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Kamala Harris: un background plurale per un candidato di compromesso

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E’ stata scelta Detroit per il primo evento elettorale post-Convention di Kamala Harris. Il tema: la mobilitazione del voto nero e femminile in vista delle elezioni di novembre. La doppia scelta ha un significato piuttosto chiaro. Il Michigan è lo Stato dove nel 2016 Donald Trump ha vinto contro Hillary Clinton per soli 9mila voti. Allora venne a mancare proprio il voto afro-americano di una città come Detroit. I Democratici vogliono assolutamente evitare che accada di nuovo, e per questo viene ora mobilitata la candidata vice-presidente.

L’evento di Detroit svela una delle ragioni essenziali per cui la senatrice Harris è stata scelta da Joe Biden. Prima donna nera e prima asiatica-americana a entrare nel ticket presidenziale di uno dei due maggiori partiti, Harris è il simbolo della diversità etnica, razziale, di genere, che i Democratici vogliono incarnare. E’ al tempo stesso il riconoscimento di un calcolo molto semplice: senza il voto nero, e senza quello femminile, i democratici non possono battere Trump a novembre. La cosa è da tempo assodata: già a marzo Biden aveva annunciato che avrebbe scelto una donna come sua vice. L’omicidio di George Floyd e le proteste razziali di questi mesi hanno fatto propendere per una donna nera.

Detto questo, va però aggiunta una cosa. Il carattere etnico e di genere della scelta di Harris è certamente l’elemento più evidente di questa scelta, ma non è l’unico. Ci sono altre ragioni, altrettanto importanti, per cui Biden alla fine ha deciso di propendere per la senatrice della California. Ragioni che hanno a che fare con il passato di Kamala Harris, con il suo orientamento politico, con le qualità che questa ex-procuratrice distrettuale e poi Attorney General della California ha mostrato da quando, nel 2016, senza grande esperienza politica diretta, è diventata senatrice .

Una prima importante caratteristica di Harris riguarda proprio il suo passato di procuratrice. L’ha detto molto chiaramente Biden, presentandola il 12 agosto: “Kamala fa le domande giuste che vanno fatte e non si ferma sino a quando non ottiene una risposta”. Nei quattro anni di permanenza al Senato, nelle commissioni di cui ha fatto parte – soprattutto quelle Giustizia e Intelligence – Harris si è costruita una fama di inquisitrice dura e inflessibile, capace di mettere in seria difficoltà persino i politici più navigati. A farne le spese fu nel 2017 Jeff Sessions, allora Attorney General di Trump, finito davanti alla commissione Giustizia per i presunti legami della campagna elettorale del suo presidente con la Russia. Pressato dalle domande insistenti di Harris, Sessions sbottò: “Non sono capace di correre così tanto. Mi rende nervoso”.

Jeff Sessions interrogato da Kamala Harris

 

A subire il “trattamento Harris” sono stati anche il successore di Sessions, William Barr, e Brett Kavanaugh, nominato da Trump alla Corte Suprema: entrambi soggetti a un incalzare fitto di domande, battute, espressioni del viso con cui Harris affronta gli interlocutori. A Kavanaugh per esempio, oltre alle domande sul suo presunto passato di predatore sessuale, Harris ha rivolto questo quesito: “Conosce una qualsiasi legge che dia al governo il potere di prendere delle decisioni sul corpo di un uomo?” Lo stile di interrogatorio aggressivo – che le fa evitare lunghi preamboli politici, come fanno quasi tutti i colleghi senatori, per andare subito al sodo – le ha guadagnato stima e rispetto dei Democratici ma anche le critiche di molti tra i colleghi repubblicani. Lo scomparso John McCain – che sedeva con lei nella commissione Intelligence – le chiese un giorno, visibilmente seccato, di lasciar rispondere i testimoni. E Donald Trump, giocando come spesso fa con gli stereotipi di genere, l’ha definita “cattiva” (“nasty”) e “una pazza” (lo stesso appellativo “crazy” spesso attribuito a Nancy Pelosi) proprio per come aveva interrogato Kavanaugh.

Lei, Kamala Harris, ha sempre risposto alle critiche enfatizzando il suo status di neofita della politica, esterna alle prudenze paludate di Washington. “Sono nuova al Congresso degli Stati Uniti – ha detto una volta – ma è scioccante vedere come qui regni la totale mancanza di risultati e trasparenza”. Lo stesso Biden è stato, durante le primarie democratiche, bruciato dalla forza polemica di Harris: che ha rispolverato la storia di lei bambina, sui bus scolastici antisegregazione, per accusare Biden di antiche, presunte posizioni razziste. La rabbia, il dispiacere, l’indignazione per quell’attacco (soprattutto da parte della moglie di Biden, Jill) sono stati alla fine superati, nella speranza che Harris mostri la stessa capacità di torchiare Trump e Mike Pence in campagna elettorale.

