La società travagliata dietro i gilet gialli
“<<Inedito>>. E’ la parola che corre su tutte le bocche dopo gli avvenimenti clamorosi che hanno costellato la protesta dei gilet gialli”. Così comincia uno dei tanti editoriali che il giornale parigino Le Monde ha dedicato ai gilets jaunes, e benché il fenomeno abbia suscitato reazioni diversissime nell’opinione pubblica e nei commentatori, se ne coglie un carattere comune a molti commenti: la sorpresa.
I gilet gialli hanno bloccato la Francia per settimane, riuscendo anche a causare danni economici gravi – ma prima ancora vanno contati sette morti e quasi duemila feriti durante le agitazioni, che hanno incluso occupazioni di comuni e prefetture come di fabbriche – grazie a una stupefacente e inattesa capacità di coordinamento seppure in assenza di una leadership e di un inquadramento classico. Niente sigle sindacali, niente organizzazioni di partito. Ma la “rivolta” ha avuto pienamente una dimensione politica – da qui, forse, parte della “sorpresa” – anche perché la politica francese, di fonte alla grandezza degli eventi, ha dovuto prendere una posizione.
Jean-Luc Mélenchon e Marine Le Pen, i capi (entrambi candidati alle scorse presidenziali) della sinistra e della destra radicale francese, hanno sintetizzato il sostegno dei loro rispettivi partiti, che attualmente si chiamano La France Insoumise e Rassemblement National, sposando la stessa richiesta: scioglimento immediato del parlamento. Ma l’adesione dei politici non è stata solo indiretta, come nel caso di questi due leader: François Ruffin, giornalista e deputato de La France Insoumise del dipartimento della Somme, durante una delle manifestazioni parigine si è parato a due passi dall’Eliseo, sede della Presidenza della Repubblica, e in diretta sulle reti sociali il 2 dicembre ha lanciato il suo anatema: “Dalla protesta siamo passati alla rabbia. La superbia di Emmanuel Macron, la sua sordità, la sua ostinazione, la sua assenza di concessioni sono motrici di odio. Deve andarsene, prima di far impazzire il nostro paese, impazzire di rabbia, farlo impazzire del tutto”.
Nell’eterogeneità dei commenti, la sorpresa è stata il denominatore comune. Nell’eterogeneità della protesta, il denominatore comune è stato infatti l’estrema avversione per il Président eletto nel maggio 2017: Emmanuel Macron.
Per comprendere meglio il significato di questa mobilitazione, cominciamo dal cercarne le origini. Secondo Jérôme Fourquet, politologo ed esperto di geografia elettorale, “la Francia che ha partecipato alle proteste, o che le vede con più simpatia, è la Francia che non arriva alla fine del mese”. Bisogna ricordare, a questo punto, che il detonatore è stato la nuova tassa sui carburanti introdotta dal governo. Tuttavia, fa notare un’inchiesta della fondazione di studi sociali Jean Jaurès, forse ci si sarebbe sorpresi meno davanti ai gilet gialli se si fosse dato peso agli eventi di protesta che da aprile (già trenta blocchi stradali nell’Île-de-France nella prima settimana, poi estesi a tutto il paese, e culminati in una grande manifestazione dei motards a Parigi in giugno) erano nati dopo un’altra misura del governo: l’abbassamento dei limiti di velocità sulle strade extraurbane da 90 a 80 km/h.
I centri delle città francesi hanno vissuto, negli ultimi trent’anni, una grande rivalutazione e un recupero dal punto di vista urbanistico, sempre caratterizzato da investimenti importanti nei trasporti pubblici. La rivalutazione ha finito per spingere lontano da quelle aree la parte di popolazione che non poteva affrontare il relativo aumento dei prezzi di case e beni di consumo. Questa fascia di popolazione si è socialmente saldata con quelle che già vivevano nella costellazione di zone commerciali, zone industriali, città satellite e piccoli centri che si sviluppano fuori dai centri urbani principali in Francia, e la cui economia è dipendente dalle grandi città oppure si articola lungo gli assi stradali di collegamento – dove la concentrazione produttiva degli ultimi decenni ha spostato attività, servizi, superfici commerciali. Chi ci vive, insomma, ha bisogno dell’automobile per lavorare e per vivere, non solo se è pendolare: fuori dalle città i trasporti pubblici non possono naturalmente coprire le esigenze di spostamento di un sistema umano e produttivo frammentato, dunque la spesa per le auto (dal carburante, con il prezzo del diesel aumentato del 50% in Francia negli ultimi dodici mesi, alle multe) riveste importanza fondamentale, soprattutto per i redditi medio-bassi.
