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La traiettoria di Macron nel nuovo scenario francese

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 Emmanuel Macron, il presidente partito da sinistra per governare a destra. E’ così che molti media francesi raccontano la parabola del Capo dello Stato eletto lo scorso 7 maggio; alcuni con risentimento, come Libération, che enumera i passi del tradimento del Président alla gauche. E altri con soddisfazione, come Le Figaro, le cui pagine sottolineano come Macron abbia realizzato le riforme che “la destra sognava”.

Dubitiamo però che queste categorie servano a inquadrare il sistema di governo di Emmanuel Macron. Per cominciare, non dobbiamo perdere di vista la condizione della Francia di oggi: un Paese ancora scosso da una crisi per certi versi all’italiana – una larga insoddisfazione per le istituzioni; uno sconvolgimento economico e industriale che ridisegna la mappa produttiva del paese; una crisi dei meccanismi di bilancio pubblico e di stato sociale e del rapporto tra cittadinanza e stato.

Le presidenziali dell’anno scorso ne testimoniano alcune conseguenze significative. Il Partito Socialista, un tempo forza motrice della sinistra europea oltre che francese, è finito prosciugato, al 6%. Il PS negli anni si è sradicato dalle regioni industriali e progressiste per migrare elettoralmente verso le zone un tempo arretrate ma oggi più dinamiche e produttive del paese Intanto, l’arrivo di Macron sulla scena politica ha certificato anche nei fatti il tramonto della distinzione tra destra e sinistra come unica linea di divergenza nella politica francese. Il funzionario, il quadro ministeriale Macron ha anzi incarnato una nuova contrapposizione socio-politica tra tecnocrati liberali e populisti nazionalisti. Gli elettori delle regioni dinamiche e produttive hanno preferito en masse la proposta di Macron, condensata nel nuovo partito personale En Marche!, a quella – impopolare perché appesantita dagli anni della presidenza Hollande, e incoerente perché appunto sfasata rispetto alla nuova frattura sociale – del partito socialista. Perso in passato il voto delle vecchie zone industriali (soprattutto nell’Est), perso di recente quello dei nuovi centri economici (soprattutto nell’Ovest), al PS sono rimaste le briciole.

Il tramonto della sinistra tradizionale, così come la trasformazione in corso a destra, dove I Repubblicani di Laurent Wauquiez hanno abbandonato ogni velleità di alleanza con Marine Le Pen, prendendo atto con qualche imbarazzo che il loro programma coincide quasi del tutto con quello di Macron – hanno provocato la fine della dialettica tra moderati e radicali di queste due aree politiche. I radicali di un tempo hanno preso la via populista (definizione qui priva di senso denigratorio, ma adottata per la presenza esplicita di richiami al popolo da parte dei leader, e sinonimo di “anti-liberale”). Gli anti-liberali di sinistra di Jean-Luc Mélenchon più gli anti-liberali di destra di Marine Le Pen hanno ottenuto, il 23 aprile 2017, al primo turno delle presidenziali, il 41% dei voti. Macron, più il candidato della destra liberale François Fillon, il 43%.

Ci sembra questa una divisione ben più capace di svelare la realtà sociale della Francia rispetto al risultato del secondo turno, ossia la vittoria senza storia di Macron su Marine Le Pen (66,1% contro 33,9). Quale spazio politico apre ora un panorama del genere per il giovane Président? Quello di un “centro” liberale – con i suoi oppositori populisti che sono collocati uno molto a sinistra e l’altra molto a destra. Ma quello macroniano è un centro per posizione, non per moderatismo, come dimostra la fretta senza compromessi nell’azione di governo, e la dura risposta di parte della società.

Questo centro liberale può effettivamente, come dice Le Figaro, realizzare le riforme che la destra liberale di Jacques Chirac e Nicolas Sarkozy, e i loro elettori, diventati secondo i sondaggi sostenitori di Macron, sognavano. Può farlo perché a opporsi non c’è più il blocco sociale di riferimento del Partito Socialista, ormai dissolto, ma due poli ideologicamente vicini solo per una parte del loro contenuto politico, e lontanissimi per l’altra.

Sbaglia invece Libération a dire che la parabola di Emmanuel Macron nasce da sinistra: l’ex ministro dell’economia del governo socialista di Manuel Valls è stato scelto, ed è cresciuto politicamente, da tecnocrate di alto livello – o, se si vuole, campione dell’establishment francese. La definizione di “décomplexé” (senza complessi, ossia senza legami con le tradizioni politiche storiche) è forse la più calzante: il partito socialista è stata per lui solo una crisalide in via di decomposizione.

La farfalla Macron ha dunque subito messo in campo il suo menu di riforme: lavoro, pensioni, aziende pubbliche. Tutte naturalmente da condurre con l’obiettivo di liberare lo stato di “pesi”, e il mercato e le imprese di “regole”. Proteste massicce non sono mancate fin dall’inizio (come abbiamo visto, il fronte anti-liberale francese è nutrito, sebbene diviso), e non accennano a cessare. Non crediamo che il Président pensi a tornare sui suoi passi: “Fannulloni, cinici ed estremisti non vinceranno”, come Macron ha detto in occasione di uno dei primi scioperi, è un commento che lascia spazio a pochi dubbi.

Tuttavia, l’attualità ci sta mostrando che proprio nei paesi in cui riforme di questo segno sono state perseguite più a fondo (Regno Unito e Stati Uniti) è arrivata, più inattesa ma più forte, la fiammata populista e nazionalista. Il voto a Trump e quello per la Brexit sono lì a certificarlo. Se la situazione francese seguisse la stessa parabola, non ci sarebbe poi frontiera sufficiente a impedire un contagio europeo.