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Un riassetto politico che attraversa l’America Latina

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Torna ad alzare la testa la sinistra latinoamericana, anche nelle sue componenti più legate al “Socialismo del XXIesimo secolo”, quello lanciato dal Comandante Hugo Chávez ormai due decenni fa. E paradossalmente questo accade proprio nel momento in cui il modello venezuelano mostra tutte le sue pecche in modo drammatico: 5 milioni di persone sono fuggite dal Paese, sparse oramai per tutto il continente, e l’economia è allo stremo, con stipendi medi di 7 euro al mese, i più bassi del mondo.

Il pendolo latinoamericano

In Bolivia, lo scorso 20 ottobre Evo Morales ha vinto per la quarta volta di fila le presidenziali seppur tra denunce di frodi e un black-out nella trasmissione dei dati che ha allertato gli osservatori dell’Organizzazione degli Stati Americani (OEA), l’ONU e l’Unione Europea che hanno chiesto un auditing dei risultati. In Argentina il 27 ottobre ha vinto, anzi stravinto il kirchnerismo e se dal 10 dicembre il prossimo presidente sarà l’avvocato 60enne Alberto Fernández, il vero deus ex machina che l’ha scelto è però la sua vice, Cristina Fernández de Kirchner la quale, dopo avere schivato grazie all’immunità da senatrice ben 6 richieste di carcerazione in 12 processi che la vedono imputata tra l’altro per corruzione, associazione a delinquere e favoreggiamento al terrorismo (caso AMIA), adesso torna al potere (è stata Presidenta dal 2007 al 2015), seppur come numero due.

In Uruguay le presidenziali del 27 ottobre hanno sancito un ballottaggio (24 novembre) tra il candidato del Frente Amplio (sinistra) Daniel Martínez e Luis Lacalle Pou, del Partido Nacional (destra). Difficile prevedere chi avrà la meglio perché, anche se il primo ha ottenuto il 39,17% dei voti contro il 28,59% del secondo, tutto dipenderà dalle alleanze che riusciranno a tessere nelle prossime settimane i due schieramenti.

Il 27 ottobre è stato giorno di elezioni (amministrative) anche in Colombia, dove per la prima volta una donna è stata eletta sindaco della capitale Bogotà. Claudia López dell’Alleanza Verde, è  sostenitrice dichiarata del processo di pace con le FARC e ha vinto battendo il liberale Carlos Fernando Galán – il cui padre fu ucciso dai killer di Pablo Escobar: ora occuperà il secondo posto in termini di rilevanza politica nel paese, dopo il presidente Ivan Duque. Proprio i grandi schieramenti hanno subito un ridimensionamento: tanto il Centro Democratico di Duque e di Álvaro Uribe, come il Movimento Progressista/Colombia Umana di Gustavo Petro. Anche a Medellin e Cali, le altre due più grandi città della Colombia, i rappresentanti della sinistra antagonista contro l’“uribismo” hanno vinto. Da segnalare infine il trionfo di Guillermo Enrique Torres Cuete, eletto sindaco di Turbaco, città di circa 70.000 abitanti e capitale del dipartimento di Bolivar: è lui il primo ex guerrigliero delle forze armate rivoluzionarie della Colombia (FARC) ad assumere la guida di un comune nel paese. Conosciuto al tempo della guerriglia come ‘Julián Conrado’, o il ‘Cantante de las FARC‘, Torres ha ottenuto 21.466 voti, pari al 50,07% del totale. La sua campagna elettorale ha puntato sul recupero dell’ambiente e sul miglioramento della fornitura di acqua potabile a Turbaco. Torres non si è però candidato nelle fila del partito delle FARC ma ha scelto di fare un’alleanza di partiti di sinistra formata dal movimento Colombia Umana del senatore Gustavo Petro e dall’Unione patriottica (UP).

Il ritorno di Cristina 

Il più significativo dei suffragi della seconda metà di ottobre resta però senza dubbio quello argentino, anche se l’esito del voto a Buenos Aires era scontato dopo le speciali “primarie”, in realtà una specie di primo turno elettorale, dello scorso 11 di agosto che avevano dato 4 milioni di voti di vantaggio alla coppia Fernández (non sono parenti pur avendo lo stesso cognome) presentatisi con un’agenda “peronista” fortemente declinata a sinistra sull’uscente Mauricio Macri. L’ex Presidente, almeno sino alla fine del 2017, era riuscito a migliorare la situazione economica ma, da allora, ha commesso una serie di errori macroscopici, infrangendo quasi tutte le promesse fatte quando, nel dicembre 2015, si era insediato alla Casa Rosada.

