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I due Occidenti

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La Francia ha reagito malissimo, ed è comprensibile, all’annuncio del patto militare e tecnologico fra Stati Uniti, Australia e Regno Unito (AUKUS): non era stata informata e si è sentita tradita da Washington; ha perso una commessa militare molto rilevante; ha visto ridimensionate di colpo le proprie ambizioni di potenza nel Pacifico.

L’America ha chiaramente privilegiato, a spese di Parigi, l’interesse a contenere la Cina in Asia orientale. E se guardiamo la cosa da questo punto di vista, l’accordo con l’Australia, con un apporto accessorio della Gran Bretagna, ha senso. Sul piano militare, la fornitura a Canberra di sommergibili a propulsione nucleare rafforza la deterrenza nel settore navale, dove il riarmo cinese è in corso da anni. Sul piano politico, la nascita di AUKUS dà un segnale immediato di parziale rassicurazione a Taiwan – il vero punto caldo del futuro.

Barriere antisbarco sulle Isole Kinmen, territorio taiwanese a soli 3 km dalla Cina continentale (sullo sfondo)

 

Dopo essersi ritirata dall’Afghanistan, l’America indica così di non avere nessuna intenzione di ritirarsi dal mondo; e rafforza il contenimento della Cina. L’obiettivo è di impedire a Pechino il predominio militare in Asia orientale. Il prezzo contingente è l’umiliazione della Francia, alleato storico degli Stati Uniti sul fronte europeo. Nella convinzione, giusta o sbagliata che sia, che il peso dell’Europa negli equilibri dell’Asia Pacifico resterà marginale.

La scelta di Biden fa leva sul nucleo duro degli alleati degli Stati Uniti in materia di intelligence (i “Five Eyes”). E contiene un rischio evidente: la divisione dell’Occidente fra una sfera di stampo anglo-sassone dedicata a tenere sotto controllo la Cina e una sfera euro-atlantica tradizionale, con la NATO concentrata sulla Russia. In sostanza, due sistemi di alleanza paralleli e diversi, con Washington come perno. L’interrogativo è fino a quando i due Occidenti resteranno uniti. La questione, per la Casa Bianca, è di imparare a gestire le alleanze; per gli europei, è come rispondere a una perdita relativa di centralità.

L’America è il perno di due sistemi geopolitici: uno euro-atlantico in chiave di contenimento russo, l’altro indo-pacifico in chiave di contenimento cinese

 

Proprio come in un sommergibile anche in questa storia c’è più di quanto appaia in superficie. Vediamone quattro aspetti, abbastanza confusi nel dibattito di questi giorni.

Primo, fornendo a Canberra sommergibili a propulsione nucleare (non armi nucleari, il rischio proliferazione è molto limitato), l’America trasferisce tecnologie fino ad oggi riservate a Londra. E’ una eccezione alla regola. L’ Australia, contro cui la Cina ha condotto in questi anni una vera e propria guerra commerciale per ritorsione politica, aumenta così il suo profilo militare, con sistemi che diventeranno operativi nell’arco dei prossimi due decenni. La strategia cinese di “coercizione economica” subisce una prima sconfitta.

Secondo punto: gli europei devono trarre le lezioni giuste, non quelle sbagliate, da questo ennesimo shock. Lo spostamento verso l’Asia degli Stati Uniti non significa di per sé il loro disimpegno dall’Europa: il gioco non è a somma zero. La deterrenza nucleare americana resterà parte decisiva della NATO. Ma è ormai chiaro da tempo che gli europei dovranno assumere maggiori responsabilità dirette nella sicurezza continentale e nella gestione delle aree ai confini, in particolare nel Mediterraneo allargato da cui gli Stati Uniti stanno ripiegando. Non sarà così facile, con una Germania distratta dalla propria (lunga) transizione interna e con una Francia che – scottata da Washington – spingerà per una visione “radicale” dell’autonomia strategica europea: visione che divide l’UE e allontana l’Atlantico. Di cui però abbiamo ancora bisogno.

Angela Merkel ed Emmanuel Macron, i leader di Germania e Francia negli ultimi anni

 

Terzo punto: non è chiaro come si strutturerà il mosaico delle alleanze asiatiche in evoluzione, con un Giappone che fa parte del “Quad” (il formato a quattro fra India, Stati Uniti, Giappone e Australia); con una Corea del Sud che continua ad ospitare migliaia di soldati americani; e con il nodo critico di Taiwan. Parallelamente, esistono i fori di cooperazione economica: qui l’America è vulnerabile, dopo essersi auto-esclusa dalla Partnership transpacifica che pure aveva ideato, mentre la Cina è in vantaggio e lo sa. Non a caso, dopo avere lanciato in Asia orientale il più grande accordo commerciale al mondo, Pechino ha chiesto di aderire anche alla Partnership transpacifica. E’ probabile che i paesi membri si divideranno, senza arrivare a un accordo. Ma il punto rimane: la competizione USA-Cina si gioca su tre tavoli – economia, tecnologia e geopolitica – che è sempre più difficile separare. L’Europa sembra fare fatica a prenderne atto.

Quarto e ultimo punto (almeno per ora): Boris Johnson ha colto un successo immediato, con la sua versione britannica del “pivot to Asia”. Cerca così di rilanciare, dopo le tensioni in Afghanistan, il rapporto con Washington e la sua Gran Bretagna globale. Ma è difficile immaginare che frustrare le aspirazioni indo-pacifiche di Parigi possa essere un vero vantaggio per Londra, che conserva interessi prevalenti in Europa e attorno all’Europa.

Intanto l’UE ha pubblicato la propria strategia indo-pacifica, che dice molto ma spiega poco. Fino a quando esisterà una ambiguità europea sul punto sostanziale – come rispondere all’ascesa della Cina – la distanza fra i due Occidenti tenderà ad aumentare.

 

 


Una versione di questo articolo è stata pubblicata su Repubblica del 20/09/2021