La vittoria dei popolari in Andalusia: la Spagna vira a destra?
Le elezioni regionali del 19 giugno in Andalusia hanno dato una storica maggioranza assoluta al Partido Popular (PP) che ha ottenuto 58 seggi su 109 e il 43,1% dei voti. Il candidato dei conservatori, Juan Manuel Moreno Bonilla, presidente uscente della Junta, ha raddoppiato i voti ottenuti nel 2018, ha frenato la crescita di consensi dell’estrema destra di Vox (13,4%, da 12 a 14 seggi) e ha letteralmente divorato i suoi soci di governo di Ciudadanos che rimangono fuori dal Parlamento regionale (3,3%, da 21 a 0 seggi).
Tutto questo è avvenuto per di più in una storica roccaforte del Partido Socialista Obrero Español (PSOE) che ha governato ininterrottamente per 36 anni la regione meridionale più grande e popolata d’Europa. I socialisti, oggi al governo della Spagna, non solo non sono riusciti a recuperare il palazzo di San Telmo, perso per poco quattro anni fa, ma hanno addirittura peggiorato il proprio risultato (da 33 a 30 seggi, 24%), mentre la sinistra, presentatasi divisa in due liste, Por Andalucía e Adelante Andalucía, ha mostrato la sua profonda crisi (da 17 a 7 seggi, 12,3%). Moreno Bonilla, in sintesi, potrà governare in solitario senza dover formare un esecutivo di coalizione con l’estrema destra, scenario ritenuto più probabile durante la campagna elettorale.
Diverse sono le letture che si possono fare dei risultati andalusi. In primo luogo, nonostante una ormai cronica astensione che si attesta al di sopra del 40% e il calo dei socialisti, sembra rafforzarsi lo storico bipartitismo che ha segnato la storia spagnola dalla fine della dittatura franchista: PP e PSOE ottengono quasi il 70% dei voti, mentre nel 2018 si erano fermati al di sotto del 50%. La frammentazione del sistema partitico “pesa” dunque meno rispetto all’ultimo decennio: Ciudadanos è scomparso, Podemos e le sue diverse declinazioni vivono un lento declino e Vox, pur aumentando i propri consensi, non sfonda e, soprattutto, non obbliga i Popolari a dover spartire il governo.
In secondo luogo, Moreno Bonilla è riuscito a riunificare lo spazio di centro-destra che storicamente agglutinava il PP e che ha permesso a livello nazionale i governi di José María Aznar (1996-2004) e Mariano Rajoy (2011-2018). In terzo luogo, il candidato dei Popolari è riuscito a capitalizzare il voto utile: in un clima segnato da una profonda polarizzazione e dalle incertezze dovute alla situazione internazionale, gli andalusi hanno maggioritariamente votato a favore della continuità nella regione. Non si è trattato, insomma, di un voto di protesta, ma di un voto a favore della stabilità. In quarto luogo, la sinistra non è riuscita a mobilitare i propri elettori che hanno preferito in molti casi rimanere a casa o, viste le altissime temperature, andarsene in spiaggia.
Al di là delle dinamiche politiche andaluse però, la questione di fondo è capire se la maggioranza assoluta di Moreno Bonilla segna un cambio di ciclo politico a livello nazionale. I risultati dei precedenti appuntamenti elettorali sembrerebbero confermarlo: a maggio del 2021 Isabel Díaz Ayuso ha vinto a mani basse nelle regionali di Madrid e a febbraio di quest’anno i popolari, pur non migliorando sostanzialmente il proprio risultato e dovendo aprire per la prima volta le porte del governo regionale a Vox, hanno mantenuto la presidenza della Castiglia e León. Ma è anche vero che entrambe le regioni sono da una trentina d’anni feudi della destra spagnola e che in Andalusia i popolari governavano dalla scorsa legislatura: potrebbe dunque trattarsi di segnali da non traslare a livello nazionale.
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Certamente il cambio dei vertici del partito lo scorso mese di aprile, con la defenestrazione di Pablo Casado e l’elezione di Alberto Núñez Feijóo, ha dato un nuovo impulso al PP. Rispetto a Casado che ha tentennato continuamente nelle relazioni con Vox finendo per assorbire parte del discorso dell’estrema destra, Feijóo può vantare una carriera di successo – presidente della Galizia dal 2009 – e si presenta come un moderato. Senza disdegnare un’opposizione anche molto dura nei confronti di Sánchez, il nuovo presidente del PP evita l’abbraccio di Vox e cerca di ricomporre un centro-destra spagnolo frammentato. L’eclisse di Ciudadanos, referente in Spagna del gruppo liberale europeo Renew Europe, ha aiutato, e in Andalusia gli errori madornali della candidata di Vox, Macarena Olona, hanno mostrato tutti i limiti del partito guidato da Santiago Abascal. Non è detto però che l’estrema destra inizi una parabola discendente né che Feijóo riesca a convincere il resto degli spagnoli. Insomma, seppur la strada sembri in discesa, è ancora presto per dire che il PP abbia la strada spianata per il palazzo della Moncloa.
