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Il ‘tour de France’ di Macron per riconquistare l‘Eliseo

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Sbaglierebbe chi volesse utilizzare la metafora di una corsa veloce, magari i 100 metri piani, per descrivere le presidenziali francesi, il cui primo turno si terrà il 10 aprile. Sarebbe molto più adatta l’immagine di una caotica corsa ciclistica, con un peloton pieno di gregari e velocisti, scalatori e semplici portatori d’acqua, da cui potrebbe sì staccarsi in volata il favorito, l’uscente Emmanuel Macron, ma anche un corridore meno atteso, però capace di muoversi al momento giusto.

Finora il gruppone è davvero consistente: sono decine i politici che hanno ufficializzato la candidatura, sia a sinistra che a destra. Da un lato questa è la prova delle difficoltà politiche di Macron, di certo non aiutato dallo sbarco della variante omicron sulla campagna elettorale: “Les non-vaccinés, j’ai très envie de les emmerder” (“a chi non si vaccina, ho proprio voglia di rompere i c…”), ha dichiarato il presidente al rientro dalle vacanze invernali, specificando di “litigare ogni giorno con i burocrati che invece si divertono a rompere i c… a tutti francesi con le restrizioni. Chi invece abusa della sua libertà non merita nemmeno di essere un cittadino”.

Mentre il parlamento approvava il green pass vaccinale a grande maggioranza ma tra le critiche dei giuristi (“discriminatorio e arbitrario”), il presidente ha cercato una sorta di auto-assoluzione dalle responsabilità delle scelte politiche di prevenzione della pandemia, ovvero: se c’è ancora il covid prendetevela coi no-vax. A questa palese ricerca di una maggiore sintonia con il sentire comune, l’opinione pubblica ha risposto, nei giorni successivi, facendo registrare picchi di insoddisfazione, seguiti da un grande (e riuscito) sciopero degli insegnanti contro i continui cambiamenti dei protocolli sanitari. Vista l’aria, Macron ha dunque deciso di rinviare l’annuncio ufficiale della propria ricandidatura, preferendo lasciare il palcoscenico ai propri avversari.

 

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Non è detto che si tratti della scelta sbagliata. E’ infatti proprio l’enorme numero di candidati l’asso nella manica di Macron. A destra Marine Le Pen era impegnata da lunghi mesi in un riposizionamento politico-culturale mirato a farla apparire come la vera erede nient’altro che di Charles de Gaulle, quando le è esplosa tra le mani la discesa in campo di Eric Zemmour. Iperattivo su carta e su schermo con le proprie tesi spesso islamofobe, il discusso giornalista incarna fin dalla propria origine ebraico-algerina le contraddizioni e i dissidi di stampo identitario attorno ai quali si accapiglia da decenni la società francese, soprattutto nella sua rappresentazione mediatica.

I nomi scelti per i rispettivi partiti rivelano bene le visioni politiche dei due candidati: se Marine Le Pen con il suo “Rassemblement National” tentava di seppellire l’ascia di guerra proponendo la riunificazione, il raggruppamento, la riunione di una Francia divisa, Zemmour con la sua “Reconquête!” chiama invece alla mobilitazione, riaccende la miccia della guerra culturale, sprona appunto alla riconquista (con tanto di punto esclamativo) di una Francia perduta. La Reconquista spagnola che tolse la penisola iberica al dominio arabo non è un riferimento puramente casuale: l’immigrazione nordafricana di matrice islamica, accusata di “radicalizzazione sterminatrice”, è l’obiettivo numero uno di Zemmour. L’effetto sull’elettorato della destra è stato tale da rosicchiare – secondo i sondaggi – alla Le Pen metà dei suoi voti, anche perché Zemmour è un polemista nato e ogni sua dichiarazione scatena reazioni, litigi, contestazioni; il suo ultimo libro, “La Francia non ha ancora detto l’ultima parola”, ha venduto 250mila copie in poche settimane. Il 17 gennaio, Zemmour è stato condannato per incitazione all’odio e alla violenza dal tribunale di Parigi per aver definito i minorenni stranieri “ladri, stupratori e assassini” in un’intervista del novembre 2020.

