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L’onda d’urto della guerra nello spazio, e le conseguenze per l’Europa

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L’onda d’urto delle deflagrazioni della guerra in Ucraina ha investito in pieno il settore spaziale. Se gli effetti di questo allargamento del conflitto appaiono immediatamente rilevanti e per il futuro da valutare con attenzione, per l’Europa sono già chiaramente negativi e in prospettiva preoccupanti. Non passa settimana senza le scomposte minacce di Dmitry Rogozin, capo dell’agenzia spaziale russa Roscosmos, contro la collaborazione sulla Stazione Spaziale Internazionale (ISS) in un’altalena di dichiarazioni e smentite che rendono assolutamente incerto il rapporto con le agenzie statunitense, europea e canadese – non si sa per quanto ancora e con quali modalità suoi partner internazionali.

Personale dell’ESA al lavoro sul veicolo che dovrebbe esplorare la superficie di Marte

 

Cooperazione internazionale in bilico

In risposta all’invasione dell’Ucraina, l’Agenzia Spaziale Europea (ESA) ha formalmente interrotto i piani per lanciare ExoMars su un razzo russo a settembre. Una decisione grave considerando l’importanza della missione, la ricerca di tracce di vita su Marte, in particolare per l’Italia visto il ruolo dei nostri scienziati e di Leonardo[1]. Riprogrammarla non sarà facile perché un nuovo piano per ExoMars implicherebbe, oltre alla sostituzione del razzo Proton, il cambiamento della piattaforma di atterraggio russa, Kazachok. Con le attuali sanzioni tecnologiche l’ESA non può spedire al cosmodromo di Baikonur il rover, poiché include strumenti russi e tecnologie sottoposte a normativa ITAR[2]. Secondo il Direttore Generale dell’ESA, Joseph Aschbacher, un’opzione sarebbe rinnovare la collaborazione sul programma con la NASA[3].

Il Consiglio dell’ESA ha anche esaminato la decisione della Russia di fermare i lanci di Soyuz dalla Guyana francese e di ritirare il suo personale in risposta alle sanzioni europee. Questa decisione pone cinque missioni europee nel limbo: due lanci di satelliti di navigazione Galileo, l’osservatorio spaziale Euclide dell’ESA, i satelliti EarthCARE per le scienze della terra e un satellite da ricognizione francese. Tutto questo – bisogna sottolinearlo – mentre gli Stati Uniti proseguono la loro collaborazione con i russi sulla Stazione Spaziale Internazionale. Una scelta saggia, visto che in 20 anni ci hanno investito oltre 100 miliardi di dollari. Non si capisce invece la strategia di politica spaziale dell’ESA che pur nella sua autonomia dalla Commissione sembra incoerente a quanto affermato dal  Commissario europeo responsabile per lo spazio, Thierry Breton, che ha definito il nuovo programma spaziale di 14,8 miliardi di euro lo strumento per  “realizzare la politica spaziale europea in tutte le sue dimensioni”.

I cambiamenti della collaborazione spaziale dovuti alla guerra in Ucraina, ridefiniranno le capacità tecnologiche e i conseguenti equilibri degli assetti spaziali.

Un effetto, immediatamente visibile e positivo per il settore a spaziale USA, è sicuramente l’accelerazione di una tendenza già presente a livello tecnologico e commerciale come l’alba di una “nuova era dell’intelligence geo-spaziale commerciale”.

Ma non finisce qui. In un futuro vicinissimo l’esplorazione lunare avrà un peso notevole nello stabilire chi vince e chi perde nella nuova space race. In questo Washington ha in qualche modo anticipato lo scontro con i russi proponendo nel maggio del 2020 ai suoi alleati gli Artemis Accords, uno strumento di cooperazione internazionale per la realizzazione di una stazione orbitante attorno alla Luna, una sorta di base logistica per il trasferimento di personale e materiali da e verso la superfice del satellite. Lo scopo finale è lo sfruttamento delle terre rare lunari. Gli Artemis Accords, pur rimandando esplicitamente al Trattato sullo Spazio del 1967, sono molto diversi perché pur essendo formalmente aperti  sono stati sottoscritti in forma bilaterale e non vincolante da alcuni governi alleati degli USA tra cui l’Italia. Lo scopo è la creazione di un framework giuridico, tecnologico, commerciale e di sicurezza che tenga al di fuori russi e cinesi. Un caveat rilevato subito dal capo di Roscosmos, che ha paragonato gli Accords alla coalition of the willing utilizzata per invadere l’Iraq.

