Il senso della “dual circulation strategy”
Il piano economico della Cina post-pandemia si fonda su alcuni elementi ormai consolidati della politica economica cinese dell’ultimo decennio, ribaditi alla luce dell’evoluzione del contesto economico e politico internazionale determinata dalla crisi pandemica. In particolare, Xi Jinping si propone di affrontare tre nodi strutturali che, già presenti in passato, hanno assunto oggi una centralità ancora maggiore. Si tratta della transizione da un modello di sviluppo che fonda la crescita economica sulla quantità a uno rivolto alla qualità, della gestione dei rischi interni ed esterni che Pechino si trova ad affrontare e dell’equilibrio tra la crescita nel breve termine e un ribilanciamento strutturale dei fondamenti dell’economia cinese.
La risposta di Xi a questi interrogativi prende il nome di dual circulation strategy ed è l’architrave del XIV Piano quinquennale che sarà approvato in occasione delle sessioni plenarie dell’Assemblea nazionale del Popolo e della Conferenza politico-consultiva del popolo cinese – le cosiddette “Due Sessioni” – del marzo 2021.
LA TRAIETTORIA DELL’ECONOMIA CINESE VERSO IL “NEW NORMAL”. Procedendo con ordine, è opportuno ricordare la traiettoria della politica economica cinese negli ultimi decenni. La graduale transizione al mercato avviata nel 1978 aveva avuto come sbocco principale l’esportazione di beni resi competitivi dall’abbondanza di forza lavoro a basso costo. Tale modello fu ulteriormente rafforzato dall’ingresso della Cina nel WTO nel 2001, un’adesione che consentì la piena integrazione delle fabbriche cinesi nelle catene globali del valore.
Questo paradigma entrò in crisi con la crisi finanziaria del 2008, che ridusse la domanda internazionale su cui la Cina faceva affidamento per ottenere tassi di crescita del pil a doppia cifra. Come reazione, il governo di Pechino adottò uno stimolo fiscale del valore di 4.000 miliardi di renminbi, che riuscì a compensare il calo delle esportazioni grazie a investimenti pubblici soprattutto nei settori delle infrastrutture e delle costruzioni.
Tuttavia, il prezzo da pagare fu l’esplosione dell’indebitamento e il manifestarsi di una grave crisi di sovraccapacità industriale proprio in quei settori che avevano beneficiato degli investimenti. Nei primi anni della sua leadership, dunque, Xi Jinping si trovò ad affrontare una situazione economica caratterizzata dal rallentamento del tasso di crescita del pil, da un minore spazio di manovra per eventuali altri stimoli fiscali e dalla necessità di ridurre la dipendenza della crescita economica da una domanda internazionale volatile, soprattutto nel contesto incerto degli anni post crisi finanziaria.
La risposta del governo cinese fu quella, nel novembre 2014, di puntare su un new normal, ovvero un nuovo modello di sviluppo che per essere sostenibile doveva avere come stelle polari meno quantità e più qualità, riducendo la dipendenza dalle esportazioni e dagli investimenti in favore del consumo interno e di un rafforzamento del settore dei servizi. Ne derivava la minore enfasi sul target di crescita annuale del pil, che cominciò a diventare flessibile e non più unico parametro di valutazione dello stato dell’economia cinese. Contestualmente, la promozione di una maggiore qualità nella produzione industriale prese la forma nel 2015 del piano “Made in China 2025”. Inizialmente ispirato all’Industrie 4.0 tedesco, il piano venne concepito con un orizzonte più ampio della sola integrazione dei sistemi cibernetici nei processi produttivi, vale a dire il cuore della cosiddetta “quarta rivoluzione industriale”, con l’ambizione di trasformare l’intero tessuto industriale cinese entro il 2025.
IL PIANO MADE IN CHINA 2025″ E LE REAZIONI INTERNAZIONALI. Il piano si rivolge in particolare a dieci settori strategici nei quali la Cina si prefigge l’obiettivo di diventare leader tecnologico mondiale in più fasi tra il 2025 e il 2049, quando Pechino potrà celebrare il centenario della fondazione della Repubblica popolare cinese e dichiarare di aver raggiunto finalmente la piena modernità, dopo un lungo percorso cominciato con le guerre dell’oppio nel xix secolo e passato attraverso la rivoluzione comunista e le riforme economiche.