Marine Le Pen e Eric Zemmour

 

In attesa di capire se la Francia per colpa degli immigrati farà davvero la fine del Kosovo, come dice Zemmour, Macron si gode il lato positivo della sua ascesa, cioè l’indebolimento decisivo di un’avversaria temibile: Marine Le Pen era arrivata al ballottaggio nel 2017, quando Macron però l’aveva battuta con il 66,1% dei voti, ma nel 2019 alle elezioni europee il suo partito aveva superato quello del presidente, risultando la forza più votata. Tripla buona notizia per Macron: la competizione nella destra radicale rovinerà la conversione “gaullista” di Marine, spingerà Zemmour e Le Pen a duellare su posizioni estremiste, e se uno dei due dovesse arrivare al ballottaggio sarà impossibile che l’opinione pubblica di destra moderata, centro o sinistra lo voti, cosa che peserà in favore del presidente uscente in maniera determinante.

Quale occasione migliore per la malconcia sinistra francese per sfruttare le difficoltà di Macron e l’insperata spaccatura nell’estrema destra e tornare a contare qualcosa nel sistema politico nazionale? E invece, specialità della casa, la sinistra non si è divisa tra due candidati, ma tra nove. C’è il radicale Jean-Luc Mélenchon, alla terza candidatura (nel 2017 ottenne il 19,6% al primo turno), che è sceso nella pugna identitaria abbracciando lo stendardo della “creolizzazione” della Francia: né assimilazione francese né sostituzione etnica, ma mescolanza tra culture. C’è Yannick Jadot, capolista di Europa-Ecologia-Verdi che alle Europee del 2019 ha ottenuto il 13%, ma che ha vinto le primarie del suo partito solo per un pugno di voti. C’è Fabien Roussel, segretario nazionale dell’antico Partito Comunista. C’è Anne Hidalgo, la sindaca di Parigi, per i socialisti che con lei volevano tentare la rinascita. C’è Christiane Taubira, ministra della Giustizia durante la presidenza Hollande (2012-17) e relatrice della legge sui matrimoni e adozioni per coppie dello stesso sesso. C’è Arnaud Montebourg, ex stella del centro-sinistra eclissata da Macron, ex ministro dell’Economia che si era ritirato a produrre miele, mandorle e gelati bio. Ci sono Philippe Poutou e Nathalie Arthaud, rispettivamente del Nuovo Partito Anticapitalista e di Lotta Operaia, che alle presidenziali degli scorsi anni, sommati, hanno ottenuto quasi il 2%, a cui si affianca anche Anasse Kazib, ferroviere 35enne a capo della scissione della Corrente Comunista Rivoluzionaria che ha spaccato il Nuovo Partito Anticapitalista.

La sinistra francese, così, non uscirà dalla condizione di zombie in cui è precipitata dalla fine del disastroso mandato di François Hollande. Alcuni elettori volenterosi hanno organizzato delle primarie online aperte a tutti, in cui si invitano i partecipanti a dare i voti ai candidati progressisti su varie materie (ecologia, giustizia sociale…) per selezionare quello o quella che potrebbe sintetizzare meglio le posizioni dell’elettorato. Si sono iscritte 250mila persone (si voterà su tre giorni alla fine di gennaio) e gli organizzatori hanno chiesto ai candidati di ritirarsi per sostenere il vincitore, dopo il voto. I candidati hanno detto che partecipano con piacere, ma che di ritirarsi se perdono (a parte Christiane Taubira che ha accettato) non se ne parla.

Jean-Luc Mélenchon, Anne Hidalgo, Fabien Roussel e Yannick Jadot

 

Davanti alla spaccatura dell’estrema destra e alla polverizzazione della sinistra, Macron ha un’altra buona carta da giocare: il semestre di presidenza dell’Unione Europea (gennaio-giugno 2022). Certo, l’inizio non è stato dei migliori, con la polemica sulla bandiera dell’UE esposta su un simbolo francese come l’Arco di Trionfo – e ritirata, dopo grandi contestazioni. Ma Macron disporrà di un palcoscenico significativo per mostrarsi come l’unico uomo di stato capace di volare alto, sopra i battibecchi da cortile della politica nazionale.

