international analysis and commentary

Lo stato della disunione?

2,328

Se c’è una cosa difficile da fare in America nell’ultimo decennio, è scrivere un discorso di State of the Union che rappresenti davvero l’intera nazione. Parlare di una potenza mondiale con più di 300 milioni di abitanti è difficile sempre. Ma certo è che un Paese come gli Stati Uniti, che coltiva un’immagine di sé come qualcosa di unico, unitario e speciale, in realtà è più diviso che mai, secondo fratture esarcerbate e non rimarginate dalla Grande recessione.

Dunque, le opinioni divergono anche sulla salute dell’Unione. Due esempi perfetti a inizio 2019 sono la “crisi al confine” e lo shutdown, il blocco della spesa da parte del governo federale (tema così controverso che, ad oggi, lascia indefinito perfino il luogo e le modalità del discorso del Presidente alla nazione, dopo la minaccia esplicita di Nancy Pelosi, Speaker della Camera, di non invitarlo a parlare). Su questi due temi la politica e l’opinione pubblica si oppongono a prescindere dalla realtà dei fatti. Da anni l’immigrazione dalla frontiera meridionale è in calo, da anni ad arrivare sono soprattutto persone in fuga dai piccoli Paesi centroamericani, mentre la maggior parte degli indocumentados risiede negli Stati Uniti da almeno dieci anni. Eppure il Presidente e una maggioranza dei Repubblicani ritengono che sia necessario costruire un muro per fermare l’invasione e i criminali che attraversano il confine: l’ 87% degli elettori repubblicani lo vuole, secondo un sondaggio del Washington Post, contro il 55% tra gli indipendenti e l’84% degli elettori democratici che è contrario. Stesse divisioni sullo shutdown: il 53% degli americani ritiene che la crisi sia dovuta alla responsabilità del Presidente e del suo partito, mentre per il 68% dei repubblicani la colpa è tutta del Partito Democratico.

Le fratture sono ideologiche, politiche, culturali, certo, ma anche geografiche ed economiche. E un presidente che descrive lo Stato dell’Unione dovrebbe raccontarle e annunciare misure su come affrontare le cause. La crisi del 2007 le ha approfondite e rese più visibili. E sono proprio queste divisioni che hanno contribuito alla vittoria di Donald Trump, come in alcuni Stati della Rust Belt.

Per descriverle servono molti dati che indicano come ci siano due grandi malati nella società americana. Da un lato le minoranze, che erano già molto indietro nella scala economica e sociale e che dieci anni dopo la crisi stanno leggermente meglio in proporzione, ma rimangono marginali. Dall’altro la parte mediana della middle class bianca, che ha invece perso molto terreno. Questa perdita di terreno relativa spiega molte cose e dovrebbe essere la grande preoccupazione di un Presidente che vi ha costruito sopra il proprio messaggio e il proprio appeal.

Che politica commerciale e che passi per arrivare a un accordo concordato con la Cina (a cui si imputa proprio la perdita dei posti di lavoro che ha colpito la middle class bianca)? Come raggiungere un accordo con i Democratici su un tema a loro caro come le infrastrutture? E che politiche migratorie per un Paese che fa della sua capacità di accogliere manodopera qualificata – ma anche braccianti stagionali – un fattore determinante della sua dinamicità? E che risposte a quelle aree marginali e rurali che hanno sentito di più l’onda lunga della crisi e la parallela ridefinizione territoriale dell’economia americana? Che queste siano i temi di cui si dovrebbe parlare nello State of the Union lo dicono appunto i numeri e non solo l’attualità.

“Negli ultimi trent’anni la crescita dei redditi e dei salari è andata in gran parte ai più ricchi, mentre le retribuzioni e gli stipendi degli operai e dei lavoratori della classe media sono diminuiti o rimasti fermi. A livello nazionale, dal 1979, i redditi del 20% più povero, tra i lavoratori, sono diminuiti dell’11,4%. Dall’altra parte della piramide, i redditi dei più ricchi sono aumentati del 14,8%”. Così leggiamo sul National Equity Atlas. E ancora: se nel 1980 il 78% dei lavoratori bianchi e il 64% di quelli neri guadagnava almeno 15 dollari l’ora, nel 2015 queste percentuali erano scese rispettivamente al 75% e al 59%. Nello stesso periodo il lavoro creato è stato soprattutto in occupazioni di alto e basso profilo e competenze, mentre è andata male al lavoro mediamente qualificato e mediamente pagato. Che era quello che occupava la quota principale della middle class. La carriera militare, che era il rifugio dei meno abbienti, ora lo anche per molti altri, ed è uno dei pochi settori dove i salari sono cresciuti più della media: nel 2000 il salario minimo di un militare ti collocava nella fascia di reddito che aveva diritto ai programmi di assistenza pubblica, mentre oggi lo stesso salario è del 10% superiore a quello mediano.

