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La strategia indopacifica degli USA e le scelte necessarie per gli europei

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 La scelta strategica del “pivot to Asia” ha subito una nuova accelerazione per iniziativa di Joe Biden, in coerenza con l’approccio ribadito anche nei giorni convulsi del ritiro afgano. L’America si concentra sulla grande sfida cinese e dunque anzitutto sul vasto teatro dell’Indo-Pacifico. Lo fa con i suoi strumenti militari, che la rendono tuttora l’unica superpotenza globale in quanto a proiezione di forza, e lo fa mediante la politica delle alleanze – da rinsaldare, rinnovare, ampliare. E’ così che si può leggere, in prima battuta, la decisione di fornire la tecnologia per i sottomarini a propulsione nucleare all’Australia (da tempo un Paese-chiave per contenere le ambizioni di Pechino) e il rilancio del formato “Quad” (con India, Giappone, e di nuovo Australia), ufficialmente il “Quadrilateral Security Dialogue” con il Summit del 24 settembre.

L’accordo sui sottomarini ha in effetti una configurazione a tre, coinvolgendo anche la Gran Bretagna (da cui l’acronimo “AUKUS”) ed è qui che iniziano gli effetti geopolitici complessi che riguardano l’Europa: la forte irritazione della Francia – che aveva siglato un’intesa commerciale dello stesso tipo proprio con il governo australiano, ora superata – è comprensibile, ma rischia di causare altri danni diplomatici e ridurre ulteriormente il peso negoziale europeo.

I sottomarini nucleari, al centro di una tensione geopolitica

 

Che Parigi accusi Washington e Londra di una “pugnalata alle spalle” mostra infatti il nervo scoperto sul versante del nazionalismo commerciale, più che un vero problema strategico. Oltretutto, la Francia si era mossa a sua volta in autonomia senza certo coinvolgere i suoi partner della UE, forte del proprio status di potenza nucleare. Dunque, dalla prospettiva europea aggregata il problema è ancor più grave, ovunque si guardi: a Washington per la scarsa propensione a consultare gli alleati; a Londra per l’evidente e prevista “deriva” autonomistica post-Brexit; ma appunto anche a Parigi per l’atteggiamento di fatto unilaterale.

Si deve in realtà osservare che l’iniziativa anglo-americana, per come è stata perseguita, evidenzia un punto debole del “metodo Biden” che è già emerso drammaticamente con la vicenda afgana: gli Stati Uniti continuano a considerare marginali gli alleati europei (con l’eccezione di Londra), almeno in questa fase, ma così facendo rischiano di rendere il “pivot to Asia” incompatibile con un rilancio del rapporto transatlantico, se l’Europa non si adatterà rapidamente al riassetto strategico in atto.

Il guaio, per Washington, è che confidare nella diplomazia multilaterale e nelle intese “a raggiera” richiede di essere percepiti da tutti come affidabili, e in tal senso l’amministrazione Biden sta percorrendo una china pericolosa. Gli alleati europei farebbero però meglio a non cadere nella tentazione della recriminazione anti-americana, perché questo è invece il momento di agire per rendersi utili. I nostri interessi strategici globali rimangono in larga misura allineati con quelli americani, e lo dimostra proprio la circostanza che la Francia avesse stretto un’intesa con l’Australia che è stata ricalcata da quella di “AUKUS”. Non si deve insomma confondere un certo tasso di competizione economica e magari diplomatica con un contrasto di fondo.

C’è poi un secondo punto di potenziale vulnerabilità americana, che a onor del vero Biden ha ereditato e deve ora gestire: parallelamente alle intese militari, infatti, in Asia orientale si lavora da alcuni anni a rafforzare e ampliare due grandi fori di cooperazione economica, che sono in gran parte intrecciati come membership e che ad oggi escludono gli USA. Donald Trump ha infatti ritirato gli USA dall’accordo che era stato avviato da Barack Obama, lasciandone la leadership al Giappone – il Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership (CPTPP), siglato nel 2018 da 11 Paesi. Proprio in coincidenza con l’annuncio di AUKUS, la Cina ha chiesto di aderire, con una mossa che quantomeno punta a sparigliare il gioco.

Intanto, Pechino ha dato vita per suo conto, nel novembre 2020, al più grande accordo commerciale al mondo – la Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP) – che include (per un totale di 15 membri) alleati-chiave per Washington come lo stesso Giappone e la stessa Australia. In sostanza, molti Paesi tengono per ora i piedi in due staffe: il quadro economico è intricato e dinamico, e non può essere del tutto sganciato da quello strategico-militare, se non altro perché Washington non sembra avere una strategia pienamente integrata e coerente sui vari dossier. In particolare, se la volontà di un numero crescente di alleati a seguire la linea dura verso Pechino è degna di nota, c’è da dubitare che anche i più stretti partner dell’America di Biden vorranno rinunciare ad alcuni rapporti commerciali con la Cina.

I paesi membri della RCEP

 

Va ricordato ovviamente che la UE è un gigante economico, e dunque proprio sul terreno delle intese commerciali multilaterali potrebbe e dovrebbe far sentire il suo peso; vedremo se ciò sarà possibile e come influirà eventualmente sul legame euro-americano, ma anche in questo senso gli interessi globali sui due lati dell’Atlantico non sono incompatibili, e un’ulteriore erosione della NATO o del rapporto USA-UE danneggia tutti i soggetti coinvolti.

Questo è certamente un problema su cui a Bruxelles si deve riflettere, ben al di là delle rimostranze francesi e delle ambizioni collettive, ma finora molto vaghe, di “autonomia strategica”. Un nodo irrisolto è infatti quello della necessaria (ad oggi insufficiente) coesione effettiva (non solo retorica) tra i maggiori Paesi membri della UE: in parole povere, non è molto credibile annunciare obiettivi globali o impegni militari senza aver spiegato quali sono gli interessi collettivi da difendere – rinunciando ove necessario a un certo margine di sovranità nazionale in cambio del peso europeo aggregato.

Il varo di AUKUS, e soprattutto il rilancio del formato “Quad”, confermano una volta di più che le dinamiche strategiche corrono veloci, e la UE deve ragionare in termini di intese operative che siano legate ai propri interessi aggregati – non in termini di dichiarazioni di principio. La “difesa europea” ha un significato concreto solo in questa ottica e ponendosi quesiti precisi: quali interessi primari vanno difesi, come sono connessi alla tutela dei cittadini europei, quali risorse siamo disposti a mobilitare, come si prendono le decisioni sia nelle fasi di pianificazione “ordinaria” sia in quelle di crisi acuta.

Senza passare per queste forche caudine, i nostri leader non potranno dare alla UE una politica di sicurezza e difesa. E a risentirne negativamente saranno anche gli interessi economici e perfino i principi che affermiamo di voler promuovere. In quel caso, non soltanto saremo tagliati fuori dalle grandi decisioni sul futuro della regione Indo-Pacifico, ma subiremo le scelte altrui nelle regioni contigue all’Europa.