Il 20-25% dei voti su cui il presidente uscente sembra poter contare sono sufficienti a vincere il primo turno. Ma c’è un’eventualità che potrebbe complicargli il secondo: un buon risultato della candidatura di Valérie Pécresse. E‘ la presidente, riconfermata, della regione ÎledeFrance, quella della capitale – con 12 milioni di abitanti, un ottimo serbatoio di voti. Ha vinto le primarie dei Repubblicani, l’ultima etichetta di quell’UMP che fu la casa di Jacques Chirac, Alain Juppé e Nicolas Sarkozy, e resta una formazione capace di mantenere continuità politica, organizzativa e amministrativa.

Valérie Pécresse con Emmanuel Macron

 

Pécresse vanta un curriculum di tutto rispetto come assistente di Jacques Chirac e ministra dell’Istruzione e dell’Università nei governi di François Fillon (2007-2011), ma non ha mai affrontato da sola una campagna nazionale: deve costruire un profilo riconoscibile, in linea con le parole d’ordine classiche della destra francese, laica, pro-impresa, fautrice delle riduzione della spesa pubblica, e centrata sull’identità nazionale. E ha intenzione di martellare sul tema della “sicurezza” – “voglio ripulire le banlieue ormai preda dei nuovi barbari”, ha dichiarato riecheggiando la promessa di Sarkozy di farlo “con l’idropulitrice”, che gli fece vincere le elezioni del 2007. “E ci vogliono 20mila posti in più nelle carceri”, ha aggiunto.

Poco importa che sulle banlieue parigine Pécresse governi fin dal 2015, appunto come presidente della regione: per affermare il suo profilo, deve trovare una formula narrativa che non la faccia apparire troppo appiattita né su Emmanuel Macron, né su Zemmour o Le Pen. D’altronde nel quadro di una campagna identitaria in cui i temi economico-sociali sono messi da parte promettere il pugno duro sui “quartieri sensibili” è una scelta win-win: da un lato piace a destra; dall’altro, il voto delle periferie, che nel 2012 premiò massicciamente il Partito Socialista proprio in reazione alle famigerate operazioni di polizia condotte nel quinquennato di Sakozy, fino a rivelarsi decisivo nella vittoria di misura di Hollande contro quest’ultimo, stavolta finirà disperso tra i nove candidati o nell’astensione.

Se l’operazione non riuscisse, Pécresse finirebbe schiacciata tra i corridori già lanciati, che conserverebbero il monopolio dell’agenda della campagna elettorale. Ma se riuscisse, la sua presenza al ballottaggio potrebbe calamitare i voti dei tanti che esprimono un forte desiderio di cambiamento: oltre il 70%, secondo i sondaggi; e l’astensione di quasi sette francesi su dieci alle regionali del giugno 2021 (a tutto danno di Macron e Le Pen) conferma il dato. In un eventuale ballottaggio, la candidata dei Repubblicani potrebbe anche attirare le preferenze di parte dei sostenitori dell’estrema destra, ben contenti di sbarazzarsi dell’odiato mondialista simbolo delle élite europee – almeno così lo vedono loro – Emmanuel Macron. “Uomo di chiacchiere ma senza autorità”, lo ha definito Pécresse.

 

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Il presidente uscente potrebbe centrare la rielezione, cosa che nella Quinta Repubblica è riuscita già a Charles de Gaulle, François Mitterrand e Jacques Chirac. Ma dovrà affrontare una campagna elettorale molto spinosa se condotta sul suo stesso campo: rispondere alle critiche sul tema della sicurezza, oppure sull’indebitamento e sullo statalismo (Pécresse ha promesso di tagliare 200mila dipendenti pubblici) non è facile come liquidare l’estremismo di Zemmour e Le Pen o mettere in ridicolo le divisioni della sinistra.