Il Regno Unito ancora al voto, in crisi d’identità
Il Regno Unito tornerà a votare il 4 luglio: il primo ministro conservatore Rishi Sunak, in carica da ottobre 2022, ha indetto per l’inizio dell’estate un’elezione che probabilmente chiuderà il quindicennio in cui il Paese è stato governato dai Tory. Il periodo ha coinciso con una crisi politica a tratti spaventosa, dalla Brexit alla nuova spinta secessionista scozzese, dalla questione irlandese all’avvicendarsi sempre più vertiginoso dei governi a Londra: l’aspetto evidente di un malessere penetrante, che tocca da tempo le corde più interne e fondamentali della società britannica. Il ritorno dei Laburisti di Keir Starmer al potere potrà dirci se si tratta di una brutta febbre passeggera, o di una malattia degenerativa in stato avanzato.
Intanto, per cogliere le coordinate esatte della situazione al di là di cifre eloquenti ma astratte come quelle del prodotto interno lordo o dell’inflazione, potremmo cominciare col parlare di povertà. L’ultimo è stato l’anno in cui si è registrato il maggior numero di furti nei supermercati e nei piccoli negozi, da quando questi vengono contati (cioè da vent’anni fa): un fenomeno dilagante che ormai incide in maniera seria sui bilanci dei venditori. I ladri, dice la polizia, che ha ricevuto la consegna di trattare con un certo riguardo chi lo fa per fame, portano via soprattutto carne, pane e alcol: perché non possono permetterseli, o per rivenderli scontati negli spiazzi dei supermercati a chi non ha il coraggio di rubarli.
L’impoverimento del Regno Unito comincia a notarsi nello stato biologico della popolazione. Uno studio ha scoperto che i bambini inglesi ormai “non crescono più”, ossia sono comparabilmente sempre meno alti dei loro coetanei europei, per colpa dei tagli al servizio sanitario nazionale (NHS) e della loro alimentazione povera di nutrienti, dicono gli esperti: insieme all’obesità sono riapparse patologie “dickensiane” come il rachitismo o lo scorbuto. L’NHS era stato il simbolo del benessere, della ripresa e delle politiche redistributive del dopoguerra: rimangono celebri i racconti degli anziani indigenti che rientravano dall’ospedale con la dentiera fornita dal servizio sanitario, commossi perché finalmente potevano masticare. I governi del quindicennio Tory, a partire da quelli di David Cameron (2010-16), hanno accelerato il suo smembramento a un livello che non ha paragoni in Europa, nonostante la promessa di investire lì i miliardi “risparmiati” con la Brexit. Non solo: un altro dato eclatante svela che il Regno Unito non riesce nemmeno più a formare i medici necessari a curare i propri cittadini: nel 2022 erano britannici solo il 37% dei nuovi dottori registrati nel Paese; il 10% veniva dall’Europa e il 53% dall’Asia, soprattutto India e Pakistan.
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Una situazione simile ha chiaramente un impatto sulla speranza di vita dei britannici. Questa fino agli anni ‘70 era superiore a quella degli altri grandi Paesi europei come Germania, Francia e Italia (e anche a quella degli Stati Uniti). Ma a partire dagli anni ‘80, da quando cioè con Margaret Thatcher è cominciato lo smantellamento dei servizi pubblici e del tessuto industriale – non interrotto nemmeno durante i governi laburisti di Tony Blair – il Regno Unito ha perso il primato, superato dall’Italia, dalla Francia, e persino dalla Germania che nel frattempo ha dovuto assorbire la sua parte orientale; il peggioramento del dato si è acuito negli ultimi dieci anni. Solo gli Stati Uniti hanno fatto peggio; in effetti, molto peggio.
E’ vero in effetti che la trasformazione neoliberista lanciata da Thatcher e Reagan negli anni ‘80 ha posto Regno Unito e Stati Uniti su traiettorie simili. Ma va anche sottolineato che i britannici sono restati su livelli simili al resto d’Europa su vari standard importanti, ad esempio quello delle diseguaglianze, oppure quello della violenza (omicidi e suicidi). C’è però un lato negativo per la Gran Bretagna: la sua taglia ridotta e la sua minima potenza a confronto con quella dell’America la rendono molto più indifesa di fronte alle conseguenze di questi processi. Il suo tessuto urbano non conta quindici metropoli di oltre cinque milioni di abitanti come gli USA, ma una sola, Londra: la capitale che polarizza il Paese e ne aspira valore in proporzioni maggiori di quanto accada negli altri stati europei comparabili. Il Regno Unito non ha risorse naturali su cui contare, né risorse economiche per lanciare vasti programmi di re-industrializzazione e ricostruzione di una base sociale stabile come stanno appunto facendo gli Stati Uniti per correggere quelle politiche ormai considerate fallaci.
