international analysis and commentary

Battaglie per l’Europa

Editoriale del numero 3-2023 di Aspenia

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Esistono due tesi sull’Europa di oggi – ed entrambe trovano spazio in questo numero di Aspenia. La prima è che l’Unione Europea esca rafforzata dall’età della policrisi, ossia dalla successione di shock che hanno investito il sistema internazionale dall’11 settembre del 2001 in poi. Trent’anni e più – attraverso la crisi finanziaria (e del debito sovrano) del 2008-2011, la pandemia del 2019-21 e infine il ritorno della guerra in Europa con l’aggressione russa all’Ucraina nel febbraio 2022 – di eventi traumatici. È la tesi che potremmo definire “monnettiana”: se è sempre stato vero che l’Europa si fa attraverso le crisi, l’età della policrisi ha permesso all’UE di capire che le sfide su cui concentrarsi richiedono una condivisione di sovranità anche in settori rimasti in mano agli Stati nazionali. La moneta e il mercato unico non bastano quando la geopolitica contagia l’economia.

 

C’è poi la tesi opposta, secondo cui tutto questo può anche essere vero ed è vero ad esempio che l’UE, dopo alcune esitazioni iniziali, ha gestito bene la crisi pandemica, fino alla decisione di varare il Next Generation EU. Ma la realtà è che l’Europa si muove troppo lentamente e con decisioni parziali, in un mondo che sta invece trasformandosi con una radicalità e rapidità senza precedenti. L’effetto a valle dell’età della policrisi non è il rafforzamento dell’UE; è il suo indebolimento. Perché – qualunque cosa abbia detto Monnet sul potere salvifico degli shock esterni – su materie cruciali per il futuro del vecchio continente gli europei restano divisi (le migrazioni sono solo la punta dell’iceberg), le percezioni continuano a divergere (cosa fare in futuro con la Russia, ad esempio) e riemerge dagli armadi un dibattito sul Patto di Stabilità che si fa molta fatica a non definire “antistorico”. Nel senso che sembra fuori dalla storia di oggi, con una guerra lacerante ai confini, discutere le regole fiscali di ieri.

Noi di Aspenia pensiamo che l’Europa rischi molto: la combinazione fra l’età della policrisi, la guerra tecnologica fra Stati Uniti e Cina, una geoeconomía in mutamento radicale e la guerra sul terreno con la Russia, imporrebbero una risposta più efficace sulle grandi sfide comuni: sicurezza, energia, migrazioni, politiche fiscali per sostenere una vera “capacità strategica”. Questo termine – “capacità strategica” – ci sembra più rilevante di quello usato dall’UE: “autonomia strategica aperta”, una formula che lascia molti margini di ambiguità (autonomia da chi?) e che assomiglia, senza gli strumenti per sostenerla, a uno slogan retorico. E la nostra impressione è che la guerra costringa in fondo a contenere le differenze, ma senza cancellarle davvero: quando la guerra lunga finirà, i contrasti nord-sud in materia fiscale (già riemersi dalle discussioni sulle scelte della Banca centrale e la revisione del Patto di Stabilità) e quelli est-ovest in materia di politica estera e perfino di stato di diritto torneranno in superficie, in forma più acuta.

Nel frattempo, la rottura con la Russia, diventata nei fatti junior partner di una Cina che Mosca non ama e non ha mai amato, ha contribuito alla crisi del modello industriale tedesco, cui si collega una parte rilevante della nostra economia: il nuovo pessimismo sulla Germania, che è in recessione tecnica e dove l’AfD è ormai il secondo partito nazionale, appare giustificato. I saggi pubbicati in questo volume (Beda Romano, Stefano Cingolani, Wolfang Münchau) lo confermano.

 

Sommario Aspenia 3-2023

 

La Francia di Macron non sta messa molto meglio, fra ambizioni sproporzionate all’esterno – “esposte” come mai prima dalla successione di colpi di Stato nel Sahel – e fragilità interne (si vedano i saggi di Gilles Gressani, che ricostruisce la visione del presidente francese sulla “sovranità europea” e di Marina Valensise). Il centro di gravità dell’UE si sta in parte spostando a est, verso una Polonia che l’Italia di Giorgia Meloni considerava un alleato certo per poi scoprire, nel suo nuovo europeismo pragmatico, che così non è. Perlomeno in campi – la gestione della politica migratoria – cruciali per noi.

