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Il voto 2024 come vero fronte interno dell’America

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Giocando sul titolo di un famoso romanzo possiamo dire che l’inizio della campagna elettorale per le presidenziali americane del 2024 non offre nessuna novità rispetto ai più probabili attori che resteranno in campo per la sfida finale del 5 novembre: Joe Biden e Donald Trump. Il libro citato e parafrasato è quello di Erich Maria Remarque, Niente di nuovo sul fronte occidentale, capolavoro pacifista sul dramma della Prima guerra mondiale, riportato sul grande schermo con ben quattro Oscar vinti nel 2022 da Edward Berger.

Il presidente USA Joe Biden

 

Una sensazione diffusa di crisi

Oltre alla similitudine letteraria usata per spiegare la stantia situazione politica americana, possiamo anche prenderne spunto per rappresentare l’atmosfera che si respira tra molti giovani americani in questo momento. Sensazioni come disillusione, percezione di ostilità da parte del resto del mondo, mancanza di speranza per un futuro migliore unita alla paura di piombare in un nuovo conflitto da un momento all’altro, stanno attanagliando la società americana nonostante un’economia pienamente in salute ed il record del tasso di occupazione ai massimi da cinquant’anni.

Tra le ragioni di questo “sentiment” c’è sicuramente la crisi del sogno americano. Già Barack Obama nel discorso sullo Stato dell’Unione del 2014 riconosceva che la mobilità sociale – vera garanzia di realizzazione del sogno americano – si era bloccata. Uno degli studi che dimostra le parole di Obama è quello dell’economista di Stanford Raj Chetty, pubblicato su Science nel 2017. Nella sua ricerca viene confutato l’assioma che la maggioranza dei figli degli americani avrebbero sempre goduto di redditi superiori a quelli dei propri genitori. L’autore infatti afferma che non vale più il tema dell’America come “land of opportunity”: i dati evidenziano come si sia passati dai due terzi delle persone nate negli anni ’40 che arrivavano a guadagnare più dei loro genitori al solo 50% delle persone nate negli anni ’80 che è riuscita a superare il reddito dei genitori. Inoltre, nel 2018, l’OCSE fotografava che in America sarebbero state necessarie in media cinque generazioni perché una famiglia povera fosse riuscita a raggiungere il livello della classe media.

Una pandemia e una globalizzazione sempre più esasperata non solo non ha fatto sconti nel paese capitalista per eccellenza, ma ha continuato a far aumentare le diseguaglianze anche negli ultimi anni, come ci mostra in maniera plastica la tendenza raccolta dall’Economy Policy Institute: oggi l’1% della popolazione americana più ricco guadagna 26 volte il reddito medio del restante 99% del paese, conquistando 1/5 di tutto il reddito nazionale, mentre prima degli anni ’80, quelli del liberismo reaganiano, l’1% più ricco della popolazione portava a casa meno di 1/10 di tutto il reddito nazionale.

Per di più si respira un clima di ingiustizia dilagante nel Paese per quanto riguarda la tassazione, così come pubblicamente denunciato dalla deputata Ocasio Cortez ai Met Gala con l’iconico vestito che riportava la dicitura “Tax the Rich”. Un sistema fiscale che tra sgravi, detrazioni e bassa tassazione dei redditi da capitale (20% invece del 37% dei redditi da lavoro), favorisce nelle tasse (qui l’inchiesta dei giornalisti di ProPublica nel 2021) e nelle effettive aliquote applicate, le grandi ricchezze rispetto ai redditi prodotti dall’americano medio.

Se il mito del raggiungimento della felicità va in frantumi (un sondaggio del Wall Street Journal lo scorso novembre rivelava come ormai solo il 36% degli americani crede nel sogno americano) si spezza il principale collante del Paese che per decenni ha placato tensioni e contraddizioni (in primis quelle di istruzione e sanità) del sistema stesso. Proprio su quest’ultimo punto, nonostante l’Obamacare abbia aumentato nel complesso la percentuale di persone con una polizza sanitaria (nel 2022 gli americani privi di copertura sanitaria sarebbero scesi a 28 milioni, ossia al 9% della popolazione complessiva residente nel Paese), non si è visto un netto miglioramento della situazione sanitaria tra i meno abbienti, e non solo.