Agli occhi degli osservatori internazionali, il piano “Made in China 2025” ha rappresentato, invece, la dimostrazione della volontà di Pechino di competere per il primato tecnologico mondiale – fino a quel momento indiscutibilmente occidentale – e dunque per quello economico sul medio-lungo periodo. Le reazioni internazionali non si sono fatte attendere, soprattutto fra i paesi di grande tradizione manifatturiera. Tra tutti, la Germania ha giocato un ruolo decisivo dopo che il boom degli investimenti cinesi all’estero – con un picco nel biennio 2015-2016 – era sfociato nell’acquisizione da parte del gruppo Midea del campione tedesco della robotica Kuka. L’onda delle critiche in Europa alle acquisizioni cinesi nei settori tecnologici cominciò a montare a inizio 2017 con una lettera di Francia, Italia e Germania alla Commissione europea per richiedere un meccanismo di screening per gli investimenti in entrata, e culminò nel 2019 con la definizione della Cina come “rivale sistemico”, suggerita dalla Confindustria tedesca e fatta propria dalla Commissione europea.
Sull’altra sponda dell’Atlantico, il piano “Made in China 2025” entrò nel mirino di Trump con la guerra commerciale dichiarata nel marzo 2018. I settori maggiormente colpiti dalle restrizioni, infatti, erano proprio quelli coinvolti dal piano di riqualificazione industriale. La conseguenza fu, nei fatti, la scomparsa di ogni riferimento al piano nei discorsi ufficiali dei leader cinesi, ma non la messa in discussione dei suoi assunti principali.
Infine, se il new normal e “Made in China 2025” rappresentano le soluzioni ai problemi della crescita qualitativa, la China International Import Expo di Shanghai – inaugurata per la prima volta nel 2018 – è il simbolo della volontà cinese di rafforzare i consumi interni, promuovendo un evento teso a favorire le importazioni di prodotti di alto livello in contraddizione con l’immagine consolidata della Cina come “fabbrica del mondo”.
LA PANDEMIA E LA DUAL CIRCULATION STRATEGY. Questa lunga premessa risulta necessaria per capire il senso delle scelte di politica economica di Xi Jinping dopo la pandemia. Come anticipato, il concetto chiave è quello della dual circulation strategy, ovvero una rappresentazione dell’economia cinese come prodotto dell’interazione di due dimensioni: la circolazione esterna – l’interscambio e il flusso di capitali in entrata e in uscita – e la circolazione interna – i consumi domestici e la qualità della produzione. Secondo tale interpretazione, nei primi decenni dall’avvio delle riforme economiche Pechino aveva fatto affidamento soprattutto sulla circolazione esterna – produzione a basso costo orientata all’export – mentre ora sarebbe il momento di dare maggiore peso alla circolazione interna, dunque consumi interni e miglioramento della qualità della produzione.
Come visto, questi elementi erano stati già promossi da tempo dalla leadership cinese, ma risulta opportuno ribadirli alla luce degli effetti della pandemia. Quando a maggio 2020 comincia a emergere il concetto di dual circulation strategy il quadro economico di fondo è abbastanza delineato. La ripresa a Pechino è arrivata prima che nel resto del mondo come conseguenza dell’asincronia del manifestarsi della pandemia. Infatti, se il primo paese a essere colpito in Europa è l’Italia – con il primo morto il 21 febbraio e il primo lockdown in Lombardia l’8 marzo – per quella data la Cina è già concentrata sulla propria “fase 2”, ovvero la riduzione del danno non solo sanitario ma anche economico.
Le aziende cinesi, dunque, che erano rimaste chiuse a cavallo tra la fine di gennaio e le prime settimane di febbraio 2020, si trovano da marzo in poi in uno scenario capovolto in cui loro ripartono mentre il resto del mondo si ferma. L’esperienza di quelle settimane e la successiva corsa internazionale a prodotti come le mascherine, i reagenti per i tamponi e i ventilatori polmonari ha reso evidente una circostanza che prima appariva chiara soltanto nei rapporti degli analisti: la dipendenza del mondo dalla produzione localizzata in Cina.
Tale aspetto, prima di diventare palese persino “all’uomo della strada”, aveva cominciato a farsi strada nel dibattito fra i decisori internazionali tra il 2018 e il 2019 sotto forma del concetto di decoupling, ovvero il “disaccoppiamento” tra l’economia cinese e quella americana, finalizzato a ridurre quella dipendenza diventata evidente con lo scoppio della pandemia e con l’emersione della domanda di beni essenziali prodotti soprattutto in Cina.
IL DECOUPLING PER RIDURRE LA DIPENDENZA DALLA CINA. Il tema del decoupling ha cominciato a farsi strada per effetto di due fattori: da un lato l’elezione di Donald Trump – fautore di un approccio più duro nei confronti della Cina fin dalla campagna elettorale – ha dato luogo a una guerra commerciale finalizzata a riequilibrare le relazioni commerciali e contenere l’ascesa cinese sul piano tecnologico. Dall’altro, il processo di centralizzazione del potere politico portato avanti da Xi Jinping tra il Congresso del pcc dell’autunno 2017 e le Due Sessioni del marzo 2018 hanno cambiato la percezione internazionale del percorso di politica interna cinese: non più una graduale e lenta ma ineluttabile transizione verso forme di limitazione del potere politico, quanto piuttosto il ritorno a una autarchia centrata su un uomo forte e con un apparato ideologico sempre più definito.