Alcuni commentatori – tra i quali ad esempio Jean Quatremer, corrispondente da Bruxelles del giornale di sinistra Libération – hanno sostenuto che la fragilità sociale c’entra poco: le zone di forza dei gilet gialli sono quelle dov’è forte il rifiuto per la società multiculturale, l’egoismo nazionalista, la chiusura ai processi globali. La tinta della sommossa sarebbe quindi quella della destra radicale, e lo dimostrerebbe la violenza di molte proteste, i saccheggi e i vandalismi nel centro di Parigi (nel terzo fine settimana di proteste la polizia ha lanciato più di 3.000 lacrimogeni nella capitale), gli scontri con camionisti e automobilisti vicino ai blocchi stradali. Ma anche la sregolatezza della folla dei manifestanti, le loro rivendicazioni confuse ma egoiste, il loro schierarsi senza rispetto contro le istituzioni dello stato.
Sono però numerose anche le opinioni che sottolineano come la correlazione estrema destra – gilet gialli non funzioni. Il geografo e politologo Hervé Le Bras ha dimostrato che la partecipazione più forte agli eventi di protesta, proporzionalmente alla popolazione, si è avuta nelle province che appartengono alla cosiddetta “diagonale del vuoto”: un’area della Francia che non corrisponde alle zone di forza di Marine Le Pen, ma corrisponde invece alle regioni più lontane dal sistema economico delle grandi città – e che comprende anche Puy-en-Velay, capoluogo di dipartimento dove a margine di una manifestazione dei gilet gialli è stata data alle fiamme la prefettura.
Allo stesso tempo, l’estrema destra non è certo un corpo estraneo a quanto successo nelle ultime settimane. Intanto, lì dove è radicata, le sue cellule locali hanno partecipato alle proteste. Lo dimostra questa mappa di Le Monde sui blocchi dei gilet gialli nella regione Nord – Passo di Calais, feudo di Marine Le Pen. Si vede che la partecipazione è stata intensa nelle zone di forza del Rassemblement National; ma lo è stata anche nelle zone dove l’estrema destra è più debole, ad esempio nei dintorni di Lille.
Inoltre, essendo Emmanuel Macron – Macron e il suo mondo: che include anche l’establishment politico, intellettuale e tecnocratico parigino – il bersaglio ideologico principale della protesta, è stato inevitabile che a giovarsene fosse la sua antagonista diretta alle presidenziali dello scorso anno. Marine Le Pen arrivò seconda al primo turno con il 21,3% dei voti, e fu sconfitta al ballottaggio da Macron 66,1% contro 33,9%. Abbiamo già scritto che il risultato del secondo turno era il metro sbagliato per misurare il consenso del nuovo presidente; tuttavia, dopo solo un anno, quel consenso si è così disgregato che se si rivotasse oggi – secondo alcuni sondaggi – non sarebbe Marine Le Pen a uscire sconfitta.
Conseguentemente, anche l’opinione dei francesi risulta polarizzata secondo le fratture politiche emerse alle presidenziali. Due elettori su tre di Marine Le Pen simpatizzano per i gilet gialli – e vale lo stesso per i fan del candidato populista-nazionalista Nicolas Dupont-Aignan. A sinistra, uno su due tra i votanti di Jean-Luc Mélenchon vede con favore la protesta. I valori scendono tra i socialisti, nella destra moderata e ovviamente tra gli elettori di Macron.