Questi mutamenti arrivano nel pieno di un salto di qualità delle tecnologie spaziali.

 

La rivoluzione del “gemello digitale”

Del resto negli ultimi vent’anni sono avvenute molte rivoluzioni tecnologiche collegate tra loro; tra queste, la rivoluzione di internet, quella delle applicazioni e da ultimo il Digital twin[4], insieme hanno modificato drasticamente la progettazione e l’industrializzazione nel settore spaziale e in tantissimi altri.

Il Digital twin è il nuovo paradigma per progettare, realizzare e gestire le tecnologie dello spazio. Fino a qualche anno fa avremmo potuto definire i prodotti della tecnologia spaziale – lanciatori, satelliti, moduli della Stazione Spaziale internazionale (ISS), rover, etc. – pezzi unici di “artigianato tecnologico”, oggetti di “super lusso” realizzati seguendo meticolosamente le specifiche richieste. La logica di progettazione era semplice: si costruiscono un lanciatore e una navicella spaziale e sopra ci si mette il meglio del meglio della tecnologia conosciuta; se non esiste – cosa che accade spesso – lo si crea appositamente. È insomma la logica con cui si realizzano i mega yacht di lusso. Completamente diverso il nuovo paradigma di progettazione che parte dal design dei “Components of the Sheath” (CoS) per progettare la piattaforma in modo che sia più ricorrente possibile (nell’automotive è la logica del pianale comune per modelli diversi); di conseguenza sulla piattaforma di un satellite, ad esempio, si può così mettere un’antenna se si tratta di un satellite di telecomunicazioni oppure un sensore LiDAR (Laser Imaging Detection and Ranging) se invece lo scopo sarà l’osservazione della Terra. Durante questo processo vengono raccolti tutti i dati per la realizzazione del Digital twin che inizierà i test in ambiente virtuale (i test in ambiente fisico sono quindi limitati), consentendo un taglio dei costi e anticipando le debolezze sia di prodotto che di industrializzazione.  Alla fine i gemelli digitali sono copie virtuali e precise di macchine o sistemi che stanno rivoluzionando l’industria. Molte grandi aziende utilizzano già i gemelli digitali per individuare i problemi e aumentare la resilienza.

Il termine Digital Twin è stato presentato al pubblico per la prima volta nella roadmap tecnologica integrata della NASA[5]: “…Il Digital Twin è ultra realistico e può considerare uno o più sistemi veicolari importanti e interdipendenti tra cui propulsione, accumulo di energia, avionica, supporto vitale, struttura del veicolo, gestione termica, etc.. Il Digital Twin completa i dati iniziali con nuove informazioni che arrivano dalla gestione dello stato operativo del veicolo, dalla cronologia di manutenzione e da tutti i dati storici della flotta disponibili grazie al data mining. Nei casi più sofisticati i sistemi a bordo del gemello digitale sono anche in grado di mitigare i danni o il degrado suggerendo cambiamenti nel profilo della missione per aumentare sia la durata della vita che le probabilità di successo della stessa…”. Come si vede il Digital Twin rappresenta un quadro olistico fino a contemplare la riconfigurazione della missione.

 

Il responsabile della tecnologia di un’importante agenzia spaziale sintetizza così la transizione dal vecchio al nuovo mondo della progettazione delle tecnologie spaziali: “La grande sfida è capire quanto della piramide fisica si può virtualizzare e quanto no, ossia decidere consapevolmente cosa si può portare dai test fisici ai test virtuali”.

