Il ritorno in Polonia del centrismo di Donald Tusk: moderazione ma non rivoluzione
“La Polonia è tornata in Europa”. Lo slogan si colloca all’indomani del voto che ha certificato il sorpasso del fronte europeista sugli ultraconservatori del PiS – la formazione che ha dominato il sistema politico-istituzionale negli ultimi otto anni. Quello slogan ha messo d’accordo gli esponenti della grande alleanza popolari-socialdemocratici-liberali che regge (per ora) le sorti del governo dell’UE.
Ma il gran ritorno sulla scena europea di Varsavia potrebbe non essere una storia da libro dei sogni. Tra corsa contro il tempo per recuperare i ritardi (e le erogazioni) del PNRR polacco, riforme della giustizia da smantellare e un riequilibrio interistituzionale tutto da scrivere, la ricomparsa del centrista ed ex presidente del Consiglio Europeo Donald Tusk alla testa dell’esecutivo di Varsavia (che aveva già guidato tra 2007 e 2014) ha in serbo un sentiero tortuoso e poco lineare. Tanto a casa, dove governerà con tre partiti alleati, quanto nei rapporti con Bruxelles. Dopotutto, la stessa UE, nel frattempo, è cambiata. E la patente di europeista, oggi, tollera più infrazioni che in passato.
Sebbene l’euroscettico PiS sia rimasto primo partito del Paese, la partecipazione record alle urne del 15 ottobre, con l’affluenza al 75%, ha incoronato Tusk e i partiti della sua coalizione pro-UE, un asse che va dai popolari ai verdi, dalla sinistra ai liberal-democratici. Il presidente della Repubblica Andrzej Duda, esponente del PiS, non ha però semplificato la transizione, dando l’incarico per formare il governo al premier uscente Mateusz Morawiecki. Il conservatore s’è trovato inchiodato all’insufficienza dei numeri parlamentari. Tanto che, mancata la fiducia, è stato il Sejm, la Camera Bassa polacca, a dare l’investitura a Tusk. Una prima volta che conferma, al tempo stesso, la resilienza della democrazia polacca.
Certo, il nuovo esecutivo non è nato sotto una stella propizia. Tusk è arrivato a Bruxelles una manciata di ore dopo il giuramento, per partecipare al summit dei leader UE del 14-15 dicembre, un appuntamento che, anche simbolicamente, ha avuto il valore di ricucire le relazioni della Polonia con l’Unione e i partner europei – con cui in questi anni le frizioni sono state frequenti.
La speranza europeista polacca è stata, tuttavia, offuscata dal protagonismo su tutta la linea della nemesi di Tusk, il premier ungherese di ieri e di oggi Viktor Orbán, che ha sovvertito le attese della vigilia sui due punti in agenda per cui è necessaria l’unanimità dei Ventisette. Da una parte, ha rimosso a sorpresa, uscendo dalla sala, il veto sull’apertura dei negoziati di adesione con l’Ucraina, dall’altra ha tenuto il punto e preso in ostaggio la revisione del bilancio pluriennale dell’UE (compresi gli aiuti per Kyiv), rimandata al 1° febbraio.
Mentre Orbán – orfano proprio del solido alleato polacco – tesseva la sua tela, Tusk, nella prima visita ufficiale da premier, pesava con attenzione le parole per segnare il cambio di passo: lo Stato di diritto “è una questione molto seria. Riguarda il nostro posto in Europa e i nostri valori comuni”. È il dossier più spinoso sull’asse Varsavia-Bruxelles dopo gli anni del PiS al potere, tra violazioni ai diritti delle minoranze Lgbtqi, sabotaggi all’indipendenza della magistratura e commissioni d’inchiesta simili a liste di proscrizione.
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A Tusk il compito di far tornare il sereno e di raggiungere i super-traguardi a cui è condizionato lo sblocco di decine di miliardi di euro del PNRR della Polonia: i circa 60 miliardi ancora al palo (25,3 sono sovvenzioni a fondo perduto, 34,5 prestiti a tasso agevolato), al pari di altrettanti fondi di coesione. Per il momento, Varsavia ha incassato solo il prefinanziamento senza vincoli pari a 5,1 miliardi di RePowerEU, il capitolo dedicato alla transizione energetica del PNRR; mentre, contestualmente alla visita, il neopremier ha inoltrato la richiesta di pagamento della prima rata da 6,3 miliardi. Per mostrare alla Commissione che c’è un nuovo corso a Varsavia, il ministero della Giustizia ha, nel frattempo, avviato l’iter per aderire all’ufficio dell’Eppo, la Procura europea competente per perseguire i crimini che ledono gli interessi finanziari dell’UE. Altri segnali passano dalla creazione di nuovi ministeri, tra cui quello per l’Uguaglianza e quello per la società civile.