Ma la frattura è anche economica e sociale. Nei primi giorni, la simpatia per i gilet gialli oscillava tra il 40 e il 60% in tutte le categorie. Con il passare delle settimane – e anche con il radicalizzarsi delle proteste – il consenso tra le categorie a reddito medio-alto e socialmente centrali come i quadri dirigenti e le professioni intellettuali è sceso, mentre tra le categorie a reddito medio-basso e socialmente emarginate come i disoccupati e gli operai è aumentato. Il dato mostra ancora una volta l’esistenza di divisioni e contrapposizioni, forse ancora poco familiari, capaci però di agire in maniera decisiva sulla politica e sulla società.
La miccia innescata dalla tassa sul carburante, di nuovo, fa apparire due segmenti sociali ben distinti: uno che non può fare a meno di auto privata, camion, furgoni, veicoli a motore per lavorare. Un altro che, potendone fare a meno, in questo modo riesce pure evitare uno dei costi strutturali del passaggio a un diverso sistema produttivo vissuto oggi dall’Occidente. I costi della transizione energetica (tasse sul carburante per finanziare investimenti sulle rinnovabili), insomma, vengono scaricati su una fascia sociale che già in gran parte già si percepiva come svantaggiata. Per di più, questa fascia sociale, nel protestare contro una misura etichettata come “progressista”, scivola inesorabilmente – se considerata da quel punto di vista – nella categoria dei “conservatori”.
D’altronde, la dimensione “stradale” della protesta è stata chiara, a partire dal simbolo: i gilet gialli si sono radunati ai confini delle grandi città, presso le infinite rotatorie della rete francese, nei parcheggi dei centri commerciali, luoghi simbolo sia della vita dei pendolari che del sistema economico che vive lungo gli assi stradali. Nel 77% dei casi, le proteste si sono tenute in comuni di meno di 20.000 abitanti.
Emmanuel Macron, dopo la quarta settimana di proteste, ha deciso di fare delle concessioni significative: aumento di 100 euro del salario minimo, detassazione degli straordinari, annullamento dei nuovi prelievi fiscali sulle pensioni basse, bonus sulle tredicesime, e sospensione della nuova tassa sul carburante. Le concessioni, l’attentato dell’11 dicembre al mercatino di Strasburgo, e il passare del tempo hanno sgonfiato il movimento. Nel frattempo, le reazioni di Berlino e Bruxelles alle promesse di Macron – cioè all’idea di usare la spesa pubblica per soddisfare le richieste dei manifestanti – sono state di freddezza estrema. “Macron trasforma la Francia nell’Italia”, lo stato d’animo sintetizzato dal giornale conservatore tedesco Die Welt.
Ma, in effetti, il punto non è quello della durata. Il punto è l’enormità della mobilitazione, la sua intensità anche violenta, e l’odio politico e sociale esibito, nell’assenza di una direzione strutturata. Per questo motivo, e non solo per l’apparizione a tanti anni di distanza delle barricate al centro di Parigi, alcuni commentatori hanno tracciato un parallelo sia con il 1968 e i suoi momenti più furiosi, che con la lunga storia delle rivolte e delle rivoluzioni francesi. Un parallelo che potrebbe suonare lontano fuori dai confini francesi, ma che ha convinto intellettuali schierati a sinistra e immersi nella storia sociale del loro paese come la scrittrice Annie Ernaux o l’antropologo e storico Emmanuel Todd, che sottolineano la richiesta generale di égalité proveniente da una rivolta per altri versi contraddittoria e variegata, non sempre condivisibile.
Questa tonalità “ottocentesca” sia degli avvenimenti che dei caratteri dello scontro politico è confermata dai toni di tanti altri commentatori: più che di “ascoltare la gente”, si prega ormai la classe dominante di “comprendere” la gente. Con poche eccezioni, un fossato di educazione, formazione, opportunità, linguaggio, luoghi, frequentazioni e percorsi di vita tra parti della stessa società sta tornando a ingigantirsi, aggravato dalla sparizione delle strutture intermedie che agivano da ponte ma anche da camera di compressione dei conflitti. Guardarci dentro non dà buone sensazioni.