 

Evoluzione tecnologica dirompente

Malgrado le battute d’arresto, lo spazio, come “ultima frontiera” tecnologica, moltiplica anno dopo anno le tecnologie e le applicazioni che innoveranno le operazioni upstream[6]. Al Digital Twin si è aggiunto l’additive manufacturing, un processo che ha come punto di partenza la realizzazione di un modello in 3D dell’oggetto da produrre, il modello viene poi convertito in un file in formato SLM (Selective Laser Melting) o DMLM (Direct Metal Laser Deposition per la stampa 3D industriale. Nella propulsione, questi processi hanno già giocato un ruolo innovativo consentendo la produzione, di serie e scalabile, dei motori riutilizzabili di SpaceX, il primo passo nel nuovo concetto spaziale lanciato da Elon Musk.

 

Leggi anche: L’elemento cyber nella guerra russo-ucraina

 

Un altro game changer potrebbe essere il progetto dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA) per estrarre ossigeno dalla regolite, la polvere lunare. Sia l’ESA che la NASA, infatti, stanno pianificando di tornare sulla Luna con missioni umane che in prospettiva costruiscano degli insediamenti stabili. È quindi necessario acquisire ossigeno dalle risorse trovate sulla Luna sia per il supporto vitale dei coloni sia per la produzione locale di carburante per razzi. Per questo l’ESA ha testato un metodo per estrarre l’ossigeno dalla regolite in un impianto prototipo al Centro europeo di ricerca e tecnologia spaziale, ESTEC, in Olanda. L’Agenzia Spaziale Europea ha poi affidato ad una startup belga il perfezionamento della tecnologia che sarà inviata sulla luna per produrre ossigeno. La macchina per la produzione di ossigeno si baserà sul processo Cambridge FFC, originariamente sviluppato alla fine degli anni ’90 per l’estrazione diretta del titanio dall’ossido di titanio. In questo caso possiamo parlare di “spin in spaziale”. L’ESA e altre agenzie spaziali hanno già iniziato a sperimentare nello spazio una tecnica derivante dall’industria mineraria, ossia l’utilizzo di particolari batteri per l’estrazione di minerali, come nel caso del BioAsteroid Experiment.

Rimanendo al volo umano, sono molto interessanti le società e le tecnologie vincitrici del Deep Space Food Challenge, il concorso annuale nella NASA e dell’Agenzia Spaziale Canadese (CSA) per la realizzazione di sistemi per la produzione agroalimentare nelle missioni di lunga durata. Nel cito solo alcune: la Mission Space Food coltiva carne da cellule staminali grazie alla crioconservazione cellulare e a un bioreattore; la Deep Space Entomoculture genera alimenti da cellule di insetti; la BigRedBites ha brevettato un sistema simbiotico di cianobatteri per produrre prodotti freschi e nutrienti, utilizzando innovazioni come il suolo artificiale stampato in 3D e l’utilizzo deispace debrys, ossia dello smaltimento dei satelliti fuori servizio, l’ESA sta lavorando insieme all’azienda tedesca HPS al sistema ADEO-N il più piccolo di una famiglia di dispositivi di aumento della resistenza (una sorta di vela) che utilizza l’atmosfera terrestre residua presente nelle orbite basse per deorbitare passivamente piccoli satelliti, che potrebbe essere applicabile anche su veicoli spaziali non operativi.

 

La lunga strada per abitare il cosmo

Nonostante dal 2000 la Stazione Spaziale Internazionale (ISS) sia ininterrottamente abitata, lo spazio profondo continua a essere un ambiente ostico per gli esseri umani, specialmente per le missioni di lunga durata. Vediamo le tecnologie con cui si affrontano i due problemi principali che bisogna superare nell’esplorazione spaziale.

Il primo problema è la protezione degli astronauti dai raggi cosmici e da tutte le radiazioni presenti nello spazio profondo. Sulla Terra siamo protetti dall’atmosfera che fornisce uno scudo di 2,3 metri di alluminio equivalente ma nello spazio non è possibile portare masse di materiale di quel peso e ingombro. Gli studi attuali sulla sopravvivenza umana dicono che il limite di carriera per radiazioni degli astronauti su Marte è un anno; considerando che il viaggio per arrivarci è di almeno sei mesi e che la colonia marziana dovrebbe vivere al riparo sottoterra, l’obiezione è spontanea: ma che senso ha viaggiare fino a Marte per poi viverci come i cavernicoli?

