La ricerca di una politica industriale UE e la ricucitura tra Francia e Germania
Quando il motore franco-tedesco non ingrana la marcia, l’Unione Europea tira il freno a mano. Ma quando inserisce quella giusta, la guida congiunta Parigi-Berlino ultimamente si affida a una pilota ben precisa: Ursula von der Leyen. Le relazioni tra Francia e Germania hanno attraversato un autunno complesso, fatto di incomprensioni, irritazioni, ostacoli, e culminato con la cancellazione della ministeriale congiunta di fine ottobre, appesantita dalla fatica di Emmanuel Macron e Olaf Scholz di trovare una quadra sui principali temi dell’agenda UE.
A rianimare parzialmente i rapporti tra i due Paesi è stato, però, il ritrovato entusiasmo per un tema sempreverde che riguarda il futuro dell’Unione: lo sviluppo di una sua matura politica industriale. Soprattutto ora che, con l’Inflation Reduction Act (IRA) che si appresta a entrare in vigore negli Stati Uniti, Washington ha messo sul tavolo 369 miliardi di dollari di sostegni pubblici per le imprese a stelle e strisce impegnate nella transizione ecologica, dalle energie rinnovabili alle auto elettriche.
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“La nuova e più assertiva politica industriale dei nostri competitor richiede una risposta strutturale” ha scandito von der Leyen a inizio dicembre, parlando dal Collegio d’Europa di Bruges (un altro “Bruges speech” destinato agli annali, dopo quello di Margaret Thatcher?). La presidente della Commissione vuole esplorare (e potenziare) i confini della sovranità industriale della UE, senza tuttavia mettere in crisi – soprattutto non con una guerra in corso – l’unità d’intenti transatlantica. La rotta di cui si fa portavoce von der Leyen è, come vuole la prassi sdoganata in particolare da questo esecutivo europeo (nato, ben più di altri, marcatamente sull’asse Parigi-Berlino), un tentativo di bilanciamento delle istanze di Francia e Germania. La tempistica non passa inosservata: proprio su una risposta all’altezza da parte dell’Europa al “bazooka” di sovvenzioni pubbliche messe in campo da Joe Biden, francesi e tedeschi avevano ritrovato nelle scorse settimane la sintonia che si era infranta su tutta un’altra messe di dossier, dagli interventi contro il caro-energia alla spesa comune sulla difesa, fino al dialogo con Pechino.
In preda ai timori per l’impatto sulla manifattura europea dell’IRA, capace di attrarre al di là dell’Atlantico le più importanti industrie del Vecchio continente (automotive in testa), il motore franco-tedesco s’è rimesso in azione con parole molto chiare affidate, il 22 novembre scorso, a una dichiarazione congiunta firmata dai rispettivi ministri dell’Economia Bruno Le Maire e il verde Robert Habeck: “Abbiamo bisogno di una politica industriale europea che consenta alle nostre aziende di competere su un piano globale”; “un approccio comune che ci dia la possibilità di prevenire gli effetti collaterali delle misure protezionistiche adottate da Paesi terzi”. Approccio che von der Leyen non ha perso tempo a mettere nero su bianco, a costo di inaugurare quella che, facendo leva su un allentamento delle rigide maglie delle regole dell’Unione sugli aiuti di Stato, potrebbe evolversi in una corsa verso il “Buy European” e in un massiccio intervento pubblico nell’economia, anche attraverso fondi europei dalle non meglio precisate origini; sviluppi che, naturalmente, non entusiasmano il fronte settentrionale dei “frugali” e spaccano la stessa Commissione.
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Se all’apparenza il sereno tra Parigi e Berlino sembra tornato, le nuvole rimangono bene in vista, in particolare a causa della litigiosità di fondo di una Germania per la prima volta governata da una coalizione a tre teste (socialdemocratici, verdi e liberali), che a Bruxelles è sempre più vista come incapace di fare chiarezza al suo interno e di indicare la rotta. Prova ne sia la bocciatura di un “fondo per la sovranità industriale” arrivata, neppure 24 ore dopo l’intervento di von der Leyen, dal ministro delle Finanze di Berlino Christian Lindner. Il custode dell’ortodossia di bilancio tedesca e capo del Partito Liberale ha detto no allo schema, se questo vorrà dire nuovo debito comune, che è, per inciso, uno dei mantra francesi per sostenere le ambizioni dell’autonomia strategica nei settori critici. La Germania, tuttavia, non ha intenzione di indietreggiare nello stop a ogni ipotesi di mutualizzazione del debito finché non saranno prima assorbite tutte le risorse stanziate per la pandemia. E questo rappresenta forse la principale ragione di collisione tra Berlino e Parigi.
