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La fase nuova della questione catalana

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Molti occhi erano puntati sulla Catalogna prima delle elezioni anticipate del 21 dicembre. Da Bruxelles, dopo che il campo indipendentista aveva tentato politicamente e poi anche fisicamente (con l’arrivo del fuggiasco Carles Puigdemont) di spostare la partita sul campo da gioco delle istituzioni europee. Da Madrid, dopo la decisione di sospendere l’autonomia della Catalogna mediante il dispositivo costituzionale dell’articolo 155, e di procedere senza sconti per via giudiziaria nei confronti dello stato maggiore indipendentista – ispiratore della strana e per molti versi vuota “proclamazione d’indipendenza” del 27 ottobre. E naturalmente dalla stessa Catalogna, dove la cittadinanza ha vissuto lo strappo con Madrid con un arcobaleno di stati d’animo, e il voto permetteva infine di esprimersi su eventi tanto traumatici.

Sì, traumatici: il voto certifica la ferita che attraversa la Catalogna, solidificando i contorni dei due blocchi di opinione già emersi negli ultimi anni. Da un lato quello favorevole all’indipendenza, costituito dal centrodestra di Insieme per la Catalogna, da Sinistra Repubblicana di Catalogna e dai radicali anticapitalisti delle Candidature di Unità Popolare raccoglie il 47,5% degli elettori (scendendo di un punto rispetto alle elezioni di due anni fa). Insieme, il partito dell’ex presidente della regione Puigdemont, è la forza più votata del gruppo, con il 21,7%. Dall’altro lato, quello contrario, “costituzionalista”, costituito da partiti presenti anche nel resto della Spagna: il Partido Popular del premier Mariano Rajoy, l’affiliazione catalana dei socialisti, e i liberali centralisti di Ciudadanos, fondati pochi anni fa dal barcellonese Albert Rivera e diventati ora il primo partito del gruppo (che in totale raccoglie il 43,7% dei voti) e della regione, con il 25,5%.

Ines Arrimadas e Carles Puigdemont

 

Per orientarsi all’interno di questo complesso pluripartitismo (all’olandese, o all’italiana, a seconda che se ne vogliano evidenziare i pregi o i difetti), vanno sottolineati due dati, a proposito di ognuno dei blocchi.

Il primo è che, nonostante cinque anni di mobilitazioni intense, continue e partecipate, il blocco indipendentista non è riuscito a conquistare la maggioranza dei voti. Però, il 47,5% è molto vicino al 48,7% ottenuto nel 2015: dunque, se si vuole rovesciare la questione, nonostante una strategia fallimentare (la Catalogna non è né indipendente né una repubblica, e la sua autonomia è nelle mani di Madrid), nonostante nessun Paese in Europa e nel mondo ne abbia appoggiato la causa (al contrario di quanto era stato garantito dai dirigenti separatisti), nonostante il trasferimento fuori dalla regione della sede di migliaia di imprese terrorizzate all’idea di restare fuori dall’eurozona, il blocco indipendentista ha perso solo pochi voti.

Non solo: al suo interno, si conferma maggioritaria la fazione di Insieme per la Catalogna (ex Partito Democratico Europeo Catalano, ex Convergenza di Catalogna). La guida un gruppo dirigente che prima in versione democristiana-moderata, raccolto attorno a Jordi Pujol dal 1980 al 2003, e ancora dopo la svolta liberale-indipendentista dal 2010 fino ad oggi con Artur Mas e Carles Puigdemont, ha sempre tenuto in mano governo e presidenza della Catalogna. E ha gestito con camaleontica abilità la narrativa politico-sociale del catalanismo, la “macchina dei sogni” indipendentista, della quale ha mantenuto in pugno il tono e il volume, a dispetto dei tanti errori, ma in conformità al motto andreottiano “Il potere logora chi non ce l’ha”. A Oriol Junqueras, leader di Sinistra Repubblicana di Catalogna, ex vice presidente della regione ora in carcere dopo la dichiarazione d’indipendenza, è stata attribuita svariate volte la capacità di compiere il sorpasso sugli alleati-rivali; ma altrettante volte il sorpasso non è riuscito a questo Godot della politica catalana, che ha probabilmente fallito il suo ultimo tentativo, fermandosi a 11mila voti di scarto.