Tra le contromisure per filtrare i raggi cosmici, c’è la realizzazione di campi magnetici per le astronavi e per le colonie marziane – strada teoricamente più interessante ma non ancora esplorata – oppure l’utilizzo di protezioni ad acqua come la tuta sperimentata dall’astronauta Paolo Nespoli, tutti i materiali che contengono idrogeno, infatti, proteggono dai raggi cosmici. Sulle navicelle spaziali la protezione sarebbe fornita dal design toroidale dei serbatoi del propellente ad idrogeno, che allo stesso tempo fungerebbero da protezione dai micro-meteoriti o dal micro-debris grazie a materiali in grado di parcellizzare e assorbire i frammenti in ipervelocità derivati dal kevlar e stratificati con la tecnica del sandwich esploso.

Il secondo problema (ma anche una fortuna) è la gravità che ci tiene inchiodati a Terra. La “tassa” imposta dalla gravità sui voli spaziali è scesa – e di molto – grazie ai veicoli spaziali riutilizzabili. Nel 1981, quando la NASA presentò il programma Space Transportation System (STS), più comunemente conosciuto come Space Shuttle, portare un oggetto nello spazio costava circa 85.000 dollari al chilo, meno di 20 anni dopo il veicolo Falcon Heavy di SpaceX aveva infranto la barriera di 1.000 dollari al chilo, un crollo dei costi che ben fa capire l’importanza delle innovazioni tecnologiche messe in campo da Elon Musk.

Rimane però il fatto che il programma Shuttle, uno spazioplano che rientrava ed atterrava su una pista come qualsiasi altro aereo, è stato precorritore dei tempi e quindi realizzato con tecnologie non sufficientemente mature, costose e non abbastanza sicure. Ma l’idea era giusta. Reaction Engines è una società aerospaziale britannica che sta studiando la fattibilità dello spazioplano Skylon spinto da propulsore Sabre (Synergetic Air Breathing Rocket Engine), un motore alimentato a idrogeno che può spingere uno spazioplano da zero a velocità ipersoniche utilizzando l’ossigeno nell’atmosfera terrestre. Una volta arrivato Mach 5 (cinque volte la velocità del suono) e a un’altitudine di 20 km Sabre smette di respirare l’aria, chiude le sue bocchette e inizia a bruciare ossigeno liquido mescolato con il suo carburante a idrogeno per raggiungere velocità di Mach 25 che gli consentono di entrare nell’orbita terrestre. Nonostante il successo dei primi test di laboratorio la strada per arrivare al volo ipersonico è ancora lunga.

 

Tecnologia, mercato e diplomazia

Per capire la portata delle ricadute della tecnologia spaziale la NASA ha monitorato oltre 2.000 prodotti commerciali statunitensi sviluppati con successo tra il 1976 e il 2018[7]. La maggior parte dei trasferimenti di tecnologia spaziale statunitense è avvenuta nei settori della produzione e dei prodotti di consumo, della tecnologia informatica, dell’ambiente e della gestione delle risorse.

Vale la pena ricordare che tra le Space Technology and Applications (STA) e gli scopi per cui vengono poi sistematizzate e utilizzate c’è uno snodo fondamentale, il trasferimento tecnologico, o più precisamente il Technology Transfers and Commercialisation (TTC). Negli ultimi decenni i trasferimenti di tecnologia sono cresciuti come un’importante fonte di innovazione, crescita e creazione di posti di lavoro anche nel settore spaziale, con importanti vantaggi socioeconomici in altri settori dell’economia. Sulla scia di questa evidenza, i governi hanno deciso di facilitare i TTC di tecnologia spaziale, ancora oggi finanziata soprattutto attraverso budget istituzionali malgrado l’arrivo sulla scena di importanti attori privati, per lo più negli Stati Uniti.

