international analysis and commentary

Il senso del voto nel gigante democratico dell’Asia

3,825

Le elezioni di aprile-maggio 2019 in India sono state un trionfo per il primo ministro uscente Narendra Modi. Il voto indiano è un evento-monstre senza paragoni al mondo: i cittadini chiamati alle urne sono 900 milioni (84 milioni in più rispetto a 5 anni fa, grazie alla crescita demografica del Paese, ormai popolato da quasi 1,4 miliardi di abitanti); le elezioni hanno avuto la durata di sei settimane, suddivise in sette fasi, e solo per sorvegliare lo svolgimento delle operazioni sono serviti oltre 2 milioni di addetti di polizia.

Hanno votato più di due aventi diritto su tre: un altro record per l’India, che rende la vittoria di Modi ancora più solida. Con il 45% dei voti il cartello guidato dal BJP (Bharatiya Janata Party, Partito del Popolo Indiano) ottiene la maggioranza assoluta in Parlamento. Il primo ministro non perde un’elezione dal 2001 quando fu eletto alla guida dello Stato del Gujarat e il suo carisma ha giocato un ruolo centrale. Il BJP veniva da una serie di sconfitte locali in stati e regioni che, stavolta, hanno registrato una messe di consensi per Modi, anche grazie a un tour del paese che lo ha portato anche in cinque località diverse al giorno. Una serie ininterrotta di casi di corruzione, nepotismo, tangenti, non ne ha scalfito l’immagine solida di capo devoto al paese, né l’aura quasi mistica, anch’essa sapientemente costruita: prima della fine dello scrutinio, Modi si è ritirato in una grotta dell’Himalaya per meditare – accompagnato da telecamere e giornalisti.

Narendra Modi durante la campagna elettorale

 

In campagna elettorale, la polemica è infuriata sull’uscita di un film biografico – PM Narendra Modi – dai contenuti agiografici sulla vita del primo ministro. L’uscita del film è stata posticipata alla chiusura delle urne, ma il trailer e molti spezzoni sono stati comunque diffusi prima in rete (l’India è iper-connessa, e ci sono almeno 87.000 gruppi politici su WhatsApp). In uno di questi, si vede Modi dire: “Ho un avvertimento per il Pakistan: se alzerete di nuovo le mani su di noi, vi taglierò le mani!”. Proprio due mesi prima del voto, l’India aveva bombardato un sito in Pakistan presentato come un campo di addestramento di Jaish-e-Mohammed, gruppo jihadista che rivendicava un attentato costato la morte di quaranta soldati indiani di stanza in Kashmir. Un dirigente del BJP aveva poi specificato: “ogni voto per noi è come una bomba di 1000 kg sganciata sui campi terroristi”.

La mediatizzazione e l’uso propagandistico delle tensioni militari con il Pakistan hanno pagato. I confini dell’India, d’altronde, ribollono: non c’è solo la questione del Kashmir (regione montuosa e strategica di cui sia India che Pakistan rivendicano il controllo quasi totale). L’India è preoccupata dalla partecipazione pakistana a est e birmana a ovest ai progetti delle Nuove vie della Seta cinesi, che potrebbero tagliare fuori i suoi porti dalle grandi rotte commerciali. E con la Cina, alla frontiera settentrionale, ci sono altre rivendicazioni territoriali aperte. L’altro punto di conflitto è stato il confine con il Bangladesh, ormai completamente militarizzato da parte indiana, a motivo di un’eventuale “ondata migratoria” da controllare di persone provenienti dai villaggi musulmani bengalesi, a cui gli indiani hindù guardano con terrore. Ai profughi del Bangladesh (chiamati “termiti” dal nuovo ministro dell’Interno) Modi ha garantito, non sarà mai data la cittadinanza indiana: musica per le orecchie di chi teme una crescita della minoranza musulmana interna, oggi composta di circa 200 milioni di persone.

Non solo il nazionalismo e la religione hanno deciso il voto. Anche la narrativa che ha presentato Modi come figlio del popolo dalle umili origini, contro un’opposizione fatta di eredi e clienti della dinastia Gandhi-Nehru protagonista da sempre della politica dell’India, ha giocato la sua parte nella cocente sconfitta del vecchio Congresso Nazionale Indiano (Indian National Congress, INC), il partito che aveva portato l’India all’indipendenza. Questo, rappresentato appunto dall’ultimo erede, il presidente del Parlamento Rahul Gandhi, alleato con altre liste tra cui i socialdemocratici di M. K. Stalin (così chiamato perché nato subito dopo la morte di Josip), non è riuscito a spostare il focus del dibattito sui temi sociali, nonostante la proposta di salario minimo generale sostenuta anche da diversi economisti stranieri, come Thomas Picketty.

Anzi, Modi ha ricevuto il sostegno di molti indiani della classe media, contrari ai sussidi e ai posti di lavoro pubblici garantiti per legge agli indiani delle caste più basse dai governi passati dell’INC. L’India cresce del 7% l’anno, ma date le condizioni di povertà di partenza e le grandi diseguaglianze, questa cifra è lungi dal garantire la pace sociale. Il governo, comunque, a un mese dal voto, ha deciso di offrire un bonus annuale di 80 euro alla classe dei piccoli proprietari terrieri, una categoria che conta più di cento milioni di beneficiari diretti.

Il mosaico elettorale indiano. Fonte: Wikipedia

 

Secondo i calcoli del think tank di Nuova Delhi Centre for Media Studies, le elezioni sono costate ai candidati un totale di 7,7 miliardi di euro – un livello mai raggiunto neanche negli Stati Uniti. Dopo la spesa, la festa: la cerimonia di avvio del secondo mandato di Modi è stata la più grande mai organizzata al palazzo presidenziale, con 8.000 invitati: tra star di Bollywood, funzionari religiosi, imprenditori e diplomatici, c’erano anche rappresentanti di alcuni paesi vicini, come Bangladesh, Myanmar, Sri Lanka, Nepal e Bhutan. Non la Cina, non il Pakistan.

Il progetto delle Nuove vie della Seta privilegia i vicini dell’India

 

Il primo obiettivo del nuovo mandato di Modi, infatti, sarà quello di rompere l’isolamento a cui la potenza espansionista economica e infrastrutturale cinese potrebbe condannare l’India, se riuscisse a dilagare nel Sudest asiatico, come desidera Pechino. In questo, avrà di certo il via libera di Washington; tuttavia, interesse indiano è quello di riequilibrare, non rompere, il rapporto con la Cina. Per questo motivo, diversamente dal 2014, i capi del governo tibetano in esilio non sono stati invitati a Nuova Delhi.