dei primati, per i più entusiasti che elencano le tante prime volte: il fischio di inizio in inverno e in Medio Oriente, gli stadi con l’aria condizionata, il debutto delle prime donne arbitro e guardalinee nel torneo sportivo più ambito a livello globale.

Lo stadio Al-Bayt, teatro della partita inaugurale dei mondiali di calcio del 2022

 

A prescindere dall’etichetta, Qatar 2022 è certamente un grande evento mediatico dove il tema dei diritti – e con esso diverse questioni politiche e geopolitiche – è entrato a gamba tesa nel tortuoso percorso della sua organizzazione, sin dalla controversa assegnazione a Doha, una decisione contornata da accuse di corruzione rimaste ancora senza risposta. Queste sono state solo le prime di una lunga serie di ombre che la dirigenza del calcio mondiale ha cercato di dissipare, invitando a tenere la politica fuori dal campo di gioco. Un tentativo vano, in un momento in cui all’interno del mondo dello sport è cresciuto il dibattito su come rendere il calcio ed i maxi-eventi ad esso correlati più sostenibili – in tutti i sensi.

Già le prime partite – teatro di gesti simbolici da parte delle nazionali iraniana e tedesca – hanno svelato quanto sia ormai impossibile isolare i novanta minuti di sfida sul campo sia dal contesto dal quale provengono i calciatori sia dal mondo dove questi si sfidano.

Il Qatar è uno degli Stati più ricchi al mondo. E’ una “petromonarchia” che lasciandosi alle spalle l’epoca delle tende nel deserto, in cui la vita si basava sulla pesca e sul commercio delle perle, rientra nella classifica dei rentier state. E’ infatti una nazione che trattiene una porzione sostanziale del proprio reddito nazionale dalla rendita assicurata dalla vendita delle proprie risorse – petrolio e gas – a clienti esterni. Gli idrocarburi garantiscono introiti così elevati che la monarchia può permettersi di non richiedere tasse ai suoi cittadini – ai quali garantisce un’istruzione di eccellenza e tanti altri privilegi: per questo motivo, però, i cittadini non hanno rappresentanza politica, in un’interpretazione speculare e opposta del concetto no taxation without rapresentaton. Proprio nel cammino verso i mondiali si è registrata però un’inedita eccezione a questo sistema, visto che nel 2021 si sono tenute le prime elezioni della Shura, un’assemblea che ha comunque poteri esclusivamente consultivi.

Il Qatar è poi tra gli Stati più piccoli e meno popolati al mondo, con una massiccia asimmetria demografica e socioeconomica: 300mila cittadini che vivono grazie al lavoro di oltre due milioni di migranti provenienti soprattutto dal sud dell’Asia, attratti da stipendi migliori di quelli che trovano nei luoghi di origine. Come in tutti i Paesi del Golfo, il mercato del lavoro si basa sulla kafala, un sistema che rende i migranti nei fatti cittadini di serie B, dipendenti dal loro sponsorhe per anni gli ha impedito legalmente di cambiare lavoro o di uscire dal Paese. I mondiali hanno messo in luce la condizione di semi schiavitù di questi lavoratori, privati di buona parte dei loro diritti e costretti a turni di lavoro massacranti, complicati dalle condizioni climatiche.

Il quotidiano britannico The Guardian e diverse organizzazioni internazionali hanno denunciato la morte di migliaia di migranti nell’ultimo decennio per la costruzione di stadi e infrastrutture necessarie ai mondiali. I dati sono difficili da verificare in modo indipendente, come ha cercato di fare l’ILO, l’Organizzazione Internazionale per il Lavoro che nel 2018 ha aperto il suo primo ufficio nel Golfo per contribuire – ovviamente in collaborazione con il governo di Doha – a una serie di riforme. “L’inchiesta fatta sul 2020 – ci ha spiegato il direttore Max Tunon – ha registrato la morte di 50 lavoratori migranti, mentre la commissione qatarina responsabile dell’organizzazione dei mondiali ha contato solo 3 decessi, legati alla costruzione degli stadi.” Solo durante il torneo Hassan Al-Thawadi, segretario generale di Qatar 2022, ha ammesso in un’intervista a Piers Morgan che potrebbero esserci stati “dai 400 ai 500 morti” per la costruzione delle infrastrutture legate al mondiale.

