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Le convergenze tra Israele e Arabia Saudita: tattica, non ancora strategia

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Rinuncio, rinuncio, rinuncio. Avrebbe probabilmente risposto così il principe ereditario saudita Mohammed Bin Salman (“Mbs”) a Jeffry Goldemberg se nella recente intervista l’editore di The Atlantic gli avesse chiesto che cosa pensa dei “tre No di Khartoum” – ovvero i principali punti della risoluzione adottata dalla Lega Araba nel 1967: no alla pace con Israele, no al suo riconoscimento e no ai negoziati con questo stato.

Per la prima volta dallo scoppio del conflitto arabo-israeliano, un leader saudita ha infatti riconosciuto il diritto degli ebrei a creare uno stato in quella che una volta era la patria dei loro antenati. La dichiarazione è giunta nel corso di un’intervista di venti pagine durante la quale il principe ereditario non ha mai pronunciato una cattiva parola nei confronti di Israele, invece lodato per la potenza della sua economia. Un’intervista nella quale Mbs non ha parlato neanche una volta di “Stato Palestinese” e non ha fatto menzione di “Gerusalemme occupata” come sua capitale. Un’omissione non casuale: in questo modo il principe ereditario ha cercato di colpire positivamente Washington, nel momento in cui la Casa Bianca si appresta a trasferire la sua ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme. Le uniche preoccupazioni espresse per la Città Santa sono quelle di natura religiosa che riguardano lo status della moschea di Al-Aqsa, terzo luogo sacro per l’Islam.

Il Medio Oriente descritto da Mbs in questa intervista è diviso ancora una volta in due campi: quello del male – composto da Iran, Hezbollah e la Fratellanza Musulmana – e quello della moderazione – composto da Giordania, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Oman, Yemen e Arabia Saudita. Una visione bipolare, benché in parte ribaltata, già usata da Osama Bin Laden. Gli altri stati nord africani e il Marocco non sono stati citati; e per l’Iran sono arrivate le parole più dure: Ali Khamenei, Guida Suprema del regime di Teheran, è stato definito come più pericoloso di Hitler. “Il Führer ha provato a invadere e occupare l’Europa; l’Ayatollah Khamenei vorrebbe invadere tutto il mondo.”

Anche se in una successiva telefonata con il presidente statunitense Donald Trump il re saudita Salman Bin Abdelaziz ha cercato di edulcorare l’annuncio, ribadendo il sostegno del Regno alla creazione di uno stato palestinese indipendente con Gerusalemme capitale, il messaggio di Mbs era già arrivato a destinazione forte e chiaro. La mossa ha coronato un avvicinamento che inizia in realtà oltre quindici anni fa, culminato negli ultimi mesi di ostilità sempre più aperta da parte americana e saudita verso l’Iran, “nemico pubblico numero uno” anche di Israele.

Tutto è cominciato formalmente nel 2002, quando i sauditi diedero prova di pragmatismo, instaurando un dialogo con il governo israeliano sulla cosiddetta Road Map per la pace che prometteva a Israele il riconoscimento ufficiale e la normalizzazione delle relazioni diplomatiche con 57 Paesi musulmani, in cambio della restituzione dei territori occupati nel 1967. Un piano mai decollato. Successivamente, una nuova convergenza  tra i due Stati si è avuta nel 2006, a seguito del rapimento e dell’uccisione da parte di Hezbollah di due soldati israeliani, evento che scatenò la cosiddetta seconda guerra del Libano. Anche in questo caso, Tel Aviv e Riad si sono trovate dalla stessa parte della barricata contro “Il partito di Dio”. E questo allineamento si è riprodotto anche in un’intesa indiretta sul trasferimento delle isole egiziane di Tiran e Sanafir all’Arabia Saudita, grazie al quale Riad – con il benestare di Israele – ha ottenuto l’accesso al Golfo di Aqaba.

Parallelamente sono andati avanti una serie di incontri istituzionali tra le parti, appuntamenti impensabili solo qualche anno fa. A novembre, Elaph – un giornale saudita prodotto a Londra – ha svelato la proposta fatta dall’esercito israeliano all’Arabia Saudita per condividere dati di intelligence sull’Iran. Sempre Elaph ha successivamente pubblicato l’intervista al ministro dei trasporti israeliano che ha parlato di un progetto di costruzione di una rete ferroviaria per collegare – attraverso la Giordania – i due Paesi. E sempre in tema di trasporti, vale la pena ricordare che a febbraio l’Arabia Saudita ha concesso per la prima volta il proprio spazio aereo per i voli verso Israele.

Proclami e attenzione mediatica a parte, difficile pensare che tra Arabia Saudita e Israele stia però nascendo una vera e propria alleanza strategica. Le convergenze temporanee – in primis quelle sull’Iran, ma anche il sostegno all’Egitto in chiave anti-Fratellanza Islamica e anti rivolte – devono fare i conti con i tanti  disaccordi ancora presenti. Sull’Iran stesso, ad esempio, ci sono importanti divergenze di metodo. L’Arabia Saudita vuole costruire un arsenale atomico per controbilanciare Teheran, cosa che Israele non può accettare. E anche lo scontro di matrice settaria che Riad sembra voler promuovere con l’Iran non può trovare sostegno da Tel Aviv.

Ma la questione dirimente, ancora una volta, è il nodo palestinese. Nonostante il progressivo disinteresse verso la questione, Riad vuole ancora avere esercitare una certa influenza su Hamas (organizzazione islamista che governa sulla Striscia e uno dei principali terreni di scontro sul quale si fronteggiano da un alto il fronte arabo sunnita a guida saudita e dall’altro l’Iran e i suoi alleati) per esercitare influenza sull’Olp e Fatah.

Strategie geopolitiche a parte, la leadership saudita, in questo momento molto sensibile all’opinione pubblica, a cui viene sottoposto il suo ampio progetto di riforme, non può rischiare di perdere consenso interno offrendo a Israele una totale normalizzazione. I sondaggi mostrano infatti che per i cittadini sauditi (a cui ancora non è consentito tenere elezioni politiche, ma che da gennaio hanno iniziato a pagare l’Iva) il sostegno alla questione palestinese è ancora uno dei principali pilastri della politica estera saudita che ha storicamente difeso la causa. Impensabile, per i cittadini, che Riad abbandoni i palestinesi nella loro lotta contro l’occupazione. Ecco perché il sostegno economico a questa terra non viene messo in discussione e viene continuamente esaltato dalla stampa locale che cerca di evidenziare gli sforzi degli Al-Saud a favore dei palestinesi.

Anche per questo sarà importante seguire la reazione popolare al trasferimento dell’ambasciata americana, evento che renderà ancora più scivoloso il piano traballante sul quale l’Arabia Saudita sta cercando di saldare la sua convergenza tattica con Israele.