Ciò non toglie che il governo progressista guidato da Pedro Sánchez viva un momento di difficoltà. Fin dall’inizio della legislatura, cominciata a gennaio del 2020, l’esecutivo governa in minoranza in un Parlamento molto frammentato. E gli appoggi parlamentari delle diverse formazioni regionaliste e nazionaliste, in primis quelle catalane e quelle basche, si sono fatti sempre più cari con il passare del tempo. Riassumendo, ogni votazione è diventata un terno al lotto e il governo rimane con il fiato sospeso fino all’ultimo.
Non aiutano ovviamente le divisioni tra i socialisti e i suoi soci di Unidas Podemos – non ultima quella sull’invio di armi all’Ucraina – e le diatribe interne nello spazio della sinistra alternativa che dopo l’uscita di scena di Pablo Iglesias – dimessosi un anno fa da vicepresidente e segretario del partito che con altri aveva fondato – fatica a trovare un centro di gravità attorno alla ministra del Lavoro, Yolanda Díaz. Il progetto politico di Díaz, Sumar, che vorrebbe riunificare tutta la sinistra radicale superando le divisioni createsi negli ultimi anni, stenta a prendere piede e non riesce, almeno per ora, a ricreare quel clima di speranza esistente nel 2014-2018. Il ciclo che si era aperto un decennio fa con il movimento degli Indignados, la nascita di Podemos e la conquista di molte città da parte di piattaforme municipaliste – in primis Barcellona con Ada Colau – sembra essersi esaurito.
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In realtà, però, l’operato del governo è stato positivo, tenendo poi conto del difficile contesto internazionale segnato dalla pandemia e dalla guerra in Ucraina. Le misure sociali sono state numerose e importanti a partire dall’aumento del salario minimo – da 764 a 1000 euro –, la creazione del reddito minimo vitale – percepito da oltre mezzo milione di famiglie – o la riforma del lavoro, approvata con il consenso delle parti sociali, che nei primi sei mesi dopo l’entrata in vigore ha ridotto drasticamente la precarietà lavorativa: i contratti a tempo indeterminato sono passati dal 10 al 48%. Senza contare poi, oltre a un notevole progresso nell’ambito dei diritti civili, l’eccellente gestione in tempo di pandemia che grazie alla cassa integrazione ha salvato milioni di posti di lavoro o l’ottenimento da parte di Bruxelles della cosiddetta “eccezione iberica” che ha permesso di stabilire un tetto al prezzo del gas per ridurre di circa il 20% il prezzo dell’elettricità che pagano i cittadini.
Nonostante le ultime previsioni al ribasso del Banco de España, i dati macroeconomici parlano chiaro. L’occupazione ha raggiunto il suo record storico, mentre la disoccupazione, per quanto ancora alta, è scesa ad aprile al 13,3%, il dato più basso dal 2008. E la crescita del pil è stimata al 4,1% per il 2022, superiore a quella di tutti i grandi paesi europei. È vero che ancora non si è recuperato ciò che si perso nell’annus horribilis 2020 e che il debito pubblico si riduce molto lentamente dal picco del 120% causato dalla pandemia, ma comparativamente l’economia spagnola va bene e la stagione turistica alle porte – il turismo vale circa il 13% del pil del Paese – si prevede ai livelli del 2019.
Tuttavia, la percezione di molti cittadini è un’altra. Oltre alla preoccupazione per l’inflazione all’8%, che pesa notevolmente sul potere d’acquisto di molte famiglie, l’impressione generale è che il governo sia diviso, fragile, titubante e ostaggio degli indipendentisti catalani e baschi. In politica internazionale, seppur la voce spagnola si sia fatta sentire di più in Europa rispetto al passato con risultati positivi come il Recovery Fund di cui la Spagna è il secondo beneficiario dopo l’Italia, la crisi della primavera scorsa con il Marocco e quella attuale con l’Algeria – uno dei principali fornitori di gas di Madrid – hanno permesso a questa narrativa, diffusa incessantemente dai media conservatori, di penetrare nell’opinione pubblica. I framework, si sa, a volte sono più efficaci della realtà.
I prossimi mesi saranno dunque piuttosto complessi per il governo guidato da Pedro Sánchez. La prova del fuoco sarà il 2023, anno elettorale per eccellenza. A maggio vanno al voto tutti i comuni e 13 regioni su 17. A novembre, a meno di un anticipo elettorale, da non scartare vista la complessa aritmetica parlamentare e le difficili relazioni con gli indipendentisti catalani, ci saranno le politiche, proprio mentre alla Spagna toccherà la presidenza del semestre europeo.
Per evitare quello che ad alcuni sembra già inevitabile (il PP al governo, da solo o con Vox), Sánchez dovrà rinvigorire il suo partito, sperare che il progetto di Díaz non fallisca, ricucire gli strappi con i molteplici soci nelle Cortes e comunicare meglio i risultati ottenuti dal governo. Non sarà facile, ma vale la pena ricordare che la biografia politica del leader socialista si intitola Manual de resistencia. È proprio nei momenti più difficili che Sánchez dà il meglio di sé. Vedremo se anche questa volta sarà così.