L’eterno ritorno dei peronisti a Buenos Aires
Sono passati appena nove anni dalla morte di Néstor Kirchner, presidente dell’Argentina dal 2003 al 2007, ma politicamente sono passate diverse ere geologiche. Oggi, la vedova Cristina Kirchner Fernández è tornata alla Casa Rosada (dopo esservi stata da Presidente fino al 2015), seppure da vicepresidente del candidato Alberto Fernández, omonimo ma non imparentato, erede della tradizione politica peronista (un socialismo dalle tinte nazionaliste e populiste, creato nel decennio in cui Juan Domingo Perón fu al potere) sempre viva nel Paese.
Cercare di raccontare l’Argentina secondo canoni politici tradizionali è praticamente impossibile. Quello che possiamo fare è provare a narrare la discesa agli inferi dell’ormai ex Presidente, ora leader dell’opposizione, Mauricio Macri. Lo scorso 27 ottobre la coalizione di sinistra “Frente de todos” ha, per usare un termine molto in voga, asfaltato “Juntos por el cambio”, il cartello di Macri, con oltre otto punti percentuali di distacco. E sarebbe persino potuta andare peggio. Durante le Paso, sorta di elezioni primarie che si erano tenute in agosto, la differenza fra i due candidati era stata addirittura di circa 15 punti percentuali a favore del kirchnerismo. Le Paso sono solo una delle follie della politica argentina, a cominciare dal significato dell’acronimo: “primarie, aperte, simultanee e obbligatorie”. Il peso argentino era crollato lunedì 12 agosto 2019 proprio a seguito di questi risultati. I mercati infatti, temono moltissimo il ritorno del neo-peronismo della Kirchner. Ma andiamo per ordine.
È il 12 agosto 2017 quando il partito di Macri vince le elezioni di medio termine. Nessuno, allora, pensa che l’ex presidente del Boca Juniors non verrà rieletto alla Presidenza nel 2019. Anzi. Molti credono che il suo progetto politico si protrarrà per diverse generazioni. È stato già scelto un delfino, è Horacio Rodríguez Larreta, all’epoca sindaco di Buenos Aires. È si parla addirittura di una post delfina, María Eugenia Vidal, governatrice della provincia della capitale. Una che, per intenderci, vive in una caserma. È l’unico modo per garantirle la protezione necessaria, visto che le sue lotte contro i potenti cartelli del narcotraffico le hanno attirato minacce di ogni tipo. Ma il crollo dell’economia nei mesi successivi cambierà il corso della storia.
Come è riuscita una candidata come Cristina Kirchner, con ben 13 processi per corruzione a carico, a tornare al potere? Grazie alla promessa mancata di Macri, quella di rilanciare l’economia. Appena eletto nel 2015 infatti, Macri riceve in eredità da 12 anni di kirchnerismo (Nestor fu presidente dal 2003 al 2007, sua moglie fino al 2015) una situazione disastrosa: alta inflazione, un indebitamento crescente derivante da un gettito enormemente inferiore al dovuto, e un tasso di cambio controllato con la valuta di riferimento, il dollaro, che aveva dell’assurdo e aveva generato storture e un florido mercato nero. Tutto questo assieme a un deficit del 7% che di fatto impediva al governo di intervenire con aggiustamenti sostanziali senza provocare sollevamenti di popolo. Macri era arrivato al potere con un progetto che scoprì essere insufficiente alle necessità del paese.
Così come il tossico che si rende conto che il metadone non è in grado di aiutarlo, anche l’Argentina si rese conto che l’unica maniera per “smaltire la scimmia” e tornare ad avere una parvenza di normalità era quella di rivolgersi all’FMI, il Fondo Monetario Internazionale. E l’Argentina lo fece arrivando a chiedere uno dei maggiori prestiti di sempre: oltre 57 miliardi di dollari. D’altronde, era la quinta volta nella sua storia che Buenos Aires si rivolgeva al Fondo, dopo quelle del 1958, 1976, 1989 e 2001. In cambio di cosa? Ridurre gli investimenti statali nella costruzione di opere pubbliche di almeno il 15%, ridurre il trasferimento di risorse pubbliche alle province a un massimo di 1,2% del PIL, eliminare i sussidi a gas, elettricità e trasporti, una delle eredità più pesanti del kirchnerismo. La “bomba” però fu soprattutto quella di bloccare gli aumenti salariali dei lavoratori del settore pubblico, fra i meglio organizzati soprattutto a livello sindacale. Questo in un paese dove i sindacati sono un vero contropotere e decidono il risultato le elezioni.