Il secondo dato da tenere a mente è la vittoria di Ciudadanos all’interno del blocco costituzionalista. Quello del partito di Albert Rivera e della sua candidata Ines Arrimadas è un trionfo: i socialisti sono staccati di dodici punti (si fermano a un discreto 13,9) mentre i popolari affondano al 4,3%. E’ un risultato significativo per la Catalogna: l’offensiva indipendentista ha finito per favorire – tra i non indipendentisti – la forza più centralista e più fautrice della mano dura contro chi ha proclamato la repubblica; e anche la forza con i politici più giovani e che non hanno mai avuto esperienze di governo (certamente un plus, agli occhi dell’elettorato).

Ma è un risultato significativo anche per Madrid. Tanto per cominciare, perché la vittoria di Ciudadanos si specchia nel risultato non brillante della versione catalana di Podemos. Tra il muro contro muro di indipendentisti e costituzionalisti, Podemos sosteneva una difficile “terza via”: una profonda riforma della Costituzione che permettesse di risolvere il dissidio tra Spagna e Catalogna. Il partito di Pablo Iglesias e della sindaca di Barcellona Ada Colau è sceso però dal 9 al 7,5% dei voti, un dato negativo considerando che, alle elezioni nazionali, la Catalogna è uno dei suoi granai elettorali, e che la maggioranza al municipio barcellonese traballa.

Anche Mariano Rajoy non può dirsi soddisfatto: il sessantaduenne leader del PP e capo del governo assiste – apparentemente senza reagire – all’”adozione” di Ciudadanos da parte dei circoli di potere della capitale spagnola, da sempre punto di riferimento dei popolari. A Madrid, si vuole utilizzare la “destra dei belli”, i trentenni Rivera e Arrimadas, per affrettare la dipartita politica di Rajoy e della sua cerchia, considerati ormai incapaci di fare presa sull’elettorato e screditati per l’infinita serie di casi di corruzione, con una specie di “operazione Macron” in salsa castigliana.

Chi governerà la Catalogna, allora? Esattamente gli stessi di prima, nel caso. I due blocchi più o meno si equivalgono in termini di voti, e nessuno supera la maggioranza assoluta; tuttavia, la legge elettorale favorisce chi è più forte nelle zone poco popolate, ossia il blocco indipendentista, che fa man bassa di collegi nelle province interne. I costituzionalisti e Podemos si concentrano invece a Barcellona, nel suo hinterland, e lungo la parte più abitata della costa: una zona densamente popolata, ma geograficamente molto ristretta. Ne risulta che l’unica alleanza di governo possibile è quella, uguale all’uscente, tra Insieme per la Catalogna e Sinistra Repubblicana, con l’appoggio esterno dei quattro deputati della CUP. Totale: 70 voti su 135.

Difficile dire quale sarà il programma di una coalizione del genere, dato che l’indipendenza è di fatto fuori dai giochi, che sugli altri temi le tre forze sono molto divise, e che sui membri uscenti del governo pendono processi e carcerazione. Di certo, si dovranno gestire le trattative con Madrid per il ripristino dell’autonomia catalana e per la nuova forma che questa dovrà avere: trattative difficili considerando che Rajoy sarà incalzato a destra da Ciudadanos, con le elezioni che si avvicinano, mentre l’esecutivo catalano sarà condizionato dalla CUP, i radicali che parlano di mettere in pratica la repubblica e considerano l’articolo 155 un colpo di stato dell’Unione Europea. Per mantenere la coalizione coesa, la “macchina dei sogni” dovrà fare gli straordinari; e l’esule Puigdemont (se rientra in Spagna viene arrestato) avrà certamente un ruolo.

Questo risultato elettorale, in conclusione, non offre nessuno sbocco netto: non c’è il trionfo dell’indipendenza della Catalogna; non c’è la vendetta della Costituzione spagnola. Sta lì a ricordarci che la questione catalana non ha una soluzione facile né una via d’uscita univoca.

Ma un esito chiaro forse c’è, e si può ricavare anche da queste righe di interpretazione, non a caso tutte concentrate sul quadro interno: la questione catalana si “rispagnolizza”. Gli elettori hanno fatto un grande regalo all’Unione Europea, dimostrando essi stessi di non avere un orientamento definito su un tema per cui da più parti si chiedeva un intervento addirittura risolutore da Bruxelles, e su cui la distanza mantenuta dalle istituzioni europee, ferme nel loro sostegno allo stato spagnolo e alla dottrina della “questione interna”, era stata criticata come anti-democratica e pilatesca. La “patata bollente” sarà da maneggiare tra Barcellona e Madrid.