Il senso del referendum informale catalano, conversazione con Enric Juliana
Il “referendum sul futuro politico della Catalogna” si è concluso con la schiacciante vittoria (80%) dei favorevoli all’indipendenza senza condizioni. Si è trattato però di un voto non ufficiale: la possibilità di una consultazione con valore costituzionale è stata sempre esclusa da Madrid, nonostante le richieste provenienti dalla grande maggioranza del parlamento regionale di Barcellona.
Considerando il valore solo simbolico e l’organizzazione su base volontaria delle operazioni, l’affluenza di due milioni abbondanti di persone – potevano partecipare i cittadini da 16 anni in su e tutti gli stranieri residenti – viene considerata un successo, benché corrisponda circa a un terzo del corpo elettorale. I partiti locali che hanno sostenuto il voto, tra cui la CiU (Convergenza e Unione, di centrodestra) del Presidente della regione Artur Mas e la più radicale ERC (Sinistra Repubblicana di Catalogna), sono infatti divisi da contrasti di fondo, e la loro presa sull’elettorato non è granitica. Inoltre, la campagna contro il referendum, definito variamente “inutile”, “illegale”, “ridicolo”, sia dai giornali che dal governo di Madrid, è stata intensa.
Che senso ha dunque questo voto, dalle caratteristiche e dagli esiti così diversi rispetto a quello scozzese – pienamente ufficiale e dal risultato piuttosto rassicurante per Londra – di settembre? Può veramente la Catalogna essere un “nuovo Stato d’Europa”, come sognano gli indipendentisti, e perché nella regione spagnola che produce un quinto della ricchezza di tutto il Paese c’è un contrasto così forte con la capitale? Ci guida nel labirinto della questione catalana – una questione inserita più di quanto sembri nelle tendenze politiche e economiche dell’Europa post crisi – Enric Juliana, Direttore aggiunto del giornale di Barcellona La Vanguardia, di cui è corrispondente da dieci anni da Madrid.
“Il movimento della società catalana – in particolare della sua parte più dinamica, cioè i giovani, la classe media – colpisce per la sua forza e per la sua durata. Il referendum è il quinto grande segnale in quattro anni (in passato si trattò di immense manifestazioni in occasione della festa nazionale catalana) che Barcellona invia a Madrid e al resto d’Europa. Non è che il numero degli indipendentisti sia cresciuto in maniera significativa negli ultimi anni; ma l’incrocio di diversi fattori aiuta a comprendere la situazione attuale.
La crisi ha comportato la paura di perdere le posizioni di benessere raggiunte negli ultimi 20 anni dalla Catalogna e dalla sua capitale. Le classi medie urbane e la piccola e media imprenditoria di provincia hanno chiesto allo Stato un nuovo accordo economico di coabitazione: l’obiettivo era quello di garantirsi dalla terribile deriva economica – disoccupazione di massa, impoverimento, assistenzialismo – imboccata dalle regioni del sud della Spagna dallo scoppio della crisi in poi. Ma i due partiti nazionali, sia i popolari che i socialisti, più preoccupati di mantenere il consenso in altre aree del Paese, hanno ignorato tale richiesta, sottovalutandone la portata e l’ampiezza nella società catalana. Ciò ha reso possibile la svolta indipendentista di un partito tradizionalmente moderato e ‘pattista’ come Convergenza e Unione, che si è voluto fare interprete di questo nuovo stato d’animo”.
In effetti, ai seggi per il referendum era facile notare persone di tutte le fasce di età e di diversa provenienza sociale. L’idea che i catalani non abbiano sufficiente voce a Madrid e che la capitale abbia saputo reagire solo con il rifiuto al malessere e al dissenso locale – tanto che si era parlato di impedire con l’intervento delle forze dell’ordine anche la votazione non ufficiale – ha certamente trasformato il referendum in un atto di protesta che travalica i confini dell’indipendentismo.