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Lo stesso percorso che ha condotto all’affondo congiunto contro gli Stati Uniti è stato tutt’altro che lineare. A sparigliare le carte, e a innescare una reazione infiammata da parte di Parigi e delle principali cancellerie d’Europa, era stato l’annuncio, a settembre, del maxi-scudo dal valore di (massimo) 200 miliardi di euro fino al 2024 che la Germania aveva messo sul tavolo come risposta alla crisi energetica: si tratta di misure in grado di calmierare i conti in bolletta per cittadini e imprese – di fatto applicando in patria un prezzo controllato per il gas, che invece in Europa veniva dagli stessi tedeschi avversato). Ad aumentare l’irritazione, infine, era arrivato pure l’ufficializzazione della visita in solitaria a Pechino del Cancelliere Olaf Scholz, primo leader europeo a recarsi da Xi Jinping dall’inizio della pandemia, oltretutto nelle settimane in cui prendeva corpo un’acquisizione di un terzo di un terminal del porto di Amburgo da parte del colosso della logistica cinese Cosco.
Sono questi i momenti di massima tensione, quando differenze di fondo sostanziali sul testo della dichiarazione finale (“mascherate” da problemi di agenda di vari esponenti di governo) finiscono per far saltare il Consiglio dei ministri congiunto che era in programma in Francia a Fontainebleau il 26 ottobre. L’incontro è stato parzialmente sostituito, all’ultimo, da un faccia a faccia Macron-Scholz e quindi, un mese dopo, dalla visita della premier francese Élisabeth Borne a Berlino da Scholz, a chiudere, perlomeno formalmente, la crisi tra i due partner. Superata, per ora, in nome di un accordo sulla condivisione degli approvvigionamenti energetici e della partnership tra Dassault Aviation e Airbus sul caccia da combattimento di sesta generazione. Parigi e Berlino hanno pure trovato una data di massima per (ri)mettere i governi attorno a un tavolo: la celebrazione delle nozze di diamante del Trattato dell’Eliseo, l’intesa che istituisce la cooperazione privilegiata nel cuore d’Europa, che il 22 gennaio prossimo compirà sessant’anni.
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“Il nostro obiettivo è serrare i ranghi in quelle aree in cui farci trovare disuniti renderebbe l’Europa più vulnerabile alle interferenze straniere. In questo senso, è fondamentale una cooperazione sempre più stretta tra Germania e Francia, che condividono la stessa visione di un’Unione Europea forte e sovrana”, è il proposito che Scholz ha affidato a stretto giro a un editoriale pubblicato da Foreign Affairs, riparando alla dimenticanza del discorso programmatico dell’Università di Praga, quando omise di citare il partenariato franco-tedesco. Dopo le ripetute battute d’arresto, occorre ribadire il senso del rapporto bilaterale privilegiato per scongiurare nuovi passi falsi.
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I terreni scivolosi non mancano. Su tutti, il tetto al prezzo del gas, misura sempre meno realistica, a giudicare dal livello del dibattito tra i Ventisette. La Francia non è assertiva sul “price cap” tanto quanto l’Italia, ma resta il fatto che gioca ancora di sponda con il nostro Paese su questo e almeno un altro paio di dossier chiave, e ciò nonostante il gelo dei rapporti con il governo italiano causato dalle nuove tensioni sul dossier immigrazione. Si tratta di temi dell’agenda economica rispetto ai quali l’immobilismo tedesco rimane inscalfibile, insieme all’eterno ritorno della strategia merkeliana del “kick the can down the road”, ossia al rinvio continuo sulle questioni più complesse: non solo la creazione di nuovo debito comune, sull’esempio di Next Generation EU, di cui si diceva prima, ma anche la riforma del Patto di stabilità e crescita che entrerà nel vivo a inizio 2023. Bruxelles ha proposto un metodo per individuare criteri di riduzione del debito non più uguali per tutti, ma concordati con gli Stati interessati che non convince il governo tedesco.
Parigi e Roma parlano in questo caso la stessa lingua, ma senza Berlino non c’è speranza di fare passi avanti, in special modo che, oltre alla congiuntura politica, è venuta pure meno quella temporale che aveva visto l’Italia protagonista tra l’emersione di Scholz dalle urne tedesche e il tuffo a capofitto di Macron in quelle francesi. Ricucita l’intesa con la Germania, è sulla Francia che grava il compito di smussare gli angoli della postura tedesca, coniugando la souveraineté européenne cara a Macron con la Zeitenwende, il cambiamento epocale teorizzato da Scholz. La politica industriale può dare un assist importante, ma è su una più ampia strategia politica per l’UE che c’è ancora molto da fare.