Paradossalmente, il più importante governo “sovranista” dell’UE sta chiedendo più Europa (nel senso descritto da Mario Sechi), non meno. Il sovranismo serve a poco per governare le policrisi; serve a vincere le elezioni, certo, ma non a gestire le acque agitate di oggi. Perché, quando esiste la guerra, quando esistono flussi simili di migrazioni illegali, quando esistono un’inflazione non così facile da tenere sotto controllo e una recessione strisciante, quando si dipende dalla Cina per le tecnologie della transizione ecologica e dall’America per la sicurezza, ci vorrebbe un’Europa che funzioni sulla base di una sovranità “condivisa”. Non “ceduta” a Bruxelles; ma “condivisa” dagli Stati nazionali che si servono di istituzioni comuni. È il passaggio intellettuale da compiere: anche rifuggendo da una prospettiva federale (la tesi invece di Sergio Fabbrini, per quel riguarda il “core” europeo in un’Europa differenziata per cerchi concentrici), un’Unione di Stati nazionali ha bisogno, per funzionare, di sforzi congiunti e di investimenti comuni molto più rilevanti. Il tasso di competizione interna resterà; ma in un contesto cooperativo necessario e almeno in parte integrato.

Quindi eccoci qui: all’appuntamento dell’Europa con l’epoca in cui il mondo dei mercati piatti è finito, in cui la rivalità geopolitica condiziona la gestione dell’economia, in cui il multilateralismo non funziona, in cui la competizione tecnologica fra USA e Cina ci costringe a ridisegnare le catene globali del valore. Decadono parecchi degli assunti in cui l’Europa aveva creduto, a cominciare dalle virtù dell’interdipendenza; e il sistema internazionale, che si frammenta, è sempre più distante dal vecchio ideale kantiano degli europei.

Sicurezza ed economia si contagiano; ma è un gioco a cui l’Europa fa fatica a giocare, perché è priva degli strumenti per farlo. Sul piano della sicurezza, la guerra in Ucraina ha segnato nei fatti un’ulteriore americanizzazione del vecchio continente: la NATO, data per spacciata fino a pochi anni fa, è l’attore centrale. Sul piano tecnologico, l’Europa è in drammatico ritardo di investimenti: crediamo nella regole ma non basta. Il Green Deal può essere una buona idea, in teoria; ma senza capirne e valutarne costi e ripercussioni, è una scorciatoia verso la contestazione politica e sociale dei governi in carica.

Il mercato unico resta la grande forza comparativa dell’UE; ma se l’uscita dalla stagnazione sarà in larga parte affidata all’allentamento degli aiuti di Stato, anche il mercato interno finirà per frammentarsi. Il rapporto con gli Stati Uniti è un ancoraggio; ma l’Alleanza Atlantica non reggerà se agli accordi di sicurezza non verrà combinata, dopo l’Inflation Reduction Act, anche una gamba economica solida (di cui parla nel numero Eric Jones). E nei prossimi anni l’UE dovrà affrontare una doppia sfida: come allargarsi ancora senza disintegrarsi (cosa che richiede riforme interne e di bilancio sostanziali, come spiegano Carlo Bastasin, Ivan Vejvoda, Charles Grant e Heather Grabbe) e come gestire le sfide da sud e non solo da est.

Le policrisi sono finite? Purtroppo no. Deve finire l’idea che l’UE possa passare da una crisi all’altra senza farsi male.

 

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La discussione sull’Europa, che è alla vigilia di elezioni cruciali (giugno 2024) per definire le prossime maggioranze politiche, avviene in un contesto internazionale in cui il vecchio ordine a guida occidentale è contestato: da una potenza in declino come la Russia, da una grande potenza revisionista come la Cina (che però ha un modello di crescita in crisi) e da quello che viene definito il Sud globale. In realtà – questa è la tesi della seconda parte del numero – il Sud globale non esiste, è una finzione.

Grandi potenze in ascesa come l’India vedono nella Cina un avversario da contenere, più che un alleato da corteggiare (ne parla Pramit Pal Chaudhuri). E come dimostra il G20, l’India punta semmai a funzionare da “collegamento” fra il mondo del Sud e le democrazie occidentali. È interessante, anche per l’Italia, che sia stata lanciata l’idea di un nuovo corridoio economico fra India, Golfo, Mediterraneo ed Europa. Non è solo una alternativa alla Via della Seta, da cui Roma sta per uscire. È anche il segno della nuova centralità del Mediterraneo, visto in una dimensione ovest-est (dall’Atlantico verso l’Indopacifico) e non solo nord-sud.