Da qualsiasi punto di vista la si guardi – del reddito, generazionale, geografico – quanto sta succedendo nella società americana è una trasformazione imponente e riguarda più le aree marginali che non le città e le coste, più i bianchi che non le minoranze. O meglio: le minoranze già venivano da una condizione di grande svantaggio, di redditi più bassi, di precarietà maggiore e, dunque, erano meglio attrezzate (anche psicologicamente) a subire la crisi.

Tra 2000 e 2016 la parte più povera della middle class è aumentata del 4% fino a rappresentare il 29% del totale, la upper middle class è aumentata del 5% e la parte mediana è diminuita del 9%. Anche all’interno del luogo cruciale della società, della politica e della auto-narrazione USA, insomma, sono aumentate le diseguaglianze.. La distanza tra un reddito basso e uno alto era nel 2016 di 160mila dollari: i primi erano poveri, i secondi benestanti.

La crisi ha anche avuto un pesante impatto generazionale le famiglie i cui redditi provengono da persone nate negli anni ’60, ’70 e ’80 hanno tutte un reddito più basso di quanto sarebbe stato prevedibile guardando al percorso di vita delle generazioni precedenti. Gli anziani, invece, sono più ricchi del previsto.

Nel decennio 2007-2016 è anche successo che la working class bianca ha perso in percentuale molto più reddito di quella nera o ispanica. I lavoratori bianchi senza un diploma di college sono l’unico gruppo bianco ad aver visto diminuire il proprio vantaggio rispetto a ispanici e afroamericani.

Anche così si spiega il risentimento dell’America della Rust Belt (la cintura della ruggine che parte dall’Indiana per toccare parti dello Stato di New York e della Pennsylvania comprendendo Ohio, Wisconsin, parte dell’Illinois e Michigan) nei confronti dei giovani laureati bianchi e liberal delle coste e delle città. Non doveva giungere come una sorpresa che alcune contee ex-industriali, popolate da lavoratori che avevano accumulato una certa ricchezza, aspettative di pensione e valore immobiliare, abbiano votato per Donald Trump nel 2016. Certo, non c’è solo economia in questo consenso operaio a Trump: conta moltissimo una lettura delle proprie sfortune collegata alla presenza alla Casa Bianca di un inquilino nero e la progressiva perdita di centralità nel discorso politico democratico di quello che era ed è il mondo dell’America industriale delle auto e dell’acciaio. Una società invecchiata e spaventata dalle novità ha visto in Barack Obama e nella sua passione per la tecnologia della Silicon Valley qualcosa di terribilmente distante dalla propria realtà; e l’incarnazione della perdita del peso relativo del proprio lavoro e ruolo nella società americana, associate alla perdita di ricchezza.

Percentuale della popolazione, per ogni Stato, che vive in aree svantaggiate

 

A guardarle dal punto di vista della geografia, le cose non cambiano. Il passaggio dall’economia industriale a quello della finanza e del settore high tech ha avuto effetti misurabili: molto positivi e molto negativi, a seconda dal luogo dal quale la si guarda. Ad esempio il codice di avviamento postale (ZIP code negli Usa): “Ciò che abbiamo trovato equivale a un “Grande rimescolamento”: una redistribuzione spaziale del capitale umano, della creazione di posti di lavoro e della creazione di impresa che ha avuto enormi implicazioni per gli americani e le loro comunità. Negli anni successivi alla recessione (…) il divario tra le aree che prosperano e il resto del Paese si è ampliato e i tassi di crescita nazionali coincidono sempre meno con l’esperienza concreta della comunità mediana. Quello che una volta era un Paese di luoghi disparati che convergevano verso la prosperità è diventato un Paese di luoghi che si allontanano sempre più tra loro”.[1] Le città “tecnologiche” come San Francisco, Boston e New York, con una popolazione superiore al milione, hanno generato il 72% della crescita occupazionale dopo la crisi finanziaria. Al contrario, molte delle città più piccole e le aree rurali sono rimaste indietro: l’occupazione rimane al di sotto ai livelli pre-recessione in molte “micro” città e comunità rurali con meno di 50.000 abitanti.

Le città con la più grande concentrazione di residenti in zone svantaggiate

 

Il fatto che Amazon, dopo aver lanciato una gara tra città per decidere dove mettere il suo secondo quartier generale, abbia scelto New York dice tutto sulla capacità delle città ben attrezzate (e con risorse da mettere sul piatto) di essere calamite per gli investimenti.

Come curare queste vecchie e nuove fratture dovrebbe essere la preoccupazione del Presidente. Il fatto che i Democratici abbiano guadagnato la maggioranza alla Camera e che al centro del dibattito politico ci siano nuove rivelazioni quotidiane sulle connessioni tra la campagna Trump e Mosca non aiuterà un presidente umorale a sviluppare una statura presidenziale. Ma lo “stato dell’America”, anche dopo anni di crescita e tassi di disoccupazione ridotti al minimo fisiologico, resta quello di un Paese con delle grandi vulnerabilità sociali e un gran bisogno di ripensarsi.

 

[1] Economic Innovation Group, “From Great Recession To Great Reshuffle, Charting a decade of change in American communities”, Ottobre 2018. https://eig.org/wp-content/uploads/2018/10/2018-DCI.pdf