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Le opzioni per l’Ucraina e la stabilizzazione difficile

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Per comprendere l’importanza strategica dell’Ucraina sullo scacchiere geopolitico mondiale, e le ragioni per le quali la Russia continua a influenzarne in maniera decisiva ogni prospettiva, è opportuno partire da lontano. L’Ucraina è stata, per quasi settant’anni, una pietra angolare negli equilibri di costruzione e sviluppo dell’Unione Sovietica, di cui rappresentava la seconda forza dopo la Russia per numero di abitanti e rendimento economico, e di cui era punto di riferimento per gran parte della produzione agricola e dell’industria militare. In più, l’Ucraina era sede della base della flotta sovietica del Mar Nero e custodiva numerose testate nucleari.

Eppure, dopo la dissoluzione dell’URSS, la popolazione ucraina si è scoperta filo-occidentale. In quasi trent’anni di indipendenza il paese ha ripetutamente cercato di portare avanti un progetto di avvicinamento alle istituzioni europee e alla Nato, entrambe interessate a inglobare Kiev nella propria sfera di influenza. I tentativi sono però rimasti sempre frustrati e hanno contribuito, in maniera drammatica, a un conflitto interno nel quale si sono contrapposte due idee antitetiche di Ucraina: da un lato i nazionalisti, europeisti, delle regioni ad Ovest del paese, promotori di uno stato definitivamente integrato nell’Occidente; dall’altro la comunità di lingua russa, prevalente nelle regioni orientali e in Crimea, decisa a sostenere la necessità di un legame più forte con Mosca.

E’ in questo contesto che, nel 2014, la Russia ha trovato terreno fertile per alimentare il proprio interesse nazionale, annettendo unilateralmente al territorio russo la Crimea, una regione dalla storia particolare, ceduta all’Ucraina dal Soviet Supremo dell’Unione Sovietica presieduto da Nikita Kruscev nel febbraio del 1954, e a maggioranza etnica e linguistica russa.

Da Mosca è arrivato anche continuo sostegno ai gruppi separatisti del Donbass, un appoggio che ha scatenato un conflitto armato contro l’esercito ucraino ancora irrisolto, che ha provocato, secondo i dati delle Nazioni Unite aggiornati al dicembre 2019, oltre 13.000 morti.

Dopo il quinquennio presidenziale di Petro Porošenko, il cui scontro con Vladimir Putin è stato frontale, l’Ucraina è tornata al voto nell’aprile del 2019 e ha deciso di affidarsi a Volodymir Zelensky, eletto con un plebiscitario 73% delle preferenze. Quella di Zelensky, attore quarantenne all’esordio politico, candidatosi con sei soli mesi di anticipo dal voto, è stata un’elezione che ha sorpreso la comunità internazionale, fondata su due principali promesse: la battaglia alla corruzione e la fine della guerra nel Donbass, da raggiungere per mezzo di rinnovate relazioni diplomatiche con Mosca.

Volodymir Zelensky

 

I primi mesi di presidenza Zelensky hanno mostrato l’intenzione molto netta di riportare il paese alla normalità, tenendo a distanza il modello etno-nazionalista che ha messo in ginocchio il paese dal 2014 in avanti e riportando in primo piano un’idea unitaria di Ucraina, anche grazie a una comunicazione politica più inclusiva rispetto al passato e a una composizione del governo che ha portato una ventata di nomi nuovi sulla scena. Sul fronte diplomatico si è cominciato a muovere qualcosa con il vertice di Parigi del 9 dicembre 2019, il primo di una serie di incontri cui hanno partecipato, oltre a Putin e Zelensky, anche i premier di Francia e Germania, Macron e Merkel. Dal vertice è emersa una road map al termine della quale dovrebbe prendere forma un piano di pace definitivo, oltre che la riapertura del dialogo fra Ucraina e Russia, concretizzatasi in un importante scambio di prigionieri, avvenuto la notte di Natale del 2019.

Nonostante le polemiche suscitate dal rilascio, da parte dell’Ucraina, di cinque uomini della Berkut (la polizia antisommossa che durante le proteste di Euromaidan contro il presidente filo-russo Yanukovich avrebbe ucciso, negli scontri di piazza, più di 130 persone, fra cui molti civili), il vertice fra Putin e Zelensky ha aperto un canale di comunicazione fondamentale. L’obiettivo ultimo è quello di una normalizzazione definitiva dei rapporti fra i due paesi, anche a costo, sul fronte ucraino, di mettere da parte l’orgoglio nazionale, ferito per la perdita della Crimea. E’ in quest’ottica che va letta anche la telefonata che i due presidenti hanno avuto a metà febbraio e in cui si è confermato il mutuo interesse a proseguire nell’attuazione degli accordi raggiunti a Parigi: soprattutto il cessate il fuoco, attivo dalla fine dello scorso anno (seppur al netto di numerose infrazioni testimoniate dalla missione Osce), e la graduale smobilitazione militare da alcune aree designate.