Attori regionali importanti giocano le loro carte, contemporaneamente, su vari tavoli: sono le potenze di mezzo di un “mondo à la carte” (questa la descrizione del Financial Times, più immaginifica del G0 caro a Ian Bremmer). Sono paesi come la Turchia (dove la vittoria di Erdogan sta conducendo a scelte più pragmatiche da parte di un membro della NATO che compra armi dalla Russia e copre i buchi che abbiamo lasciato in Libia); il Brasile (tornato con Lula a una posizione a metà fra non-allineamento, inclinazioni pro-Putin e interesse al rapporto con gli Stati Uniti – ne scrive Michele Valensise); l’Arabia Saudita, che – almeno prima dell’attacco di Hamas – ha un accordo strategico in discussione con USA e Israele, mentre normalizza i rapporti con l’Iran e registra un aumento stellare del commercio con la Cina. Per Faisal Abbas, che analizza le scelte saudite in modo per noi controverso, è il riscatto internazionale di Bin Salman.

Il ministro degli Esteri indiano parla di pluri-allineamento, più che di classico non-allineamento, da parte degli attori regionali. Sono paesi che, di fronte alla dicotomia fra USA e Cina o fra Occidente e Russia, non ritengono di dovere scegliere una parte; ma di potere anzi muoversi con libertà negli spazi che esistono. Una delle conseguenze per noi? La “libertà” delle potenze di mezzo ha limitato l’impatto delle sanzioni alla Russia. Un impatto che c’è ma che per ora non basta a ridurre la capacità di Mosca di continuare la guerra, come si discute nel numero.

Il ruolo delle potenze di mezzo, tutte più o meno convinte dei limiti delle istituzioni plasmate dall’Occidente (vedi Paolo Guerrieri sul debito), condiziona così gli equilibri internazionali. Ma questo non significa che il “Sud globale” riuscirà a produrre, con l’allargamento dei BRICS a sei nuovi e disparati paesi (Argentina, Egitto, Etiopia, Iran, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti), un ordine internazionale alternativo a quello occidentale, dove persiste la forza finanziaria del dollaro e la supremazia militare degli Stati Uniti. Piuttosto, la riunione recente dei BRICS dimostra l’erosione parziale del vecchio ordine liberale e delle sue istituzioni. Siamo semmai nel “non ordine”.

Sul piano geopolitico, la fotografia che ne risulta è grosso modo questa: l’Occidente appare ricompattato ma anche ristretto, con un vantaggio netto degli Stati Uniti rispetto all’Europa (che ha perso ulteriormente competitività negli ultimi dieci anni, così come il Giappone, rispetto all’America); la Russia si è spostata verso la Cina, di cui è nei fatti è diventata uno Stato vassallo; la rivalità tecnologica fra Pechino e Washington è la forma che sta assumendo la guerra fredda 2.0 fra le potenze del secolo. Mentre il Golfo aumenta di importanza (energia e forza finanziaria), l’Africa saheliana vive una stagione di colpi di Stato, l’Argentina guarda di nuovo al dollaro, i paesi asiatici rafforzano i legami di sicurezza con gli Stati Uniti e quelli economici con la Cina. E fanno sentire la loro forza iniziale le tre grandi rivoluzioni di questo secolo: quella demografica (con il “baby bust” quasi dovunque, eccetto che in Africa subsahariana), quella tecnologica (con gli effetti dell’intelligenza artificiale e la balcanizzazione dell’internet) e quella energetica/climatica, con il suo impatto economico e sui flussi migratori.

Il risultato complessivo non sarà un “decoupling” fra le grandi economie mondiali, troppo costoso per tutti; ma, con il ritorno in forza degli Stati nella gestione delle economie, sarà una frammentazione in aree regolatorie e di influenza distinte, con un aumento del protezionismo e delle sanzioni occidentali. Di conseguenza, il concetto di un “Global South” contrapposto a un “Global West” è davvero insufficiente a cogliere la complessità del quadro in evoluzione.

In estrema sintesi: considerazioni di sicurezza nazionale si innestano ormai sulla teoria dei costi comparati che aveva dominato nell’età d’oro della globalizzazione, ormai finita. Se volete, Machiavelli ha in parte sostituito Ricardo.

 

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La sostituzione che sta avvenendo in Russia – la parte finale del numero – è circoscritta ma altrettante preoccupante per l’Europa. L’ex funzionario del KGB, Vladimir Putin, sta assumendo tratti neostaliniani (questo scrive per noi Alexander Baunov): resiste Nicola II, punto di riferimento delle nostalgie imperiali brutalmente proiettate sull’Ucraina, ma si aggiunge la stretta di una repressione interna che sembra sovietica, prima che russa.