Comunque, secondo Tunon, questo evento sportivo ha avuto il merito di accelerare una serie di riforme, inedite nella regione del Golfo. “Il sistema della kafala esiste ancora, ma ora un lavoratore può cambiare impiego o andarsene dal Paese senza il permesso del proprio datore. Quando questi cambiamenti sono stati annunciati nel settembre 2020, c’è stata una forte resistenza da parte della società.” Nelle strade di Doha si sono infatti viste manifestazioni di kafeel – datori di lavoro – contrari alle novità introdotte dalle nuove norme. “Un’altra riforma riguarda lo stress creato dalle alte temperature – aggiunge Tunon. Ora in estate tutte le persone che lavorano all’aperto devono fermarsi dalle 10 alle 15.30.” Una novità che ha ridotto il numero di migranti ricoverati d’urgenza a causa proprio del caldo, ritenuta una delle maggiori cause di morte improvvisa dei migranti, sul cui certificato di decesso – come  precisa Amnesty International – è stato però quasi sempre riportato “morte naturale”. La questione più spinosa – secondo l’ILO – resta la protezione dei salari dei migranti. “Negli ultimi 12 mesi, ci sono stati 34.000 ricorsi al ministero del lavoro. Quasi tutti per stipendi non pagati da parte delle compagnie. Il governo ha pagato 320 milioni dollari per accelerare i versamenti non saldati – spiega Tunon. Il problema non è più denunciare queste negligenze, ma accelerare i versamenti non pagati.”

Secondo organizzazioni come Amnesty International e Human Rights Watch, le riforme approvate non sono ancora state implementate e restano comunque insufficienti. E’ anche per questo che entrambe le organizzazioni hanno chiesto anche alla FIFA di creare un fondo per ricompensare i migranti impegnati a vario titolo nella realizzazione dei mondiali. Una richiesta reiterata anche dal Parlamento Europeo che ha recentemente adottato un’apposita risoluzione dove si chiede l’istituzione di un fondo per il risarcimento di tutte le vittime legate all’evento.

Le sistematiche denunce di violazioni dei diritti umani hanno portato alla nascita di una campagna di boicottaggio, che si è animata soprattutto in Nord Europa e ha coinvolto ONG, calciatori, attivisti e anche alcune tifoserie, come quella omosessuale della nazionale inglese che alla fine ha annunciato di non partire per Doha.  Alcune città – tra le quali Nizza Strasburgo e Parigi – hanno invece deciso di non montare maxischermi per mandare in onda le partite.

Anche se un boicottaggio vero e proprio non si è mai concretizzato, tutto il rumore attorno ai mondiali ha spinto diversi analisti a pensare che i mondiali si stessero trasformando in un autogol per il Qatar. “Queste ipotesi sembrano oggi confermate, anche se la fine dell’isolamento diplomatico imposto, tra l’estate del 2017 e il gennaio 2021, da Arabia Saudita, Bahrein e Emirati Arabi Uniti ha quantomeno evitato che il rischio di uno spostamento di sede si concretizzasse”, spiega l’analista Nicola Sbetti, sottolineando come l’embargo imposto al Qatar da questi Paesi sia stato l’unico vero ostacolo (poi ovviamente superato) alla realizzazione del mondiale. Con la partecipazione dell’Arabia Saudita – e della sua dirigenza, presente e bene in vista agli eventi sportivi – ha anzi certificato nei fatti l’avvenuto ravvicinamento tra i due Paesi. “Doha sta comunque traendo benefici concreti dall’essere il Paese organizzatore. In un momento storico in cui, per via delle sanzioni alla Russia, le sue riserve di idrocarburi hanno acquisito ulteriore valore e i governi occidentali si sono contesi le forniture di gas dei Paesi del Golfo, i mondiali hanno contribuito a facilitare la conclusione di nuovi e importanti accordi commerciali e diplomatici, nonché l’acquisizione di know-how straniero in diversi settori, in particolare in quello della sicurezza”, aggiunge Sbetti, autore con Riccardo Brizzi di La diplomazia del pallone. Storia politica dei mondiali di calcio (1930-2022).

