L’esame di Biden attorno ai confini della Russia
L’amministrazione di Joe Biden dovrà fronteggiare una serie di delicate sfide geopolitiche sul “fronte orientale”. L’obiettivo, ambizioso, è quello di rinsaldare il ruolo degli Stati Uniti come riferimento per le democrazie post-Urss, ma dovrà confrontarsi con il ridimensionamento che Washington ha registrato sullo scenario diplomatico globale durante la presidenza Trump e con la concomitante condotta “aggressiva ed erratica” della Russia – come è stata definita dal neo-Segretario di Stato, Antony Blinken.
L’area, sia in riferimento ad Ucraina e Bielorussia che spostando il focus su Caucaso e Asia Centrale, costituirà un banco di prova importante per le aspirazioni geopolitiche americane. La presenza di Mosca in questi quadranti è infatti molto cresciuta nell’ultimo quadriennio, sul lato politico e su quello militare, e il tradizionale spazio dedicato dalle amministrazioni USA a internazionalismo e sostegno al liberalismo si è, dall’altra parte, molto ridotto: è a partire da questi elementi che Biden dovrà ricostruire l’approccio di Washington nell’area.
L’Ucraina è uno dei paesi per i quali ci si aspetta uno dei cambi di rotta più decisi. Durante la presidenza di Barack Obama era stato proprio Joe Biden, infatti, a lavorare in linea diretta con Kiev per lo sviluppo di un’agenda che mettesse in primo piano la lotta alla corruzione e, dal 2014 in avanti, la ricerca di una via d’uscita alla guerra nel Donbass. Donald Trump ha scardinato una traiettoria diplomatica praticamente ininterrotta dal 1991 in avanti fra Kiev e Washington, provando a utilizzare l’Ucraina come pedina per screditare Biden, tramite accuse di ingerenze, mai provate, che coinvolgevano le attività economiche nel paese del figlio Hunter. Le conseguenze, ben note, hanno portato al tentativo, fallito, di impeachment dell’ormai ex presidente e a una politicizzazione estrema dei rapporti con Kiev, oltre che a un’interruzione quasi totale dell’attività diplomatica americana nell’area, legata alla rimozione da parte di Trump di alcuni dei diplomatici più esperti di stanza a Kiev, sostituiti da nomine di natura politica.
Joe Biden si è invece circondato di collaboratori molto esperti e non ci sono dubbi sulle intenzioni americane di riportare l’Ucraina al centro dell’attenzione, possibilmente riconquistando il supporto bipartisan già ampiamente registrato, sul fronte legislativo, durante le amministrazioni Clinton, W. Bush e Obama per le iniziative nell’area. La manovra statunitense ripartirà dal lavoro per le riforme e per l’istituzionalizzazione definitiva del sistema democratico e indipendente da Russia nel paese, riaprendo il tavolo rispetto all’avvicinamento di Kiev alle strutture politiche e militari euro-atlantiche.
L’approccio sarà proattivo anche per assicurare l’integrità territoriale ucraina, minata da annessione russa della Crimea e guerra del Donbass. Non è da escludere, in questo senso, la nomina di un inviato speciale della Casa Bianca che curi esclusivamente i rapporti con l’Ucraina, non tanto nella prospettiva di giungere a un accordo con Mosca, che appare al momento un’eventualità remota, ma principalmente per coordinare in modo efficace la risposta economica e umanitaria alla crisi. Operazione che sarà perseguita probabilmente di concerto con gli alleati europei, un tassello quest’ultimo che si inscriverà nel tentativo di ricostruire la fiducia internazionale nella diplomazia americana, dopo l’incostanza della presidenza Trump.
Più difficile che si muova qualcosa sul fronte dell’ingresso ucraino nella Nato. In questo senso, è probabile la questione venga lasciata sullo sfondo, vista la difficoltà di concretizzare una proposta ancora molto divisiva e che avrebbe bisogno di un’attenzione che, in termini di capitale politico, Washington non potrà permettersi di dedicare.
