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Partita aperta, a Barcellona e a Madrid

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Le elezioni catalane di metà febbraio hanno generato grandi titoli sulla stampa internazionale. Tre sono i più vistosi. Il primo fa riferimento al fatto che l’insieme delle forze indipendentiste, cioè la sinistra moderata di Esquerra Repubblicana de Catalunya (ERC); Junts, il partito-movimento di Carles Puigdemont (erede dell’avventura della dichiarazione d’indipendenza dell’ottobre del 2017); e gli indipendentisti anticapitalisti della CUP, più gli eredi del nazionalismo conservatore del PDCat, che però non ottengono seggi) hanno superato la soglia del 50% dei voti, e hanno ottenuto rispettivamente 33, 32 e 9 deputati, la maggioranza del 135 seggi del Parlamento.

L’altro grande titolo è la vittoria – con 33 seggi in pareggio con ERC, però in vantaggio sui voti – dei socialisti guidati dall’ex ministro della Sanità del governo spagnolo Salvador Illa: il Partito Socialista di Catalogna ha conquistato buona parte del consenso che tre anni e mezzo fa era andato ai liberali centralisti di Ciudadanos, rimasti con 6 miseri deputati. Il risultato è ancora più significativo considerando che non ha intaccato i voti di En Comú Podem – il Podemos catalano guidato dalla sindaca di Barcellona Ada Colau, che mantiene i suoi otto seggi: i due partiti della coalizione progressista che sostiene il governo di Pedro Sánchez risultati ottenuti in Catalogna.

Salvador Illa in campagna elettorale

 

Il terzo grande titolo è l’irruzione dell’estrema destra di Vox, che non solo entra nel parlamento catalano come quarta forza, con 11 deputati, ma lo fa riducendo al contempo il PP, partito espressione della destra classica nello stato spagnolo, a una presenza minima, con 3 deputati.

 

Leggere il voto catalano

A seconda dell’orientamento del giornale e del taglio dell’articolo è stato sottolineato uno aspetto o un altro di questi aspetti. Sono tutti e tre fondamentali, comunque, perché il risultato delle elezioni catalane come sempre avrà ripercussioni sull’insieme del sistema politico spagnolo. La stessa situazione politico-sociale della Catalogna è molto delicata: c’è ora da affrontare la lenta digestione di quanto accaduto tre anni e mezzo fa con la sfida indipendentista, la sospensione dell’autogoverno e le condanne ai dirigenti indipendentisti del ciclo 2015-2017.

Carles Puigdemont (al centro) e gli altri dirigenti del governo catalano cantano Els Segadors dopo aver dichiarato l’indipendenza della Catalogna, il 1° ottobre 2017

 

Ognuno dei tre punti di vista sul voto catalano, però, oltre a evidenziare una parte della verità, ne maschera un’altra.

La somma dei partiti indipendentisti supera il 50% dei voti, certo: ma lo fa in un contesto di altissima astensione, derivata certamente dagli effetti della pandemia, ma non solo. I tre partiti hanno perso in cifre assolute più di 600mila voti: un dato importante se si tiene conto della capacità di mobilitazione (elettorale e non solo) che hanno più volte dimostrato, anche in situazioni difficili. Quindi, si tratta di un traguardo che può essere sbandierato come argomento propagandistico, però che gli stessi indipendentisti sanno carente di qualsiasi operatività per l’obiettivo della secessione.

I socialisti si impongono chiaramente: non erano il primo partito in Catalogna dal 2003, e segnano in percentuale il risultato migliore da più di dieci anni. Ma la vittoria di Illa potrebbe risultare sterile, se l’intenzione è quella di ripetere alla Generalitat la formula del governo centrale di Madrid: la somma dei seggi socialisti e di En Comú Podem al parlamento di Barcellona resta lontana (mancano 17 seggi)  dal poter raggiungere la maggioranza necessaria per governare.