 

Leggi anche: Gli esami di maturità della “New Space Economy” 

 

Tornando al tema degli effetti della guerra in Ucraina sul settore spaziale credo si debbano fare due riflessioni. Innanzitutto, se già agli inizi della space race le motivazioni strategiche e militari erano state il “propellente” più importante per gli avanzamenti tecnologici, oggi nel pieno della guerra abbiamo visto molteplici dimostrazioni di come le applicazioni spaziali e le tecnologie sottostanti abbiano un ruolo sempre più consolidato e rilevante in tutti quegli ambiti che definiscono la superiorità strategica nel settore militare e in quello economico. Sviluppare queste tecnologie difendendole da partner ritenuti non più affidabili – come nel caso della Russia – è quindi un comportamento razionale e corretto. Non a caso il Dipartimento di Stato americano ha definito nel 2005 lo space power come “la forza totale delle capacità di una nazione di condurre e influenzare le attività verso, dentro, attraverso e dallo spazio per raggiungere i suoi obiettivi”[8].

Meno razionale e meno corretto è, invece, trasferire il conflitto dal terreno allo spazio e alle delicate e complesse relazioni che lo hanno reso un dominio dell’uomo. La diplomazia spaziale ha avuto un ruolo fondamentale negli equilibri internazionali e – fino ad oggi – ha teorizzato e agito per rafforzare il concetto di stabilità strategica, cercando di mantenere pacifica la convivenza tra le nazioni anche attraverso forme diverse di cooperazione spaziale. Un esempio è stata la Stazione Spaziale Internazionale che ha rappresentato una sorta di tavolo diplomatico permanente, anche in altri difficili momenti delle relazioni tra USA e Russia.  Bisognerebbe fare tutti gli sforzi possibili perché continui ad essere così, anche se la guerra in Ucraina ci ha portato nel XXI secolo segnando definitivamente la fine degli equilibri che dal 1945 ad oggi avevano regolato il mondo.

 

 


Note:

[1] Leonardo ha realizzato la trivella marziana e il laboratorio per l’analisi dei campioni di terreno marziani. La torinese Altec, joint venture tra Thales Alenia Space Italy (a sua volta partecipata di Leonardo e Thales) e l’Agenzia spaziale italiana, l’Asi, sono stati utilizzati per i test del rovers su un terreno marziano simulato e anche per sviluppare il Rocc, in sostanza il centro di controllo che avrebbe seguito le operazioni su Marte.

[2] International Traffic in Arms Regulations (ITAR): norme che controllano l’esportazione di articoli relativi alla difesa dagli Stati Uniti e secondo le quali nessuna persona non statunitense può disporre di accesso fisico o logico agli articoli archiviati nell’ambiente ITAR.

[3] L’ESA aveva inizialmente pianificato di collaborare con la NASA al programma ExoMars, ma si è rivolta alla Russia dieci anni fa quando la NASA si è ritirata dal programma.

[4] Il gemello digitale è un modello digitale/virtuale di un oggetto del mondo reale che replica le sue prestazioni, consentendo al creatore del gemello digitale di determinare dove si trova, come funziona. I gemelli digitali consentono di capire per cosa è progettato il prodotto/processo, come costruirlo da un punto di vista della produzione iniziale e come mantenerlo durante il suo ciclo di vita. I gemelli digitali utilizzano dati in tempo reale e altre fonti per consentire l’apprendimento, il ragionamento e la calibrazione dinamica per migliorare il processo decisionale. I gemelli digitali sono modelli virtuali complessi che sono “l’esatta controparte (o gemella) di una cosa fisica.

[5] Draft, Modeling, Simulation, Information Technology & Processing – Technology Area 11, NASA Technology Roadmap, 2010/2012.

[6] Definizione del segmento upstream, secondo OECD Space Forum: ricerca, produzione spaziale e sistemi di terra (attività di ricerca fondamentale e applicata, attività di supporto scientifico e ingegneristico, fornitura di materiali e componenti, produzione di sistemi spaziali, sottosistemi e apparecchiature, telemetria, localizzazione e stazioni di comando.

[7] OECD SCIENCE, TECHNOLOGY AND INDUSTRY – POLICY PAPERS July 2021 No. 116.

[8] Joint Publication 3-14, Space Operations, 6 gennaio 2009.