Il rublo cade ma la Russia regge, grazie alla combinazione fra le dinamiche tipiche di un’economia di guerra (descritte da Antonella Scott) e l’aggiramento delle sanzioni. Non è una ricetta che possa permettere a Putin di modernizzare finalmente la Russia; ma il Cremlino ha la forza economica per continuare la guerra. E il calcolo di Mosca è che il tempo giochi a proprio favore, nella convinzione che il fronte occidentale finirà per sfaldarsi e che, con l’andare dei mesi, la maggiore “quantità” delle riserve a disposizione della Russia diventerà “qualità” sul campo di battaglia. Secondo Carlo Jean, Putin punta ormai su una guerra lunga: sia una vittoria sul campo che un negoziato appaiono improbabili. Il capo del Cremlino ha già perso la “sua” guerra iniziale ma Kyiv non può dire di averla vinta.

Sarà decisivo, specie dopo il caso Prigozhin, il ruolo delle forze armate russe, con tensioni evidenti fra l’esercito e i servizi di intelligence e con le faide fra generali cui stiamo assistendo dal febbraio del 2022. Siamo entrati in una fase di attrito, in cui l’Ucraina si avvale della superiorità tecnologica dei mezzi forniti dagli occidentali e conserva una superiorità motivazionale (il fattore “morale”, decisivo nelle guerre); mentre la Russia sfrutta le tre linee di difesa fortificate e minate messe a punto dal generale Surovikin, ormai epurato, e gestite oggi dal capo di Stato maggiore Gerasimov. Ciò che un Putin indebolito (per Carolina De Stefano) teme maggiormente è una rivolta dei militari, che si contrappongono al “cerchio magico” del Cremlino, fondato sul potere mafioso di oligarchi e servizi.

Ma questo basta a preconizzare la possibilità di un cambio di regime? Per Carlo Jean, la domanda è essenziale, visto lo stallo sul campo di battaglia e il dato sostanziale che artiglierie e missili non basteranno a riconquistare territorio. E fino a quando Putin resterà al potere, un armistizio di tipo coreano appare altrettanto improbabile in tempi brevi. Il capo del Cremlino si aggrappa alla guerra per mantenersi alla guida della Russia; scommette, in vista delle elezioni americane del 2024, che l’appoggio americano all’Ucraina si eroderà. Ma è una scommessa ad alto rischio: “obiettivo dei patrioti russi – osserva Jean – dovrebbe essere quello di evitare che la sconfitta di Putin diventi la sconfitta della Russia, cioè che Mosca si indebolisca al punto tale da diventare vassalla di Pechino”. Per Aspenia, questo esito si sta già consumando.

La geopolitica è tornata, scrivono i giornali e le riviste di mezzo mondo. Non è chiaro quando se ne fosse andata, al di là della retorica sulla “fine della storia” dopo la caduta dell’URSS. Il problema in Europa nasce molto di lì: la Russia non ha mai accettato di avere perso la guerra fredda, gli Stati Uniti hanno gestito il dopo-1989 come una vittoria – e la era. La guerra fredda non è mai finita davvero, Putin cerca di rifarsi in Ucraina con enormi tragedie e distruzioni. Ha già perso sul piano politico, qualunque sia l’esito finale sul terreno. E combatte, ormai è chiaro, un conflitto su due fronti: quello esterno e il fronte interno, accomunati dal ruolo chiave dei militari e dei servizi di sicurezza.

La Russia ha la febbre, l’Europa ha l’influenza: Mosca uscirà comunque perdente dalla guerra disastrosa in Ucraina, l’Europa ne subisce gli effetti. Per una trattativa di pace di cui non si vede nessuna premessa, dovrebbero essere studiate garanzie di sicurezza che gli ucraini ritengano credibili (solo l’America è in grado di darle, con una mutuazione del modello Israele) e che un nuovo governo russo possa accettare. Il che significa prevedere una qualche forma di compensazione per Mosca (lasciando aperto il futuro della Crimea, per esempio?).

Ma siamo molto lontani da tutto ciò: per ora conta che il sostegno occidentale tenga, sfilarsi dalla partita ucraina equivarrebbe a una resa anche dell’Europa e degli Stati Uniti, dopo la quantità di aiuti militari e finanziari impegnati. La posta in gioco è diventata troppo alta per tutti.