Macri avrebbe anche dovuto prendere lezione da alcuni leader se non sovranisti quantomeno protezionisti come Donald Trump. Una delle sue promesse era stata quella di “volver al mundo”, di riportare il paese sulla scena commerciale mondiale. Macri aveva abolito il cambio controllato e cercato di pagare i debiti con i fondi d’investimento internazionali. Le tensioni con questi attori economici avevano in passato creato gravi conflitti con gli esecutivi Kirchner e provocato restrizioni all’accesso argentino ai mercati. Nessuno si fidava di ballare con il paese del tango. Perché Buenos Aires non pagava i suoi debiti. Tutto questo sulla carta aveva un senso, ma le scelte di Macri arrivarono in un momento storico sbagliato. Non si poteva continuare a vivere a credito, ma aprire al mercato in questo modo un’economia che aveva vissuto di protezionismo peronista per generazioni non poteva funzionare.
L’ottima propaganda kirchnerista ha bollato la politica macrista di neoliberismo, anche se in effetti Macri non ha mai messo in discussione la rete di protezione sociale su cui ha costruito il proprio successo elettorale il clan Kirchner. Macri ha ad esempio cercato di diversificare l’economia. Quella argentina è stata per generazioni esportatrice, ma l’automazione rischiava di provocare una crisi occupazionale, dato che molti comparti dell’economia nazionale usano troppo personale. Il progetto di Macri si chiamava Argentina 2030, anche questo un orizzonte probabilmente troppo lontano in un paese dove sempre più persone vivono sotto la soglia di povertà. Siamo ormai a una percentuale superiore al 30%. Senza dimenticare che il costo del lavoro in Argentina è fra i più alti al mondo, il lavoro “nero” è tanto, le infrastrutture come la rete ferroviaria versano in pessimo stato e la giustizia è considerata fra le più corrotte della regione.
È stato dunque soprattutto Macri a perdere le elezioni più che la Kirchner a vincerle.
Cristina Kirchner si è poi dimostrata una grande stratega realizzando il “delitto perfetto” perché ha scelto di non presentarsi come candidata principale, ma come vice di un politico molto capace come Alberto Fernández. Un uomo che era stato capo di gabinetto di Nestor Kirchner nel 2003, che aveva lavorato con Cristina otto mesi nel 2008, ma che aveva anche consigliato alla stessa Kirchner una terapia di coppia arrivando ad attaccare frontalmente la potentissima politica. Oggi sembra tutto alle spalle e in campagna elettorale Fernández ha ripetuto che i processi per corruzione in cui la sua vicepresidente è implicata sono processi politici.
Il nuovo Presidente sta attraversando il lungo periodo di transizione del poteri nel migliore dei modi: scaricando ogni responsabilità sull’esecutivo precedente. Macri aveva assicurato che non ci sarebbero stati aumenti di tariffe durante il periodo elettorale, ma gli aumenti sono diventati effettivi dalla mezzanotte del 1° novembre. Uno di questi è un aumento il 25% del prezzo dell’elettricità. Il passaggio di poteri termina il 10 dicembre. Ecco perché Fernández accusa Macri di ogni male. Il presidente eletto però, non ha ancora davvero comunicato il suo piano economico. Ha vinto le elezioni promettendo un cambiamento, ma chi ha terremotato l’economia argentina siede oggi alla sua destra.
Il sospetto è che il mite professore di diritto diventato presidente possa essere un “títere”, una marionetta della Kirchner. Tensioni se ne sono già avute, e il rifiuto di condannare il regime di Nicolás Maduro in Venezuela ad esempio, viene letta come una pesante concessione alle frange più estremiste della coalizione che lo ha eletto. Il mite Fernández ha già promesso una tournée mondiale per cercare di riportare investitori in Argentina. Resta da vedere se glielo lasceranno fare, visto che sembra che i nemici li abbia soprattutto in casa.