 

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Viene dunque naturale chiedersi come un sistema sanitario che assorbe una quantità enorme di risorse non riesca a garantire un livello di assistenza sanitaria adeguato a coloro che hanno stipulato un’assicurazione sanitaria. Nel corso degli ultimi anni le logiche del profitto in campo sanitario hanno preso totalmente il sopravvento ed i costi ospedalieri, dei farmaci e delle polizze assicurative sono letteralmente esplosi, con percentuali di gran lunga superiori a quelli dell’inflazione.

Il famoso pediatra americano nonché professore di Harvard, Donald M. Berwick, nominato da Obama nel 2010 proprio per dare impulso alla sua riforma, a capo dei programmi di assistenza sanitaria pubblica Medicare e Medicaid, ha pubblicato lo scorso anno sul prestigioso Journal of the American Medical Association (JAMA), un articolo dal titolo emblematico: “Salve Lucrum: The Existential Threat of Greed in US Health Care”.

Nell’articolo si fa una spietata analisi di un sistema totalmente piegato al profitto e alle speculazioni. Quello che colpisce non è solo il livello di spesa sanitaria, che è di gran lunga la più costosa al mondo, ma il livello di crescita pro capite nel tempo: nel 2007 la spesa sanitaria pro-capite era di 7421 dollari, nel 2021 è arrivata a 12318 dollari, per una percentuale di PIL pari al 16,6%. Senza però che si notassero miglioramenti sostanziali nella salute pubblica: anzi, negli ultimi anni i dati sulla speranza di vita hanno segnalato un’involuzione davvero preoccupante. Gli Stati Uniti sono precipitati agli ultimi posti per aspettativa di vita tra i paesi OCSE: 76 anni in media, lo stesso livello del Messico, contro gli 83 dell’Italia o del Canada.

 

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Nel dettaglio dei costi si vede come siano aumentati nel corso degli ultimi anni le franchigie, la compartecipazione alla spesa e i costi delle polizze sanitarie, tanto da portare un numero significativo di americani a ritardare o rinunciare a cure e farmaci per i motivi economici o addirittura a indebitarsi in maniera significativa per curarsi.

Purtroppo la soluzione della “public option” nel campo assicurativo sanitario, vista tra l’altro dagli esperti come una delle poche carte per tentare di migliorare il sistema sanitario americano, non ha mai visto la luce. La creazione di un’assicurazione federale in grado di entrare in concorrenza con le polizze private per calmierare i prezzi, venne stralciata proprio dall’Affordable Care Act, perché le pressioni lobbistiche, nonostante un congresso a maggioranza democratica, stavano rischiando di far saltare tutta la riforma sanitaria, nel primo mandato di Obama, se si fosse inserito anche questo punto.

Ecco perché non bastano più un’economia forte e stipendi migliori rispetto al resto del mondo (ad esempio negli ultimi vent’anni gli stipendi medi USA sono cresciuti del 25%, contro il 17% della Germania), per tenere vivo il sogno americano.

 

Le primarie tra polarizzazione e leadership ingessate

Di sicuro un altro fattore della crisi americana è l’estrema polarizzazione politica che sta frantumando all’interno l’identità della superpotenza che ha condizionato il mondo per oltre un secolo. Tutto questo sta ingessando anche le leadership, visto che all’inizio del 2024 ci ritroviamo all’inedito di avere gli stessi due candidati di quattro anni prima che si contendono la guida della nazione, con ben 77 (Trump) e 81 anni (Biden) sulle spalle. Se a questo si aggiunge che una parte importante del paese capitanata da Trump non ha mai riconosciuto la sconfitta del 2020, quello che vacilla è la qualità stessa del processo democratico.