Il successo (7,7% dei voti) di Vox nella maggior parte delle analisi viene legato a un fattore di tipo “nazionale”: l’estrema destra avrebbe magnetizzato la parte più decisa del voto antindipendentista, configurandosi come l’opzione della rivendicazione dell’“orgoglio spagnolo”. In parte questo può essere vero, ma i primi studi fatti sulla distribuzione del voto dicono che i consensi vengono soprattutto dall’astensione, dai giovani, e dai disoccupati. A differenza del resto della Spagna (in cui il partito di Abascal si è nutrito fino ad ora del voto dei delusi del PP), in Catalogna Vox avrebbe delle caratteristiche più simili a quelle di alcune esperienze dell’estrema destra europea. Un elemento, dunque che supera le specifiche caratteristiche della situazione catalana e pone domande ben diverse.

Ignacio Garriga, capolista di Vox alle elezioni catalane

 

Se ne possono trarre due conclusioni. La prima: benché in campagna elettorale i partiti abbiano continuato a battere sulla divisione fra indipendentisti e non indipendentisti (addirittura i partiti favorevoli alla secessione hanno firmato un documento in cui si impegnano a non stringere accordi con i socialisti, colpevoli di aver votato per la sospensione dell’autonomia catalana tre anni fa), la questione sembra molto più complessa. La seconda, in stretta connessione con la prima: anche se quello schema può spiegare parte della realtà, la situazione di quest’inizio del 2021 non ha nulla a che vedere con quella della fine del 2017, per molte ragioni.

Per cominciare, c’è una questione politica: sia nel campo indipendentista che nel campo non indipendentista sono prevalse le opzioni più favorevoli al dialogo. ERC, il cui leader Oriol Junqueras è ancora in carcere per la dichiarazione d’indipendenza del 1° Ottobre 2017, sta ora portando a termine una lenta e difficoltosa virata verso posizioni meno radicali. Non che abbia rinunciato all’idea dell’indipendenza, ma da tempo ormai la condiziona a circostanze di medio periodo e a un aumento importante del consenso – nel 2017, le forze indipendentiste non avevano nemmeno il 50% dei voti. Questo impone un ragionamento sul cosa fare “nel frattempo”, che nel caso di ERC si è tradotto nell’appoggiare il governo di sinistra di Pedro Sánchez con i propri parlamentari a Madrid.

 

Prospettive a Barcellona

La posizione dei repubblicani è difficile da difendere all’interno dell’indipendentismo: Junts, il movimento di Puigdemont – che ha assunto le caratteristiche di una forza dalle caratteristiche trumpiste (dall’uso massiccio di fake news al dare spazio a atteggiamenti e discorsi ispanofobi, e dunque xenofobi) -, ha utilizzato ed utilizza tutte le armi a sua disposizione per dipingere ERC come “traditrice” della causa, perché sostenendo il governo di Madrid si è macchiata di “intelligenza col nemico”. Bisognerà vedere se ERC sarà capace di resistere a pressioni che nell’infuocato clima ideologico e sociale della Catalogna possono essere molto efficaci.

D’altro canto il Partito Socialista di Catalogna ha vinto parlando di cambiar pagina, mettendo nel cassetto la narrativa punitivista che tre anni e mezzo fa aveva dato la vittoria a Ciudadanos. Socialisti e repubblicani (con Podemos e i Comunes) sono infatti stati gli architetti del cosiddetto “tavolo del dialogo”, un organo di confronto che riunisce l’esecutivo di Madrid e quello di Barcellona per tentare di risolvere e disinnescare il “conflitto”.

C’è anche un elemento aritmetico, che diviene politico: nel parlamento di Barcellona esiste una possibile maggioranza alternativa a quella indipendentista. Socialisti, repubblicani e Comunes hanno i seggi sufficienti per dar vita ad un esecutivo di sinistra. I socialisti non hanno escluso a priori la possibilità, ma lo scoglio vero è l’”estorsione identitaria” che Junts sta esercitando su ERC. Però i numeri ci sono, e gli esempi del fatto che la collaborazione può funzionare, anche. Non solo a Madrid, ma anche al comune di Barcellona, dove il governo di socialisti e Comunes presieduto da Ada Colau di fatto sta governando anche con i voti di ERC.