La rimozione dei limiti costituzionali al numero di mandati del presidente della Repubblica popolare e l’inserimento nello Statuto del pcc della formula del “Pensiero di Xi Jinping del socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era” hanno contribuito ad alimentare una visione che sottolineava il carattere non solo economico, ma anche ideologico e quindi strategico, delle differenze tra il sistema cinese e le economie di mercato occidentali.
Non è un caso, allora, che il 4 ottobre 2018 il vicepresidente Mike Pence abbia tenuto un discorso allo Hudson Institute di Washington considerato da molti come l’avvio di una possibile “nuova guerra fredda”. In un tale contesto, Xi Jinping già nel 2019 aveva posto al centro della sua politica la necessità di ridurre il rischio esterno e quello interno, in particolare cautelandosi dall’apparire di fenomeni inattesi – i famosi “cigni neri” – quale poteva essere la guerra commerciale.
L’andamento della pandemia, con l’enfasi americana ed europea sulla riduzione tramite il decoupling dell’eccessiva dipendenza dalla Cina, ha messo sotto stress i rapporti di dipendenza esistenti nelle catene del valore internazionale. Infatti, se è vero che il gigante asiatico è fabbrica principale di moltissimi prodotti essenziali per le altre economie mondiali, allo stesso tempo Pechino è estremamente esposta nel campo dei semiconduttori – in particolare quelli di alta qualità – che rappresentano la prima voce dell’import cinese. Nonostante il grande sforzo negli investimenti in innovazione degli ultimi decenni, la Cina sconta un ritardo non colmabile in tempi brevi.
Oggi, Pechino ritiene che gli Stati Uniti abbiano maturato la consapevolezza della natura strategica di determinati prodotti tecnologici, ragion per cui le limitazioni al loro interscambio possono considerarsi strutturali sul medio periodo. La risposta, coerente con la circolazione interna, è quella di promuovere per il xiv Piano quinquennale il concetto di self reliance, ovvero autarchia nel campo tecnologico per ridurre lo svantaggio strategico.
IL DILEMMA DELLA CRESCITA. Sebbene la spinta sui consumi interni come pilastro fondante della crescita cinese sia un aspetto ben presente fin dalla metà del decennio passato, la sua piena attuazione post pandemia resta una conquista da raggiungere con sforzo. Se negli anni passati, infatti, il governo cinese aveva fatto fatica a rinunciare alla spinta degli investimenti pubblici, nonostante un indebitamento sempre più proibitivo, per raggiungere gli obiettivi di crescita economica, in maniera analoga passare dalla circolazione esterna a quella interna dopo la pandemia non sarà un’operazione senza ostacoli.
L’asincronia dello stop alla produzione industriale in Cina e nel resto del mondo e la scelta di Xi di rispondere alla crisi pandemica con misure di sostegno alla produzione hanno comportato una ripresa sbilanciata tra l’attività industriale – tornata quasi subito ai livelli pre-crisi – e i consumi, fermi invece a un rilancio solo parziale. Inoltre, il fatto che nel resto del mondo si sia verificato l’esatto contrario – consumi bene, produzione industriale a rilento – ha comportato una crescita del surplus commerciale nel 2020 del 27%.
Si pone così un forte interrogativo per il breve periodo: insistere sul lato dell’offerta assorbita dalle esportazioni per ottenere ritorni economici in un momento di grande sofferenza, nonostante il rischio di esacerbare lo squilibrio del modello di crescita, o puntare sul riequilibrio trasferendo risorse alle famiglie e raggiungendo magari tassi di crescita del pil inferiori? Le dichiarazioni delle autorità di Pechino sono in favore di misure dal lato della domanda e la proiezione di una crescita nel 2021 intorno all’8% dovrebbe assicurare un buon margine per mettere in atto misure strutturali; tuttavia pesa ancora l’incertezza sull’andamento della pandemia nei prossimi mesi.
In ogni caso, le linee definite dalla dual circulation strategy nel XIV Piano quinquennale sono quelle della riduzione dell’esposizione internazionale non solo per ragioni cicliche della domanda internazionale, ma anche per motivi di ordine strategico che rischiano di mettere in discussione l’approvvigionamento di beni intermedi altamente tecnologici. Pechino rafforzerà così la transizione verso un’economia orientata alla qualità più che alla quantità, ma si troverà stretta tra la volontà di operare riforme strutturali e l’esigenza di mantenere tassi di crescita positivi.
L’articolo è tratto dal numero 92 di Aspenia