Non c’è quindi da stupirsi che questo mix porti nel Paese da una parte molto disincanto e distacco (soprattutto in campo democratico) e dall’altra parte in campo repubblicano veicoli rabbia e voglia di rivalsa – incarnata nell’ormai celebre slogan dell’ex presidente “Make America Great Again”.

In campo democratico, la scelta di ricandidare e sostenere il presidente ultraottantenne è stata di fatto obbligata. La mancanza di coraggio tra gli esponenti del partito ed i rischi di un salto nel buio per individuare un vero candidato alternativo hanno di fatto reso impossibile la messa in discussione della candidatura di Biden –gli altri candidati delle primarie democratiche sono soltanto simbolici, sconosciuti alla quasi totalità degli americani, come la scrittrice e attivista Marianne Williamson (tra l’altro appena ritirata dalle primarie) e Dean Phillips, rappresentante democratico del Minnesota alla Camera.

Di questi ultimi sfidanti del Presidente si è parlato solo perché uno dei due, Dean Philips, in New Hampshire ha usato impropriamente l’intelligenza artificiale di ChatGpt tramite un Bot per farsi sostituire nelle conversazioni in tempo reale con gli elettori. Ed anche se il CEO della società Sam Altamn ha subito bannato questo Bot dalla sua piattaforma, grazie a Philips si è aperto anche un altro dei temi caldi di questa campagna elettorale: l’uso dell’intelligenza artificiale in politica.

Per quanto la partita possa sembrare del tutto chiusa, il recente tentativo di autocandidatura della poco amata vicepresidente Kamala Harris, fa capire come le dichiarazioni del procuratore Robert Hur su un Biden come “uomo anziano e con problemi di memoria”, abbiano innescato però delle fibrillazioni all’interno del Partito Democratico con esiti del tutto imprevedibili da qui alla Convention di Chicago di agosto, se non addirittura dopo.

Altra questione spinosa per il presidente, l’opposizione interna al sostegno offerto a Israele nella guerra di Gaza. Oltre alle sempre più frequenti contestazioni durante i comizi di Biden, a partire da quella avvenuta a Gennaio nella chiesa di Charleston, in Carolina del Sud, nelle primarie democratiche del 27 febbraio in Michigan, uno stato fondamentale per le elezioni di novembre, è sorta una nuova forma di protesta: il voto uncommitted (scheda bianca). Oltre 100 mila elettori democratici (quasi il 14% del campione totale dei votanti) hanno voluto dare con questa presa di posizione – esibendo cartelli con i colori della bandiera palestinese – un segnale forte e chiaro.

Dal lato repubblicano, per mesi abbiamo assistito a tutt’altra situazione con svariati lanci di candidature e un infinito teatro dell’assurdo di dibatti televisivi tra candidati più o meno improbabili (Haley, DeSantis, Hutchinson, Ramaswamy, Christie, Burgum, Scott, Pence) senza voler comprendere da parte di questi o tenere in considerazione che il Partito Repubblicano nel 2016 si è trasformato nel Partito di Donald Trump.

E infatti, la presenza del vero candidato in pectore repubblicano alla presidenza è arrivata come un ciclone lo scorso 15 gennaio nel primo passaggio delle primarie con il caucus in Iowa e  la settimana successiva con le primarie in New Hampshire. Sono bastate queste due tappe per spazzare via tutti i pretendenti salvo l’ex ambasciatrice all’ONU Nikky Haley, l’unica al momento a non essersi ritirata dalla corsa alla nomination repubblicana (tralasciando il velleitario pastore Ryan Binkley).

Questo può essere l’unico elemento di novità. Infatti, per molti osservatori la partita si sarebbe dovuta già chiudere in New Hampshire davanti al consenso e alla forza di Trump nella base repubblicana, ma la Haley nonostante i grandi distacchi ha deciso di continuare a rimanere della partita e a raccogliere delegati.

