international analysis and commentary

Il segnale di cambiamento che viene dal voto argentino – con molte incognite

519

L’esasperazione per il quadro socioeconomico ha prevalso sull’incertezza per il salto nel vuoto rappresentato dal semi-outsider “anarco-capitalista” Javier Milei. Questo il dato che emerge plasticamente dal ballottaggio in Argentina – 19 novembre – che ha visto stravincere “el Loco”, con oltre il 55% delle preferenze, contro Sergio Massa, politico dall’esperienza pluridecennale, esponente della corrente moderata del peronismo-kirchnerismo e ministro uscente dell’Economia.

 

Il testa a testa è stato deciso da un 10% dell’elettorato che invece di rimettere il Paese nelle mani dell’usato (decisamente poco) sicuro rappresentato da Massa ha deciso di affidarsi a un istrionico economista libertario che si scaglia contro la “casta politica” “corrotta e parassitaria” e che ha basato la campagna elettorale su promesse di misure drastiche quali la dollarizzazione dell’economia, l’abbattimento della spesa pubblica (15%), l’abolizione della banca centrale e di molti ministeri, ampie privatizzazioni.

Milei ha usato modi e retorica – dalla motosega sbandierata in diversi comizi allo slogan “¡Que se vayan todos!”, mutuato dalla crisi del 2001 – simili a quelli di altri candidati anti-establishment dell’emisfero occidentale, a partire da Donald Trump e Jair Bolsonaro, che si sono affrettati a esultare per la sua elezione.

Sconfessando l’adagio popolare per cui “è meglio il diavolo che conosci”, gli argentini inviano insomma un messaggio di protesta. Una deviazione dalla grieta nacional – la divisione bipolare che condiziona la politica Argentina – dovuta all’esacerbazione dalle condizioni socioeconomiche nell’ultimo decennio. L’alternanza al potere degli esponenti opposti della grieta Mauricio Macri (2015-19) e Alberto Fernandez (2019-2023) non ha impedito al tasso di inflazione di passare dal 10% al 140% e a quello di povertà di salire dal 7% al 40%.

 

Leggi anche: Milei e la parabola argentina

 

Ma chiusa la fase elettorale, dal suo insediamento il 10 dicembre l’esecutivo di Milei dovrà fare i conti con la realtà e col rischio che la sua libertà d’azione resti limitata, almeno fino alle elezioni di medio termine del 2025.Per vincere il ballottaggio Milei ha infatti dovuto assicurarsi il sostegno di Juntos por el Cambio (JxC), cioè la formazione di Mauricio Macri – fino a quel momento additato come appartenente alla “casta” – e della candidata conservatrice Patricia Bullrich. E’ un cartello elettorale variegato e segnato da una frammentazione interna che il supporto a Milei, dopo la sconfitta al primo turno di Bullrich, ha acuito. Nonostante il forte mandato popolare, il partito di Milei (La Libertad Avanza, Lla) disporrà di soli 7 seggi su 72 al Senato e 38 su 257 alla Camera: dovrà fare leva sui voti di JxC per le riforme in sede parlamentare. E non soltanto, posto che ad oggi non conta alcun governatore nelle Province federate dell’Argentina.

Altro fattore di potenziale instabilità è il sistema di sussidi sociali, di cui beneficia quasi il 90% della popolazione. Dato che concorre a spiegare perché, nonostante la spirale inflattiva (prima preoccupazione per la maggioranza degli argentini), il 45% dell’elettorato abbia votato per il ministro dell’Economia Massa e per la sua coalizione (Unión por la Patria), prima per numero di seggi alla Camera alta (32) e bassa (104). In effetti, soprattutto negli ultimi mesi, Massa aveva intensificato ulteriormente i sussidi elargiti dallo stato, e si era fatto garante del loro mantenimento. Sull’andamento della presidenza Milei inciderà dunque anche la reazione del fronte peronista, che se da un lato esce sconfitto dalla corsa alla Casa Rosada ed è tutt’altro che unitario, dall’altro è la prima forza parlamentare e per capacità di mobilitazione popolare.

Al netto dei proclami sulla dollarizzazione dell’economia, che se mai verrà implementata non sarà rapida né indolore, le prime misure messe in campo dal governo saranno dunque quelle capaci di attrarre un maggior consenso dal centro alla destra dello spettro politico, in primis privatizzazioni dei colossi statali, come annunciato nelle ore successive allo spoglio delle schede.

Anche sul piano internazionale i prossimi mesi si prefigurano convulsi. Milei ha lanciato strali contro il Brasile di Lula (“socialista dalla vocazione autoritaria”), i cinesi (“assassini” che non rispettano le libertà individuali) e papa Francesco (“gesuita che promuove il comunismo”), oltre a BRICS e Mercosur. Ma nemmeno in campo internazionale il governo avrà vita facile, come ha dovuto notare Macri dopo la sua elezione. Oltre che primo partner commerciale, il Brasile è un gigante geopolitico con cui non si può non fare i conti, e proprio grazie a Lula è visibilmente tornato sullo scenario internazionale.

Mentre la Cina è il secondo partner commerciale, il primo mercato di esportazione e investe in settori strategici come quelli energetico e minerario, su cui Milei punta per risollevare l’economia, oltre a fornire ossigeno alla casse dello Stato sudamericano. Allentare o recidere i legami commerciali e finanziari non sarebbe esattamente una passeggiata, al netto di dichiarazioni come quella per cui, stando al presidente in pectore, basterà sostituire la Repubblica Popolare Cinese con altri partner. Senza contare che il risanamento economico dipenderà anche dall’andamento dei prezzi internazionali delle materie di cui l’Argentina è esportatrice e dalle garanzie che riuscirà a dare a mercati e organismi a guida statunitense come il Fondo Monetario Internazionale, che vanta un credito con Buenos Aires superiore ai 40 miliardi di dollari.

 

Leggi anche: L’Argentina, l’instabilità politica cronica e le opportunità da non perdere

 

Infine, sulla tornata elettorale hanno influito il gap generazionale e il persistente ascendente culturale di Washington sulle Americhe. Sul primo fronte, non è un caso che la maggior parte dei giovani argentini – cresciuti in un contesto segnato dalle cicliche crisi economico-finanziarie – abbia votato per il candidato della destra radicale, che facendo perno sulla propria esperienza mediatica ha impostato la campagna elettorale anche su un uso strategico delle reti sociali.

Sul secondo fronte, Milei ha adoperato una narrazione cospirazionista simile a quella di Trump e Bolsonaro, ad esempio denunciando presunti brogli elettorali e descrivendo il cambiamento climatico come un complotto dei socialisti. E ha adottato la Gadsden Flag, vessillo indipendentista che origina dall’epoca rivoluzionaria, rispolverato nella seconda meta del Novecento dal movimento libertario e nel nuovo millennio dai sostenitori del Tea Party e di Trump (ma non solo) come emblema a favore del Secondo emendamento (diritto a detenere e portare armi) e contro il “Big Government”. Segno di quanto il soft power degli Stati Uniti sia vivo e vegeto nel loro “cortile di casa”.

A vittoria acquisita, Milei ha trionfalisticamente annunciato che l’Argentina diventerà una “potenza mondiale” entro 35 anni. Il Paese sudamericano ha potenzialità economico-geopolitiche innegabili ma altrettante storture che ne frenano la stabilità, prima che l’ascesa: anzitutto la polarizzazione interna. Certo è che gli argentini hanno lanciato un segnale di desiderio di cambiamento inequivocabile. Ma anche che il governo Milei non avrà la strada spianata.