international analysis and commentary

Le primarie che fotografano l’America 2016

1,308

Le primarie 2016 stanno restituendo voce ad alcune fasce di elettorato normalmente non cruciali per la selezione dei candidati alla presidenza americana. O meglio, alla popolazione di Stati diversi da quelli che negli ultimi decenni hanno deciso di fatto i duellanti per la Casa Bianca.  Sono primarie più lunghe di quanto ci potessimo aspettare, soprattutto nel campo democratico.

Sta emergendo così un’immagine più ampia delle idee, volontà, ansie e paure degli americani tutti, perché più Stati, con le loro differenze demografiche e geografiche, sono partecipi quest’anno di una discussione che diventa più ampia e  produce più risposte alle domande degli elettori.

Se guardiamo alla geografia del Paese, alle differenze tra Stati urbani e rurali, tra le aree metropolitane e la colossale “suburbia” americana, scopriamo che queste primarie hanno regalato alcuni risultati inaspettati.

L’ascesa di Bernie Sanders e Donald Trump ha indubbiamente scompaginato le carte delle macchine organizzative dei partiti e offerto agli elettori delle alternative estranee a quello che i cittadini Usa percepiscono come lo spettacolo deprimente offerto da Washington. Il successo di due candidati ai margini degli equilibri politici dimostra che gli elettori puntano soprattutto a far saltare lo status quo. La geografia di questa rivolta non è scontata.

Ne è un esempio plastico quello delle primarie democratiche di New York. Nello Stato dove sia Sanders che Clinton correvano a modo loro “in casa” (in quanto Stato tradizionalmente liberal, di cui Hillary è stata Senatore), l’ex Segretario di Stato ha vinto grazie al voto delle aree urbane, mentre Sanders ha ottenuto il suo 42% al nord e nei sobborghi più distanti da New York City.

Questa differenza geografica nella mappa dei consensi per Clinton e Sanders si ripete un poco ovunque: in Michigan Hillary ha vinto grazie al voto di Detroit e dintorni e in Massachusetts, in una contesa in cui si è imposta con solo lo 0,3% del totale dei consensi, grazie a quello di Boston. Le città, insomma, votano per Clinton. A prima vista questa è una contraddizione: ci si aspetterebbe che il candidato più di sinistra e con più seguito tra i giovani vincesse nelle città. Non è andata così per molte ragioni.

La prima, più scontata, è che nei centri urbani vivono ancora molto le minoranze. E queste, nonostante gli sforzi di Sanders, stanno sostenendo in maggioranza Clinton, non solo nel Sud rurale e arretrato – come ha suggerito, sbagliando, la campagna Sanders. Quanto agli studenti, se non cambiano residenza apposta per votare, possono sì andare a seguire i comizi e fare campagna a favore del senatore del Vermont, ma poi finiscono con il non votare e quindi non contribuiscono al verdetto delle urne.

Una seconda possibile interpretazione di questo fenomeno – che può riguardare in egual misura il voto a Trump – si collega al dato fattuale che abbiamo ricordato: durante queste primarie stiamo sentendo la voce di parti di elettorato che normalmente partecipano alle primarie a giochi già fatti e quindi in numeri più bassi.

Normalmente dopo Iowa, New Hampshire, South Carolina e Nevada, si ha un’idea abbastanza chiara di chi saranno i due candidati di partito a contendersi la presidenza. Si tratta, in ordine, di uno Stato agricolo, uno molto bianco, uno molto conservatore ma con elettorato afroamericano consistente, e uno con una percentuale alta di latinos e altre caratteristiche economiche piuttosto singolari. Non ne fa parte nessuna grande città, nessuna distesa infinita di sobborghi – fatta eccezione per l’area a Nord di Las Vegas – nessuna zona particolarmente dinamica o singolare della costa del Pacifico.

Il 2016, invece, è un po’ diverso e ci sta costringendo ad ascoltare l’opinione degli angoli nascosti del Paese; che si tratti di contee un po’ isolate o di “suburbia”. Una parte del successo di Sanders viene proprio da qui: c’è un elettore mediamente bianco e mediamente non giovane che si sente lontano dai processi decisionali e dalla ripresa lenta e faticosa del mercato del lavoro. Questi elettori si sentono poco toccati dal recente miglioramento dell’economia americana e, negli anni della crisi, hanno visto crollare il prezzo delle proprie case e il valore dei propri 401K, le pensioni integrative. A seconda dello Stato di residenza, della tradizione politica di appartenenza, della propria professione e orientamento ideologico, costoro hanno scelto Sanders o Trump.