Una distensione dei rapporti fra Russia e Ucraina appare possibile, soprattutto a partire da due evidenti considerazioni. Sul fronte russo, non c’è al momento alcun interesse ad accelerare un’escalation militare. Gli sforzi di Mosca degli ultimi mesi vanno anzi in una direzione completamente opposta, quella di convincere l’Unione Europea a ripensare al pacchetto di sanzioni che dal 2014 sta creando non pochi problemi all’economia nazionale. L’Ucraina, d’altro canto, non avrebbe la forza economica e strutturale di sostenere un eventuale inasprimento del conflitto e deve fare in conti con un contesto diplomatico molto diverso da quello di sei anni fa.

Oggi sono tanti i governi europei che stanno cercando di ricucire i rapporti con Putin (la Francia di Emmanuel Macron su tutti) e l’appoggio a Kiev, in caso di un nuovo esacerbarsi del conflitto, sarebbe molto meno scontato. La Russia, peraltro, ha già raggiunto, con l’occupazione della Crimea, l’obiettivo primario del suo attacco all’Ucraina: il controllo, di fatto, del Mar Nero, che rinforza la presenza russa nel Mediterraneo e avvicina la Federazione alla Turchia, rendendo ancora più solide le relazioni militari e industriali (soprattutto nel campo dell’energia) sull’asse Mosca-Ankara.

Per tirarsi fuori da una situazione socio-economica di grande difficoltà Zelensky ha messo a punto un’agenda estremamente ambiziosa, i cui punti fondamentali sono l’annullamento della misura che dal 2001 vieta ai proprietari terrieri di vendere i propri appezzamenti e la ricerca di un nuovo accordo con il Fondo Monetario Internazionale. L’eliminazione del divieto di vendita delle terre punta a invertire un trend che ha visto sino ad oggi le aziende agricole ucraine disincentivate ad investire a lungo termine in tecnologie, oltre che a rivitalizzare un settore, quello dell’agricoltura, mantenuto a bassa competitività da prezzi di affitto delle terre molto bassi, che hanno consentito nel tempo anche ai produttori meno efficienti di rimanere in attività, a discapito delle imprese più virtuose.

Il presidente ucraino può contare su una situazione di relativa stabilità politica, dovuta al sostegno del parlamento e dell’opinione pubblica, un elemento che gli consente, almeno per ora, di lavorare con un margine di manovra molto ampio.

Le sue ambizioni di ripresa economica dovranno però fare i conti con la presenza russa nel Mar d’Azov, che ha già contribuito i maniera importante al rallentamento dell’export ucraino nel 2019, spesso bloccato dalle navi di Mosca. In più, quando il gasdotto Nord Stream 2, che trasporterà il gas dalla Russia alla Germania attraverso il Mar Baltico, sarà completato, la linea ucraina usata finora diventerà inutile e, con essa, salterà un fondamentale gettito economico. Nonostante le resistenze degli Stati Uniti, che hanno imposto sanzioni durissime a tutte le imprese coinvolte nella costruzione, Putin ha annunciato che l’opera sarà pronta entro la fine del 2020.

La prova del fuoco, per il presidente ucraino, sarà la gestione del caso Ihor Kolomoisky. L’oligarca, rientrato in Ucraina solo dopo l’elezione di Zelensky, è da molti considerato il vero architetto del successo politico dell’attore e da mesi continua a premere sul governo per rientrare in possesso di Privatbank, il più grande istituto bancario ucraino, nazionalizzato dalla presidenza Porošhenko nel 2016 dopo la quasi bancarotta che obbligò le casse statali a versare 5 miliardi di euro, per evitare il tracollo.

Il Fondo Monetario Internazionale sta valutando un pacchetto di assistenza da 5,5 miliardi di dollari per l’Ucraina, ma con la condizione che il governo adotti tutte le misure del caso per recuperare il denaro scomparso dalla banca e assicurare alla giustizia i responsabili. Kolomoisky ha sempre negato qualsiasi illecito e per questo pretende dalle istituzioni ucraine un risarcimento, o di rientrare in possesso della banca.

Zelensky, da parte sua, ha dato un segnale importante proprio in febbraio, sostituendo il suo capo di gabinetto, Andryi Bogdan, già avvocato di Kolomoisky, con Andriy Yermak – si tratta dell’advisor incontrato da Rudy Giuliani, legale del presidente statunitense Trump, nell’estate del 2019, e a cui venne trasmessa la richiesta di Washington di indagare sui legami tra il figlio del candidato democratico Joe Biden e la compagnia energetica Burisma Holdings.

Sulla capacità di Zelensky di tenere a distanza Kolomoisky e di resistere al fuoco frontale con cui l’oligarca potrebbe colpirlo, si gioca una buona fetta del futuro dell’Ucraina.