L’aggressività da vecchia procuratrice distrettuale non può essere ovviamente qualità esclusiva. Un’elezione, soprattutto un’elezione presidenziale, non è una commissione del Senato né un’aula di tribunale, e Harris deve dimostrare di saper contemperare il carattere battagliero e l’acume dell’indagine con la capacità di offrire una narrazione personale e politica ricca e appassionata. Chi la conosce dice che, spenti i riflettori della politica di Washington, Harris può essere estremamente calda e partecipe delle vicende degli altri.

È noto per esempio il legame molto stretto e la fedeltà che la lega ai membri del suo staff. Quando, nel 2018, il suo portavoce Tyrone Gayle stava morendo per un tumore al colon, la senatrice mollò tutto a Wahington per passare le ultime ore di vita dell’amico in un ospedale di New York City. Un passo nella direzione di una narrazione più vivida e personale è venuta anche nel discorso della Convention, in cui Harris ha enfatizzato soprattutto il ruolo della madre nella sua formazione. La campagna presidenziale, inevitabilmente verrebbe da dire, potrebbe dunque portare a una maturazione del suo profilo politico.

C’è però un’altra ragione molto probabile che spiega la scelta di Kamala Harris come vice di Biden – una ragione che è stata un suo limite durante le primarie presidenziali ma che potrebbe diventare un vantaggio nei prossimi mesi. Kamala Harris è una politica senza un forte ancoraggio ideologico, senza temi particolarmente forti che ne caratterizzino l’azione.

Il suo background è ovviamente quello del diritto criminale e questa è anche la ragione per cui una parte della sinistra non ha visto di buon occhio la sua scelta. Il compito di un procuratore è del resto quello di indagare possibili crimini ed, eventualmente, mandare la gente in prigione. Kamala Harris lo ha fatto, non mettendo mai davvero in discussione l’operato della polizia californiana – una delle più violente del Paese – opponendosi per anni alla legalizzazione della marijuana (posizione che poi ha cambiato), arrivando anche a chiedere la criminalizzazione dei genitori i cui figli saltano la scuola (una misura che avrebbe colpito le comunità più povere).

Harris nel 2003, da District Attorney di San Francisco

 

Al tempo stesso, Harris si è sempre dichiarata contraria alla pena di morte – nel 2004, da procuratrice distrettuale a San Francisco, non chiese la condanna capitale per un ragazzo di 21 anni che aveva ucciso un agente di polizia, decisione che allora suscitò scalpore – e ha mostrato la capacità di saper evolvere con l’evolvere delle sensibilità (soprattutto all’interno del suo partito). Nel suo libro del 2009, Smart on Crime, scriveva che “se si dovessero contare per alzata di mano quelli che vogliono più polizia per le strade, la mia sarebbe sicuramente una di quelle che si alzano”. Quest’estate, dopo l’assassinio a Minneapolis di George Floyd, la senatrice diceva al New York Times che “è pensiero comune pensare che mettere più agenti per le strade crei più sicurezza. È sbagliato. Semplicemente, è sbagliato”.

La stessa indeterminatezza Harris ha mostrato in altre occasioni. Sulla riforma sanitaria, per esempio. Da senatrice, ha co-sponsorizzato il progetto di sanità universale di Bernie Sanders. Dopo essersi presentata candidata alle primarie, e dopo aver espresso posizioni piuttosto contrastanti, ha presentato un piano che avrebbe mantenuto il ruolo centrale delle compagnie di assicurazione. La questione dei cambiamenti climatici è un’altra su cui la candidata vice ha mostrato una certa vaghezza. Prima si è dichiarata a favore di un radicale Green New Deal, poi è stata la sola candidata di primo piano a non dare il via libera a un town-hall meeting organizzato da CNN sul tema. Ancora: dopo anni passati a difendere l’operato della polizia, Harris è stata co-sponsor, insieme al senatore Cory Booker, di un progetto di riforma della polizia duramente criticato dai sindacati di categoria. E negli ultimi mesi, sempre da senatrice, si è messa d’impegno per trasformare il linciaggio in un reato federale.

Kamala Harris è stata insomma capace, nel corso di una carriera politica ancora abbastanza breve, di incarnare il centro del Partito Democratico. Nel momento in cui questo, soprattutto su certi temi, si è spostato a sinistra, anche Harris si è spostata a sinistra. Questa sua scarsa capacità di caratterizzarsi politicamente è una delle ragioni per cui alla fine la sua candidatura a presidente, durante le primarie democratiche, non è mai davvero decollata (annunciò il suo ritiro ancor prima dell’inizio del voto, nel dicembre 2019, citando la scarsità dei finanziamenti raccolti).

Ma questo pragmatismo, che per alcuni potrebbe essere trasformismo, è anche ciò che alla fine ha convinto Biden. Kamala Harris porta al ticket democratico combattività, senza essere particolarmente ideologica. Porta la sua storia di figlia di immigrati – segnata da fatica, oppressione e voglia di rivincita – ma non smette un momento di incarnare l’establishment del partito. Proprio la capacità di interpretare diverse cose, la fa emergere oggi e la rende probabile candidata dei Democratici alle presidenziali del 2024. Ma questa è, davvero, un’altra storia.