 

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Fra la dozzina di Paesi che stanno fornendo a Doha sostegno militare e addestramento in questo campo c’è anche una missione italiana, guidata dal Generale Figliuolo, che coinvolge 560 militari. La solidarietà di Roma è in linea con quella mostrata da diversi Paesi Nato – Francia in primis – che ritengono il Qatar un alleato cruciale, non solo per il ruolo giocato in diversi dossier come quello delle negoziazioni intra-afgane e l’accordo di pace raggiunto recentemente in Ciad, ma soprattutto perché l’unico Stato della regione ad ospitare una base NATO, la strategica Al Ubeid, utilizzata ad esempio per l’evacuazione di civili e militari da Kabul. Un’operazione che ha nei fatti incoronato questo Stato del Golfo come un importante alleato non-NATO di Washington.

A fare discutere sono anche le politiche omofobe del Qatar, dove atti e relazioni omossessuali – più diffusi di quanto si pensa, complice la segregazione sessuale – sono illegali. Un contesto che rende difficile la realizzazione dello slogan con cui gli organizzatori hanno annunciato che ai mondiali “Everyone is welcome, regardless of race, background, religion, gender orientation or nationality”. Anche se è ancora presto per fare un bilancio, sono già stati denunciati diversi casi di tifosi bloccati all’ingresso degli stadi a causa di indumenti, bandiere e anche smartwatch arcobaleno. La FIFA stessa ha minacciato pesanti sanzioni – come la squalifica del capitano della nazionale coinvolta – nei confronti delle squadre che volessero scendere in campo con la fascia arcobaleno per sostenere la campagna “One Love”.

A pesare su questo mondiale è infine anche lo sguardo “orientalista” e in parte ancora colonialista utilizzato dal grande  calcio europeo che osserva con un certo snobismo quello arabo. Diversamente da quanto ripetono commentatori occidentali, secondo i quali il calcio non è parte della storia e della cultura locale, questo sport è arrivato in Qatar già negli anni ‘40, grazie alle compagnie inglesi che cercavano il petrolio. Le prime partite osservate dai qatarini erano proprio quelle tra gli operai delle diverse compagnie che si sfidavano buttando a terra due maglioni nel deserto per delimitare la porta. Come racconta il saggio di Thomas Ross Griffin nel volume Football in the Middle East, curato dal professor Abdullah al-Arian, il Qatar ha aderito alla FIFA ancor prima di diventare, nel 1971, uno Stato indipendente, e ha ospitato la Coppa del Golfo nel 1976. Il vero salto in avanti è stato fatto solo nel nuovo millennio con la creazione di un’apposita accademia polisportiva per crescere talenti – Aspire – che ha portato, nel 2019, alla vittoria della Coppa d’Asia (in finale contro il Giappone).

Il calcio è diventato negli anni uno strumento di soft power utilizzato da Doha per posizionarsi nel mondo, sfidando a suon di investimenti anche gli altri attori regionali. L’acquisto e la trasformazione del Paris Saint Germain in una squadra miliardaria, stella del calcio europeo, è una tappa di questo percorso che ha raggiunto il suo apice con i mondiali 2022, ma che è destinato a durare e ad alimentare maggiormente il dibattito su sport e diritti, vivacizzato dal crescente protagonismo sportivo di altri Paesi non pienamente democratici come la Turchia, l’Arabia Saudita o la Cina che cercano nello sport internazionale uno spazio per dar sfogo alle loro ambizioni di potenza.

 

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I principali eventi sportivi internazionali in programma, a partire dalle Olimpiadi estive di Parigi 2024 fino ad arrivare ai Mondiali 2026 di Canada Stati Uniti e Messico si svolgeranno però in Occidente. Secondo Sbetti, però, questo non segnerà la fine della politicizzazione delle arene sportive. Di calcio in Medio Oriente si tornerà comunque a parlare visto che l’Arabia Saudita è una seria candidata ad ospitare l’edizione del 2030, che coinciderebbe con l’eventuale assegnazione dell’Expo di quell’anno a Riad.