Dopo 12 anni di Kirchner al potere – Néstor dal 2003 al 2007 e poi sua moglie – gli obiettivi di Macri erano infatti chiari: fare scendere l’inflazione che all’epoca era del 30%, portare fuori dalla povertà 12 milioni di persone, fare ripartire la produzione, aumentare l’occupazione e rimpinguare le riserve della Banca centrale ridotte al lumicino. Risultato disastroso se solo si guardano gli indicatori socio-economici dell’Argentina di oggi: inflazione raddoppiata (60%), 15 milioni di poveri, PIL in calo del 5,8% nel primo trimestre 2019 con un crollo degli investimenti (-24,6%), delle importazioni (-31%) e del consumo privato (-10,5%) oltre ad un aumento della disoccupazione, la più alta mai registrata negli ultimi 14 anni. Non bastasse, Macri è riuscito anche nell’impresa di indebitare per 57 miliardi di dollari l’Argentina con il Fondo Monetario Internazionale, quello stesso FMI considerato da molti suoi connazionali tra i massimi responsabili del default del 2001.

Normale dunque che i Fernández abbiano stravinto al primo turno e, se resta da vedere come il nuovo governo riuscirà ad evitare un nuovo default dell’economia – dovranno rinegoziare il debito con il FMI e contemporaneamente evitare la fuga di dollari e scongiurare lo spettro dell’iperinflazione che per molti economisti è alle porte – di certo cambierà radicalmente la politica estera argentina, a cominciare dalla posizione nei confronti del Venezuela.

Il riposizionamento argentino

Con Macri, infatti, Buenos Aires era stata tra i principali supporter del cosiddetto Gruppo di Lima, associazione di 12 Paesi sorta nel 2017 per fare pressioni sul regime di Caracas affinché si democratizzasse, riconoscendo il presidente ad interim Juan Guaido ed entrando in aspra polemica con il presidente di fatto, Nicolás Maduro. Con i Fernández al potere i rapporti con il regime venezuelano miglioreranno e la posizione di Buenos Aires sarà più in linea con quelle del Messico di AMLO e dell’Uruguay di Tabaré Vazquez, più benevole con Maduro. Difficile che tornino però ai livelli di sostegno offerto dal kirchnerismo di Cristina, quando l’Argentina si era appiattita su posizioni castrochaviste stringendo l’occhiolino all’Iran sul caso AMIA. Pressoché certa l’uscita dell’Argentina dal Gruppo di Lima dunque, con i Fernández alla Casa Rosada cambierà di certo anche la politica bilaterale Argentina-Brasile, con il presidente verde-oro Jair Bolsonaro in aperto contrasto con la nuova dirigenza politica che da dicembre governerà l’Argentina.

Casus belli principale tra il peronismo kirchnerista e il leader brasiliano la scarcerazione dell’ex presidente Lula, per la quale premono i Fernández, e che Bolsonaro vede come il fumo negli occhi ma, soprattutto, le relazioni commerciali all’interno del Mercosur (l’Argentina è il terzo più importante partner commerciale del Brasile).

Un’incognita, poi, le relazioni decisive tra la nuova amministrazione argentina e gli Stati Uniti di Donald Trump, visto che già nei prossimi giorni dovrà essere discusso il tema centrale della rinegoziazione delle scadenze del debito FMI – su cui Washington sicuramente avrà una voce importante in capitolo.

Il fattore cileno

Nel quadro regionale, è da segnalare infine l’influenza sul voto di fine ottobre in Bolivia, Argentina, Colombia e Uruguay di quanto sta accadendo in Cile con le massicce proteste in corso. A Santiago il presidente Sebastián Piñera, eletto appena 18 mesi fa con un’ampia maggioranza, deve fronteggiare la maggiore crisi del paese andino da quando, nel 1990, è tornato alla democrazia. E’ un memento per tutti gli altri paesi della regione latinoamericana.

Il cosiddetto “modello cileno” infatti sembrava essere il migliore della regione, essendo l’economia la settima “più libera” del mondo (secondo l’indice di Heritage Foundation e Wall Street Journal) e, proprio grazie all’apertura dei suoi mercati, una parte molto importante della popolazione è uscita dalla condizione di povertà. Inoltre sino alle recenti proteste il Cile era di gran lunga il paese con la migliore qualità della vita della regione, con uno stipendio medio di oltre 500 dollari al mese, diseguaglianza sociali molto più basse di Messico, Colombia e Brasile ed un sistema di trasporti impeccabile.

Quel Cile ha cessato di esistere nel mese di ottobre, non fosse altro che 78 delle 139 stazioni della efficientissima metro di Santiago sono andate distrutte – l’ultima quella di Baquedano, lunedì notte – mentre vandali notturni continuano ad attaccare, saccheggiare ed incendiare anche supermercati, farmacie e negozi. Sinora i danni stimati dalla Camera di Commercio cilena superano 1,4 miliardi di dollari solo a Santiago, nonostante le concessioni di Piñera che ha tolto coprifuoco e stato d’emergenza, deciso l’aumento del 20% delle pensioni minime ed annullato l’aumento del 3,6% del biglietto della metro – provvedimento che aveva scatenato l’inizio delle proteste popolari.

I governanti della regione non devono mai dimenticare che in America Latina, molto sovente, presidenti e governi sono stati rovesciati per la pressione popolare, a volte anche violenta, a prescindere sia dalle condizioni economiche reali o relative, sia dagli esiti del voto più o meno democratico.