Insomma, Tusk comincia a fare sul serio, ma ha davanti a sé un difficile equilibrio tra continuità e rottura. La continuità passa, soprattutto, dal dossier Ucraina: con l’invasione russa del febbraio 2022, la Polonia del PiS ha confermato tutte le contraddizioni del Gruppo di Visegrád – il fronte comune nato sulle ceneri della dissoluzione del blocco orientale per promuovere l’integrazione euroatlantica di Polonia, Ungheria e Cecoslovacchia Budapest si è trovata isolata in una posizione sempre più apertamente pro-Cremlino. Varsavia si è dimostrata invece, insieme alle tre capitali del Baltico e con la benedizione di Washington, fervente fautrice di un sostegno su larga scala a Kyiv, di natura militare e finanziaria, cui affiancare imponenti misure sanzionatorie nei confronti di Mosca. Salvo mostare qualche titubanza quando di mezzo finivano gli interessi immediati dei polacchi, dagli agricoltori ai camionisti, “minacciati” dalla concorrenza della vicina Ucraina. Con Tusk, i fondamentali non cambieranno, come non cambierà la postura filo-USA e filo-NATO: “Apatia e stanchezza sono inaccettabili. Stiamo parlando anche del nostro futuro”, ha detto da Bruxelles a proposito della necessità di continuare a sostenere Kyiv.
Ma rimarranno validi i caveat già visti con il suo predecessore: ad esempio, per il momento, la nuova gestione del ministero dell’Agricoltura non intende rimuovere l’embargo sui cereali ucraini, perché “dobbiamo sì aiutare Kyiv, ma non alle spese dei nostri coltivatori ed imprenditori”. Discorso simile lo merita il capitolo migrazione, con i vertici del PiS che hanno ripetutamente affossato ogni tentativo di riformare il diritto d’asilo UE secondo un principio di solidarietà sì obbligatoria, ma con ricollocamenti dei richiedenti asilo solo volontari. Il tema è fortemente identitario, e in una fase di delicata trasformazione nessuno ha intenzione di scoperchiare il vaso di Pandora.
I toni saranno misurati e meno incendiari, quindi, ma non sarà rivoluzione copernicana. Quella di Tusk non è e non può essere un colpo di spugna radicale: negli otto anni al potere, il PiS si è insinuato nei gangli dell’assetto istituzionale polacco. Prova ne sia la giornata stessa del ritorno dell’“altro Donald” al potere: mentre un cinema della capitale trasmetteva sul grande schermo l’investitura parlamentare del leader centrista, la Corte Costituzionale metteva contemporaneamente a segno l’ultimo scollamento dalla casa europea dell’era PiS, sancendo l’illegittimità delle riforme richieste dalla Commissione europea per sbloccare i fondi del Recovery Plan. Un nuovo colpo al principio della primazia del diritto UE su quello nazionale, una manciata di ore dopo la pronuncia che aveva giudicato illegittime le sanzioni economiche, pari a circa 200 di milioni di euro, imposte dalla Corte di Giustizia dell’UE a Varsavia per non essersi uniformata a due sentenze comunitarie: una relativa alla sospensione delle attività di estrazione nella miniera di carbone di Turów, l’altra allo smantellamento del tribunale disciplinare, l’organo di nomina politica con il potere di sanzionare i giudici. Cicatrici – le ennesime – che la nuova gestione è chiamata a far rimarginare.
La riconciliazione, tuttavia, non sarà semplice. I tribunali, fino ad arrivare a quello supremo, sono stati messi parzialmente sotto controllo dal PiS, e promettono di rappresentare un ostacolo non da poco nell’opera di Tusk e dei suoi per chiudere i conti con il passato, mentre l’opera di tagliare i ponti con la gestione passata nei media pubblici, nominando dei nuovi vertici, si è scontrata con la resistenza della dirigenza fedele agli ultraconservatori. Senza dimenticare il presidente della Repubblica Andrzej Duda, che ha già complicato il passaggio di consegne e che rimarrà al suo posto fino alla primavera 2025, con il potere di veto sulle misure del governo; una prerogativa che lo stesso Duda non ha perso tempo a evocare rispetto al bilancio nazionale 2024.
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Tusk, insomma, non si avventurerà in grandi sofismi politici. I tempi non lo consentono. E quindi, c’è poco da contare su Varsavia per la riforma del funzionamento dell’UE. Se Morawiecki e i suoi, in risposta ai futuri allargamenti dell’Unione, riproponevano la teoria del “rimpatrio delle competenze dell’Unione”, limitando l’azione comune a una serie di compiti ben identificati, da Tusk non si potranno certo immaginare fughe in avanti verso un’Europa federale.
Anzi, il premier ha già messo in guardia “da un ingenuo, e a volte persino insopportabile, euroentusiasmo” – così nel discorso programmatico al Sejm – e ha detto no a una modifica dei Trattati per rimuovere il requisito dell’unanimità negli ambiti in cui è ancora presente per sostituirlo con la maggioranza qualificata, dalla politica estera e di sicurezza comune alle questioni fiscali. È il bicchiere necessariamente mezzo pieno che Bruxelles dovrà mandare giù senza troppe cerimonie per recuperare il protagonismo della Polonia nelle dinamiche UE.