Se è vero che l’Ucraina tornerà a essere centrale nell’agenda diplomatica americana e che rivestirà la priorità sullo scenario geopolitico post-Urss, bisogna però chiarire che difficilmente la Casa Bianca vi destinerà un ruolo di primissimo piano. Le urgenze, infatti, sono al momento altre (relazioni con la Cina, riapertura del tavolo sul nucleare con l’Iran, presenza militare in Afghanistan e Siria, rapporti con la Turchia) ed è quindi credibile immaginare che Biden dedicherà a Kiev soltanto l’energia necessaria a riequilibrare i rapporti diplomatici “naturali” nel paese, soprattutto in funzione anti-russa. E’ lungo questa traccia che si svilupperà la nuova relazione fra Ucraina e Stati Uniti, con una carta a sorpresa ancora da studiare: quella legata alla battaglia americana contro il gasdotto Nord Stream 2 – con il ruolo centrale che vi svolge la Germania. Biden, infatti, intende in questo senso inasprire l’opposizione al progetto, operando con l’idea di implementare un mercato energetico comunitario che includa Unione Europea e paesi non UE dell’area, per isolare la russa Gazprom.
In questo quadro, la sponda ucraina potrebbe risultare estremamente utile ed è anche su questo che conta il presidente Volodymyr Zelensky, entusiasta per la vittoria di Joe Biden, da lui definito come “un uomo che capisce la differenza fra Russia e Ucraina, che comprende la mentalità degli ucraini”. Non tutti a Kiev sono però convinti del cambio di approccio promesso dalla nuova presidenza democratica. Gli scettici fanno notare come l’amministrazione Obama-Biden non riuscì a contenere l’invasione russa della Crimea, rifiutando poi di inviare qualsiasi aiuto militare diretto, al contrario di Trump, che ha invece riempito Kiev di missili difensivi Javelin.
Tutto da verificare l’impatto concreto che l’amministrazione Biden avrà sul fronte della Bielorussia. Donald Trump ha mantenuto un atteggiamento estremamente distaccato nei confronti delle proteste di piazza, giudicato da diversi analisti come l’unico davvero possibile. La base di lavoro per analizzare la rivolta esplosa a Minsk lo scorso agosto contro Aljaksandr Lukašėnka non può infatti prescindere da un punto molto chiaro: l’unica via d’uscita credibile per una soluzione pacifica della contesa passa inevitabilmente attraverso la mediazione di Mosca.
Nonostante il silenzio pubblico di Trump sulle proteste, l’amministrazione repubblicana ha lavorato congiuntamente con l’Unione Europea, comminando sanzioni al Comitato elettorale di Minsk e il congelamento dei beni per 39 cittadini bielorussi accusati di aver compromesso il processo democratico durante la consultazione dello scorso agosto.
Le speranze del popolo bielorusso verso una possibile inversione di tendenza legata all’arrivo alla Casa Bianca di Joe Biden sono enormi, ma la sensazione è che difficilmente, nel concreto, si andrà oltre un inasprimento delle sanzioni. E’ vero che Biden, a differenza del suo predecessore, si è schierato in maniera netta con il movimento popolare, ma è improbabile che si possa andare molto oltre le dichiarazioni retoriche. La Bielorussia dipende direttamente da Mosca sul fronte energetico, finanziario e militare ed è firmataria di una serie di patti bilaterali con il Cremlino (fra i quali il cosiddetto Union State, una sorta di Commonwealth fra i due paesi) molto impegnativi. Inoltre, se da un lato non è possibile considerare la Bielorussia alla stregua dell’Ucraina sul fronte strategico, Minsk riveste comunque un ruolo geopoliticamente cruciale, in quanto stato cuscinetto fra Russia e paesi Nato come Polonia, Lettonia e Lituania.
