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Nel lungo periodo saremo tutti vivi: tra teorie economiche e fondi UE

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Spesso le citazioni più abusate di un intellettuale rappresentano la banalizzazione del suo pensiero. Non nel caso di John Maynard Keynes: quel “nel lungo periodo saremo tutti morti” è, per certi versi, la chiave di lettura più corretta del suo pensiero e la si coglie al meglio se la si collega alla polemica con gli economisti neoclassici. Andando all’osso, costoro sostenevano che il mercato era in grado da solo di assorbire le crisi di produzione e consumo e che nel lungo periodo avrebbe raggiunto il suo equilibrio ottimale, senza interventi della mano pubblica e tutto si sarebbe risolto per il meglio.

Keynes nel 1915 tra Bertrand Russell e Lytton Strachey. Fonte: Wikipedia

 

Keynes non contesta l’idea in sé, ma pone il problema dei tempi, un conto è che io devo stringere la cinghia per qualche mese, tutta un’altra cosa è se devo farlo per un decennio. Perché nel lungo periodo le cose si aggiusteranno pure, ma bisogna arrivarci nel lungo periodo. Di qui la necessità che una mano visibile intervenga nel mercato per abbreviare i tempi e fare in modo che l’equilibrio ottimale sia trovato il prima possibile. Bisogna agire qui ed ora, del doman non c’è certezza.

Il paradigma che ha sostituito negli anni Ottanta il paradigma keynesiano è quello di Friedrich von Hayek che, semplifico, riprende ed estremizza la vecchia idea dei neoclassici: il mercato ce la fa da solo e qualsiasi intervento esterno crea problemi. Lasciate che ognuno persegua i propri interessi legittimi e vedrete che i vizi personali si tramuteranno in pubbliche virtù e gli interessi privati in beni pubblici. Il che significa che qualsiasi forma di intervento pubblico volta a modellare o orientare la crescita economica rappresenta un atto demiurgico che ti fa imboccare la strada che conduce alla schiavitù, la famosa Road to Serfdom (il titolo di uno dei suoi libri più famosi, del 1944): ciò può anche essere vero, ma, come spesso accade, è questione di metodo.

Il punto è che paradossalmente questi due paradigmi, per quando antitetici, hanno entrambi contribuito a una grave forma di amnesia collettiva del futuro.

Lo schiacciamento sul presente e il divieto di pronunciare la parola stessa “programmazione” hanno di fatto reso cieche le nostre società e trasformato la politica, che è scienza dei fini, vale a dire elaborazione di futuri possibili su cui chiedere il consenso degli elettori, in gestione improvvisata della quotidianità.

Nel momento però in cui salta la politica come costruzione di visioni di futuro salta qualsiasi strumento per poter decidere in maniera razionale come gestire le risorse che si hanno a disposizione, e la stessa economia, che è scienza dei mezzi, si trasforma in contabilità con il culto feticistico del pareggio di bilancio (messo in Costituzione). Per dirla con Seneca, non c’è vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare.

La smetto di filosofeggiare. La crisi di governo italiana di gennaio si è prodotta anche perché non c’è stata alcuna riflessione condivisa sul futuro da costruire, vale a dire il porto in cui arrivare. Senza questa operazione preliminare decidere come allocare i fondi del Recovery Fund (più precisamente, Next Generation EU) è decisione lasciata agli umori del momento. Sia chiaro, la cosa (come al solito) è emersa prima in Italia, ma è fenomeno globale e, il che è ancora più grave, riguarda tutta l’Europa, che ha stanziato i fondi, ma non ha elaborato una visione condivisa a livello continentale. A tutti sono state date le chiavi della macchina e ognuno va dove vuole.

Questa amnesia del futuro non è cosa di poco conto, perché le società tradizionali vivono costantemente proiettate sul passato: è la tradizione che plasma il presente. Al contrario, le nostre società moderne sono costantemente proiettate sul futuro, vivono intorno all’idea che domani sarà migliore di oggi: è la visione del futuro che plasma il presente. È la fede nel progresso il credo collettivo delle nostre società.

Dunque, invece di pensare che nel lungo periodo saremo tutti morti (il che ti fa venire anche un po’ di depressione) sarebbe più utile agire pensando che nel futuro saremo tutti vivi (che di fatto è la cosa che ci viene più naturale). Domani saremo tutti vivi, che la cosa ci riguardi direttamente o che riguardi persone care o anche idee care (la patria, la libertà, la giustizia sociale) e pertanto dovremo adoperarci per vivere in un futuro che ci piace e che abbiamo contribuito a costruire. Perché resta vera l’idea che il modo migliore per predire il futuro è crearlo.