La composizione del nuovo parlamento catalano

 

Questa soluzione romperebbe la frattura “nazionalista” (forze indipendentiste contro forze contrarie), in favore della frattura ideologica: un blocco di sinistra sia indipendentista che non, che avrebbe un’opposizione fatta di forze conservatrici sia indipendentiste che non. Se venisse messa in cantiere nel parlamento regionale contribuirebbe a ricucire la polarizzazione identitaria, cambiando gli assi portanti del modo in cui ha funzionato il sistema politico catalano degli ultimi dieci anni.

Vale la pena ricordare che questa formula di governo è caldeggiata – in maniera più o meno esplicita – sia dalla confindustria locale che dai sindacati. Per i sindacati, si tratta di una scelta ideologica evidente, vista la possibilità di spostare a sinistra l’asse della Generalitat in un momento di gravissima emergenza sociale. Per l’imprenditoria catalana, nonostante possa sembrare paradossale, si tratta invece della necessità imperiosa di avere un governo regionale che si occupi di questioni concrete, lontano dalle retoriche simboliche che hanno caratterizzato le esperienze di governo indipendentiste degli ultimi anni, e che dal punto di vista dell’economia regionale sono state catastrofiche.

È presto per sapere cosa accadrà, perché i partiti sono in piena discussione. A metà marzo si dovrà votare per la presidenza del parlamento di Barcellona, e in quella circostanza si avranno più elementi per capire come evolverà la situazione. Ma la partita resterà comunque aperta, per molte ragioni: il possibile indulto ai politici indipendentisti in carcere (competenza del governo di Pedro Sánchez) potrebbe scalfire la già precaria unità indipendentista. Il dibattito su come verranno spesi i soldi del Recovery Fund potrebbe articolare alleanze e accordi del tutto eterodossi. L’inerzia indipendentista che rende per ERC difficile distanziarsi dal massimalismo di Puigdemont potrebbe comunque portare alla formazione di un esecutivo indipendentista con Junts e l’appoggio della CUP. Ma le molte variabili presenti sul piatto potrebbero anche rendere questa soluzione soltanto momentanea.

 

Prospettive a Madrid

Le elezioni catalane hanno avuto conseguenze anche sul quadro politico nazionale. I socialisti ne escono sicuramente rafforzati, e particolarmente Pedro Sánchez, dal momento che la scommessa sulla candidatura-lampo di Illa è stata sua. Podemos, da parte sua, ha evitato il rischio di essere spazzata via dal voto utile ai socialisti. La destra “di sistema”, invece, ovvero il Partito Popolare e Ciudadanos (quest’ultima era stata la forza più votata alle elezioni del 2017) ne escono invece con le ossa rotte. A parziale vantaggio di Vox.

Paradossalmente però, il momento di crisi di PP e Ciudadanos può essere un problema per la coalizione di sinistra, perché può dare la falsa sicurezza della mancanza di un’alternativa. Le frizioni fra i partiti di governo stanno crescendo d’intensità. Molto vistose le tensioni sulle oscure vicende della casa reale, sulla legge per la difesa dei diritti trans (che sta generando un aspro dibattito all’interno del movimento femminista) o, più recentemente, sulla necessità di cambiare alcune leggi che riguardano la libertà d’espressione che hanno portato all’ingresso in prigione di un rapper catalano, seguito da disturbi e tafferugli a Barcellona, ma anche in altre città.

Un furgone della Guardia Urbana di Barcellona assalito e incendiato durante una protesta notturna sulla Rambla, il 27 febbraio

 

Ma tensioni ben più profonde – soprattutto nello scenario della terribile crisi economica e sociale post-pandemia – hanno a che vedere con questioni di politica economica: l’impiego dei fondi europei, il salario minimo, le pensioni, la legislazione del lavoro, l’equo canone e le leggi sulla casa. I socialisti fanno valere spesso in modo poco rispettoso il ruolo di socio forte della maggioranza di governo, e Podemos li accusa di non rispettare gli accordi e di utilizzare metodi di pressione che fanno apparire il partito di Pablo Iglesias quasi come una forza d’opposizione. La via della prima coalizione di sinistra nella Spagna post-franchista è tutt’altro che sgombra.