Per tutti questi motivi, appare improbabile un coinvolgimento statunitense che vada più in là della condanna morale ed economica nei confronti del leader Lukašėnka, anche qualora la protesta dovesse evolversi fino a svilupparsi in una vera e propria rivoluzione sullo stile ucraino di Euromaidan. Cosa c’è quindi, concretamente, da aspettarsi? Di certo una cooperazione più diretta con l’Unione Europea e un’escalation sul fronte dei documenti ufficiali di condanna dell’operato di Lukašėnka. Nuove sanzioni potrebbero includere un blocco internazionale dell’accesso bielorusso ai mercati finanziari, sui quali appena lo scorso agosto Minsk ha raccolto circa 1 miliardo di euro attraverso “eurobond”, e, eventualmente, un pacchetto di misure punitive contro la Russia per il supporto al regime bielorusso – senza dimenticare tuttavia come le sanzioni potrebbero avere l’effetto di spingere definitivamente gli autocrati di Bielorussia tra le braccia di quelli di Mosca, dai quali invece conservano al momento una grande divergenza strategica.
Biden dovrà anche fare attenzione a non diventare uno strumento di propaganda nelle mani di Lukašėnka, che, in caso di rottura totale dei rapporti diplomatici (peraltro riaperti solo a inizio 2020 con la nomina dell’ambasciatrice Julie Fisher a Minsk, un ruolo che era vacante dal 2008) potrebbe addebitare lo sviluppo delle proteste alle ingerenze di Washington.
Sembra destinato allo stesso andamento l’impegno americano nell’area sud-caucasica e centro-asiatica, con qualche incognita legata al conflitto armato scoppiato nella regione del Nagorno-Karabakh fra Armenia e Azerbaijan, che potrebbe essere utilizzato da Biden per aprire un confronto con la Turchia e inaugurare una nuova stagione di impegno internazionale per la pace della diplomazia statunitense. Per il resto, verrà ribadita la preferenza americana nell’area per la Georgia e verificati eventuali spazi di ulteriore collaborazione con l’Uzbekistan di Shavkat Mirziyoyev, apparentemente deciso a riformare il paese seguendo una linea di progressiva “apertura”.
La base di lavoro dovrebbe quindi seguire una linea di continuità ormai collaudata sin dagli anni ’90 e resa ancora più netta con l’insediamento alla Casa Bianca della prima amministrazione Obama: l’Asia Centrale è considerata un’area di interesse di secondo livello, strategicamente non decisiva e poco appetibile in termini di investimenti economici. Basta pensare che i rapporti commerciali fra Stati Uniti e Kazakhistan, l’economia di riferimento della regione centro-asiatica, raggiungono un fatturato di appena 2 miliardi di dollari e che persino con la Georgia, partner di riferimento per Washington nell’area caucasica, ci si ferma a 500 milioni.
Biden insisterà sul progetto del C5+1, la piattaforma lanciata nel 2015 dal dipartimento di Stato della seconda amministrazione Obama e che include Kazakhstan, Kyrgyzstan, Tajikistan, Turkmenistan e Uzbekistan, oltre agli Stati Uniti, in un tavolo di discussione regionale. Una piattaforma che non ha in verità prodotto risultati particolarmente esaltanti sotto alcun punto di vista, ma che rimane un’opportunità potenziale per la stabilizzazione della presenza americana nell’area.
La nuova amministrazione statunitense continuerà a concentrare la propria attenzione sulla Georgia, considerata partner affidabile e, soprattutto, geopoliticamente fondamentale nel progetto di lungo periodo del corridoio Trans-Caspiano, un gasdotto che collegherebbe il Turkmenistan, attraverso Baku e Tblisi, con l’Unione Europea, circumnavigando Russia e Iran.
Come per l’Ucraina, non sono previsti sforzi diplomatici in appoggio alla richiesta georgiana di entrata nella NATO, soprattutto in un momento nel quale tutta l’attenzione va concentrata sulla salvaguardia dei conquistati equilibri democratici nel paese e sulla gestione dei rapporti fra Tblisi e Pechino: è interesse anche statunitense che la Georgia, pur mantenendo il forte legame con Europa ed America, mantenga relazioni distese con i partner cinesi.