Israele-Hamas: la guerra sul terreno e la guerra delle anime
Esistono momenti nella storia in cui l’odio e la sofferenza sono tali da impedirti di vivere e capire la tragedia che investe anche gli altri. Non hai più lo spazio emotivo per farlo. La guerra diventa così una guerra di anime. Con questo concetto molto semplice Yuval Noah Harari, uno dei grandi intellettuali israeliani, ha cercato di spiegare che Israele, colpito al cuore con indescrivibile brutalità da Hamas, oggi non può reagire da solo in modo razionale.
Sarebbe razionale, hanno fatto capire Joe Biden e una quantità di esperti americani, che Israele rinunci a lanciare una invasione di terra su larga scala. Perché i precedenti delle guerre urbane (Mosul nel 2016 ad esempio) insegnano che ciò significherebbe altre migliaia di morti da entrambe le parti. E perché non è chiara la strategia politica: chi governerà Gaza dopo l’eventuale sconfitta di Hamas? Si parla, come nel caso del Kossovo nel 1999, di una forza internazionale di protezione temporanea, che preparerebbe il ritorno di un’amministrazione palestinese che peraltro ha già dato pessima prova di sé in Cisgiordania con Mahmud Abbas. E’ uno scenario credibile?
Ma se questa è la domanda strategica, la realtà è più immediata. L’America, con una pressione evidente su Tel Aviv grazie alla leva del suo appoggio militare, è riuscita a guadagnare tempo, con il rinvio di una operazione di terra già annunciata: il tempo necessario per liberare alcuni ostaggi, grazie alla mediazione del Qatar, per inviare i primi aiuti umanitari, attraverso la cooperazione con l’Egitto, e per schierare nuove forze degli Stati Uniti con funzioni di deterrenza rispetto ai rischi di escalation regionale, anzitutto al fronte libanese con Hezbollah sostenuto dall’Iran. Il ritorno americano in Medio Oriente cambia anche la dinamica della guerra delle anime. Vedremo per quanto. E’ possibile che Israele decida un’operazione di terra limitata, con l’appoggio di una larga maggioranza della propria opinione pubblica.
Come ha chiarito un presidente americano che sarà anche vecchio ma sa ancora distinguere il torto dalla ragione, la difesa della democrazia israeliana coincide con la difesa tout court del mondo democratico, il nostro. Quali che siano stati gli errori di un governo Netanyahu destinato a cadere dopo la guerra, Israele ha tutto il diritto di difendersi militarmente (articolo 51 della Carta dell’ONU).
Il punto, continua Harari, è se Israele riuscirà a difendere la propria sicurezza senza perdere la sua umanità. E’ ciò che definirà il suo futuro, assieme alle sorti di una democrazia alquanto indebolita. Il conflitto fra Israele e Hamas è asimmetrico anche per questa ragione. Non solo perché si tratta del diritto all’esistenza di uno Stato contro un movimento terrorista armato che ha l’obiettivo di distruggerlo in quanto patria del popolo ebraico. È un conflitto asimmetrico perché chiediamo a Israele di avere standard di comportamento più alti, in linea con il diritto umanitario. E’ troppo tardi o può ancora esistere lo spazio per una risposta che non travolga del tutto una popolazione civile palestinese presa largamente in ostaggio, a sua volta, da Hamas?
Come ormai si dovrebbe avere capito, a Hamas non importa assolutamente niente della questione palestinese: la strumentalizza. Mentre l’Iran, appoggiando Hamas e Hezbollah, cerca soprattutto di evitare un riassetto della regione medio-orientale fondato sulla normalizzazione dei rapporti fra Israele e gli Stati arabi del Golfo Persico. La posta in gioco è questa, con il rischio di una deflagrazione regionale ai confini meridionali di un’Unione Europea che non ha ancora capito che ruolo giocare.
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L’Europa e il conflitto di Gaza: peso limitato, poche buone opzioni
E’ possibile vincere una guerra, se diventa una guerra di anime? Non è facile: ma l’accesso molto più sostanziale e rapido di aiuti di fronte alla drammatica crisi umanitaria di Gaza, bombardamenti mirati a obiettivi militari e raid terrestri contenuti, aiuterebbero Israele. Il compito degli europei, che non hanno niente da offrire quanto a deterrenza militare, sarebbe quello di fare capire ai palestinesi che esiste una prospettiva diversa dalla guerra, costruita sulle opportunità di sviluppo economico. Prospettiva in cui coinvolgere i regimi arabi moderati, che contano più di prima ma restano preda di una storica ambiguità. Gli americani, garanti della sicurezza di Tel Aviv, dovranno anche tornare a pensare a due Stati che possano convivere: è una condizione non eludibile per l’accordo regionale sponsorizzato da Washington.
La guerra di anime non riguarda solo Israele. E’ il riflesso sul Medio Oriente di un passaggio cruciale degli equilibri globali. Il vecchio ordine internazionale, a guida americana, consuma la sua crisi peggiore, ha di fronte una serie di sfidanti. E’ una partita che non possiamo e non dobbiamo dare per persa: finirà per coinvolgere, infatti, la tenuta stessa delle nostre società democratiche.
*Una versione di questo articolo è stata pubblicata su Repubblica del 24 ottobre