Donald Trump

 

Dunque, quello che per i più potrebbe essere considerato un tentativo velleitario, in realtà davanti a tutti i guai giudiziari e all’età anagrafica di Trump, potrebbe essere qualcosa in più di un’insidiosa ruota di scorta del Partito Repubblicano – come fa sospettare tra l’altro la reazione adirata e fin troppo aggressiva dello stesso ex presidente alla decisione di Haley.

Per comprendere se nell’azzardo possa esserci qualche vera chance per la ex Governatrice della Carolina del Sud bisogna aspettare il Super Tuesday : il 5 marzo, giorno in cui andranno al voto diciassette Stati contemporaneamente, tra cui Texas, California e Virginia.

 

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Sul fronte giudiziario, il 28 febbraio la Corte Suprema Federale ha accettato di esaminare la richiesta di Trump di riconoscimento dell’immunità penale nel processo federale che lo vede accusato dal procuratore speciale Jack Smith di aver cercato di sovvertire il risultato delle elezioni presidenziali del 2020. Il massimo tribunale americano inizierà ad esaminare il caso il prossimo 22 aprile e probabilmente la decisione non arriverà prima di luglio – dunque l’eventuale processo non potrà partire prima di quella data: Trump potrà così affrontare mesi cruciali di campagna elettorale senza questo pesante macigno giudiziario.

Intanto si resta in attesa di un’altra pronuncia della Corte Suprema Federale, stavolta sull’appello presentato da Trump contro la decisione della Corte Suprema del Colorado di dichiararlo “ineleggibile” in quello Stato in base alla sezione 3 del 14° emendamento della Costituzione.

In questo emendamento, anche se non viene citata espressamente la figura del “Presidente”, si afferma che nessuno può assumere un incarico di governo statale o federale se “abbia preso parte a un’insurrezione o ribellione contro di essi o abbia dato aiuto o sostegno ai loro nemici. Ma il Congresso può, col voto dei due terzi di ciascuna Camera, rimuovere questa causa di interdizione”.

All’origine dell’elaborazione di questo dettato costituzionale, che risale al 1868, c’era la volontà di escludere da incarichi pubblici i politici del Sud che avevano tentato la secessione durante la guerra civile americana: i giudici di Washington devono ora decidere se è applicabile alle responsabilità di Trump nell’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021.

Nonostante sia possibile prevedere una decisione favorevole da parte di una Corte in cui la maggioranza dei membri – in effetti – è di nomina repubblicana (e ben tre su nove sono stati scelti proprio da lui), il nervosismo di Trump è abbastanza evidente perché sa che l’incidente per la sua campagna può essere dietro l’angolo, e sicuramente la permanenza imprevista di Nikki Haley nella corsa delle primarie repubblicane non lo rende più sereno. Non tanto perché possa vincerle – è praticamente impossibile – ma perché può catalizzare intorno alla sua figura il dissenso di quei repubblicani che non vogliono votare Trump. Sono pochi, ma in un’elezione che si deciderà voto a voto in molti stati decisivi, sono importanti. E infatti, nella sua retorica di fuoco che non risparmia nemmeno l’aspetto fisico o il vestiario dell’avversaria, Trump ormai definisce Haley un agente dei democratici.

In un clima in cui l’ex presidente ritiene tuttora che l’elezione del 2020 gli sia stata ‘rubata’ dai Democratici, non riconoscendo mai la sconfitta e il risultato delle urne, la presenza di una sfidante nel suo stesso partito non può essere proprio tollerato.

Di certo siamo in un momento storico intriso di mancate legittimazioni politiche, in cui è sempre possibile un corto circuito tra poteri dello Stato, unito al sentimento diffuso di un Paese dilaniato da apatia, rabbia e divisioni. Tutto ciò rende queste elezioni presidenziali il più importante banco di prova sulla tenuta della democrazia liberale nella principale nazione dell’Occidente.