La strategia di Hillary Clinton ha pagato dal punto di vista matematico, consentendole di ottenere più delegati complessivamente. Il caso del Sud è di scuola: qui Clinton ha vinto tutti gli Stati, con l’eccezione dell’effettivo pareggio in Missouri. Lo ha fatto dominando nelle città e nelle regioni a maggiore concentrazione di elettori neri ma perdendo altrove. Tra l’altro in città la macchina organizzativa di un candidato è più importante che non in territori isolati, dove è il messaggio, l’immagine che conta. In questo senso, sia Trump che Sanders hanno beneficiato di una copertura tv che li ha favoriti: quella parte bianca e non urbana – e non giovane – dei cittadini che li vota si informa più in televisione di altri gruppi demografici.

Si palesa quindi una coalizione peculiare che combina un ceto giovane, urbano e ideologizzato, che sceglie Sanders per passione politica, e un blocco stanco e deluso che vive lontano dal luogo dell’azione e non riconosce più la propria America. Sanders ne è il campione perché ha parole dure per i poteri forti ed è contemporaneamente un outsider, rappresentante di un piccolo e marginale stato rurale come il Vermont, e un politico di esperienza con radici nell’America profonda e una naturale affinità per la generazione dei baby boomer. Con Clinton stanno invece i professionisti delle grandi città, le élite intellettuali ed economiche e le minoranze in ascesa.

La posizione di Sanders sulle armi rappresenta perfettamente la frattura città/Paese: minoranze e gente di città sono contrari alle armi, le trovano estranee o nemiche (in particolare nel caso delle comunità afroamericane che ne soffrono maggiormente la violenza). Mentre in molti Stati dell’interno, il Vermont tra questi, le armi sono di casa perché si caccia, si vive isolati. Osservandola da questa angolatura la rivolta socialista di Sanders somiglia a un po’ a quella libertaria di Ron Paul nel 2012 e, a tratti, addirittura a quella del Tea Party, perlomeno nelle sue incarnazioni più sincere e meno connotate dal punto di vista dell’ideologia conservatrice.

La vicenda delle primarie repubblicane è più complicata da leggere: i candidati sono stati molti per diversi mesi e servirebbe forse uno studio minuto dei numeri di qualche Stato paradigmatico per avere delle certezze.

Per illustrare la maggior complessità della gara repubblicana facciamo solo due esempi. Tenendo a mente però innanzitutto che il successo di Trump è geograficamente sovrapponibile a quello di Sanders dal punto di vista della reazione contro Washington anche se, tra l’elettorato del miliardario newyorchese, gli immigrati e i musulmani prendono il posto dei finanzieri contro cui si accanisce Sanders. Come dire, nel primo caso sono più pericolosi “i cinesi”, nel secondo i trattati di commercio, ma il concetto è simile.

Il primo esempio è l’Iowa: qui ha vinto Cruz perché una parte consistente dell’elettorato repubblicano ha una appartenenza ideologica forte che il senatore del Texas rappresenta meglio – i temi etici sono i suoi e non di Trump. In Iowa non vale il discorso sui messaggi televisivi: le forze messe in campo dai rispettivi staff di campagna sono enormi e Cruz ha saputo mobilitare a suo favore la rete delle chiese evangeliche.

Il secondo esempio è quello del candidato che non c’è più: Chris Christie. In questo caso la geografia e la natura dei primi Stati in cui si vota è stata probabilmente penalizzante per un politico che rappresenterebbe bene un certo tipo di elettorato dei sobborghi “moderato-arrabbiato” e reaganiano ma non in senso ideologico. Bianco, schietto, appassionato, non spaventato dal farsi vedere con Obama su un palco, con un altro calendario e un’altra geografia Christie probabilmente avrebbe fatto molto meglio. Azzoppato dagli Stati rurali e del Sud ha scelto di ritirarsi in fretta. E non è un caso che il governatore del New Jersey sia stato il primo pezzo grosso del partito a sostenere Trump.

Il voto del miliardario newyorchese è quello che avrebbe potuto prendere anche lui. Il guaio, per Christie, è stato avere un concorrente che parla a quell’America scontenta e di periferia in maniera più diretta e populista e che gode peraltro di maggior fama e ricchezza.