“L’ondata di scontento – sostiene Juliana – non è solo alimentata dalla congiuntura negativa dell’economia. In Spagna, in tutta la Spagna, c’è anche una profonda crisi di rappresentanza politica: i popolari oggi al governo sono colpiti in pieno da una serie di inchieste, accuse di sperpero del denaro pubblico e corruzione che ricordano la Tangentopoli italiana. Gli scandali riguardano anche i socialisti e, in un turbine di rivelazioni, indagini poliziesche, scoop giornalistici, finiscono per infangare tutta la classe politica, fondate o presunte che siano le accuse”. Fondate come nel caso di Jordi Pujol, Presidente della Catalogna dal 1980 al 2003, di cui si è scoperta un’evasione fiscale decennale grazie a un tesoro nascosto ad Andorra. Presunte come nel caso di Javier Trias, attuale Sindaco di Barcellona, accusato dal giornale El Mundo, che riceveva informazioni da fonti informali del governo, di possedere capitali non dichiarati in Svizzera: il sindaco è riuscito immediatamente a dimostrare la propria innocenza.
“La crisi politica si è intrecciata con una fortissima esigenza di rinnovamento morale e generazionale, già emersa con gli indignados, ma che non aveva trovato finora un canale diretto e strutturato di espressione. Non bisogna dimenticare che la Spagna è oggi il Paese europeo con la disoccupazione giovanile più alta dopo la Grecia, e che la riduzione delle aspettative professionali ed economiche è stata drastica, rispetto agli anni della crescita record. In Catalogna, questa critica giovanile al malfunzionamento della giovane democrazia spagnola e ai compromessi su cui è basata, come la monarchia, il bipartitismo e il sistema di autonomie locali, ha inevitabilmente favorito l’adesione alle iniziative indipendentiste”.
Tuttavia, nell’ultimo anno, un soggetto in grado di intercettare l’insoddisfazione diffusa sembra essere apparso: Podemos. Il partito, che inizialmente sembrava una specie di collettivo universitario, fondato da un gruppo di giovani professori di scienze sociali dell’ateneo Complutense di Madrid, è passato dall’8% raccolto di sorpresa alle europee di maggio all’essere indicato come primo partito (intorno al 25%) da alcuni sondaggi delle ultime settimane. A favorirne l’ascesa, l’ottima capacità comunicativa del leader Pablo Iglesias e un discorso politico che mescola le rivendicazioni sociali alla Syriza, la retorica “anti-casta” e la rottamazione renziana. Per il momento, i popolari resistono nelle intenzioni di voto, data l’assenza di concorrenti a destra; ma a sinistra, se l’evoluzione presente dovesse confermarsi alle amministrative del prossimo maggio, esiste il rischio che Podemos possa fagocitare i socialisti proprio come in Grecia il partito di Alexis Tsipras ha fatto con il Pasok.
“In Europa e in Germania l’idea di una nuova Syriza non piace neanche un po’. La linea dell’austerità è considerata intoccabile, e si teme addirittura che un eventuale governo di Podemos decida di non pagare i debiti del Paese, sul modello dell’Ecuador. Ecco perché da Berlino, da Bruxelles e dai centri finanziari di tutto il mondo la situazione spagnola è monitorata costantemente e con preoccupazione. Il malessere catalano e l’affermazione di Podemos, se malgestiti come avvenuto finora, potrebbero insieme complicare molto il quadro politico, già delicato, dell’Unione Europea”.
È per questo motivo che la possibilità che la Catalogna possa davvero avvicinarsi alla sua indipendenza sembra minima. Quello che è più probabile è il cambio di atteggiamento a Madrid, e l’apertura di una stagione di trattative con Barcellona. A condurle, non saranno probabilmente le stesse persone oggi al potere nelle due città: i prossimi appuntamenti elettorali cambieranno in buona sostanza le carte in tavola.
“Molti osservatori internazionali – conclude Juliana – credevano alla stabilità del governo popolare di Mariano Rajoy. E invece il Premier spagnolo sembra aver sbagliato la sua scommessa su un rapido recupero economico che avrebbe raffreddato il clima politico. Le richieste della società sono state ignorate, e ora la traiettoria dell’incertezza sta prendendo il posto della prospettiva della ripresa”.