La base produttiva britannica è stata smantellata: non è strano perciò che il settore finanziario pesi sul PIL ancor più di quanto accada negli USA (8,3% contro 7,8). Il problema è che nello stesso momento lo stato si è tagliato le gambe, non è più capace di intervenire per correggere o indirizzare: il Regno Unito ha privatizzato fino all’assurdo, persino servizi che nei manuali di economia sono classificati come monopoli naturali, come le ferrovie o la fornitura d’acqua. Sono stati invece venduti, deregolati, paralizzati, e poi spezzettati com’erano nell’Ottocento. Ma c’è stata anche un’esternalizzazione massiccia, mediante cui lo stato ha affidato ai privati molti dei compiti che nominalmente conservava, persino l’amministrazione delle prigioni: una pratica in cui hanno eccelso i governi laburisti di Blair – a riprova di uno spirito “distruttivo” piuttosto comune.
Un dato in sé positivo, la presenza diffusa di “non bianchi” ai gradini più alti della politica, è utile per partire alla scoperta di un altro fenomeno cruciale. Ad esempio nell’esecutivo di Liz Truss (2022), i quattro membri più importanti non erano né uomini, né bianchi: il ministro dell’Economia Kwasi Kwarteng era di origine ghanese, quello degli Esteri James Cleverly di padre britannico e madre della Sierra Leone, quella degli Interni Suella Braverman di origini indiane, e Liz Truss una donna. Prendiamo gli ultimi ministri dell’Economia, quei “Cancellieri dello Scacchiere” che sin dal Medioevo occupano un posto di grande prestigio nel potere inglese: luglio 2019, Sajid Javid, di origine pakistana; febbraio 2020 Rishi Sunak (che oggi è premier), di origine indiana; luglio 2022 Nadhim Zahawi, di origine curda; settembre 2022, il già menzionato Kwasi Kwarteng. Con Jeremy Hunt nell’ottobre del 2022 la poltrona torna a un “bianco”.
Parliamo del partito conservatore, il partito tradizionale delle élite britanniche: in effetti, i politici elencati ne hanno sposato in pieno i valori attuali, anzi, ne hanno abbracciato gli aspetti più radicali. Tra tante, la prova più evidente è la nuova legge sull’immigrazione che prevede la deportazione dei richiedenti asilo in Ruanda (Paese dove trent’anni fa si è consumato uno dei più cruenti genocidi del XX Secolo). Sunak ne ha fatto una bandiera del suo mandato.
La cosa comunque riguarda anche i laburisti – basti pensare a Sadiq Khan, rieletto da poco sindaco di Londra, di origini pakistane. C’è poi Humza Yousaf, Primo ministro scozzese e capo dello Scottish National Party, la forza politica indipendentista egemone in Scozia, di genitori pakistani anche lui. Karim Khan, il procuratore della Corte Penale Internazionale che oggi è alla ribalta, è figlio di un dermatologo pakistano e un’infermiera inglese: e suo fratello Imran è stato eletto per i Tory nel 2019 in uno dei collegi storici del Partito Laburista nel nord dell’Inghilterra, ed è diventato capogruppo del partito alla Camera – da dove si è dimesso nel 2022 perché condannato a 18 mesi per molestie sessuali ai danni di un quindicenne.
Questa presenza, senza eguali in Europa e tanto meno in un Paese dalla storia coloniale paragonabile come la Francia, ci dice che l’integrazione nella società britannica è un successo. Benissimo. Che il razzismo diffuso e radicale, socialmente istituzionalizzato, riguarda ormai il passato, perché i britannici hanno accettato tranquillamente questa evoluzione. Benissimo anche qui. Ma ci dice anche che la componente dei “bianchi” e in particolare dei “maschi bianchi” nella società britannica è in una crisi dai tratti esistenziali. Il suo declino la rende una componente molto sotto-rappresentata nella politica: i neri, asiatici, e originari di minoranze etniche – nati nel Regno Unito – sono solo il 7,5% della popolazione, ma hanno un successo comparativamente molto maggiore a scuola, e raggiungono i vertici delle istituzioni in proporzione altrettanto maggiore. Ciò non è casuale, o un’eventualità fortunosa.
I bianchi sono il gruppo che è colpito, svuotato dall’esaurirsi dell’etica protestante che era stata l’ossatura della società britannica: il collante dell’unione di Inghilterra e Scozia da trecento anni, l’anima delle public schools che hanno formato la classe dirigente inglese negli ultimi secoli, fornendole una coscienza collettiva basata sul lavoro, il risparmio, la contenzione in tutti i campi. L’etica che aveva costruito il mercato con lo spirito liberale – mentre quello neoliberale lo ha cupidamente distrutto: d’altronde, “la società non esiste”, esordì Thatcher. La proposta di legge di Liz Truss e Qwasi Qwarteng (autunno 2022), che prevedeva la quasi totale deregolazione fiscale a vantaggio dei ricchi, senza che nemmeno ci fossero le coperture finanziarie per garantirla in termini di bilancio – e che provocò il crollo della sterlina, una grave preoccupazione nel Paese, e infine la caduta del governo – è un esempio di come quell’etica sia finita sfigurata in nichilismo.
Inoltre i bianchi sono anche il gruppo che ha pagato la deindustrializzazione, nelle proprie tasche, ma anche nello spirito e nell’orgoglio, come classe lavoratrice, per la sparizione dell’identità operaia che l’aveva caratterizzata e coesa per un secolo e mezzo. Questa è ormai un rottame storico, come sa chi ha visto The Old Oak di Ken Loach: l’ex potenza industriale mondiale del Regno Unito oggi non riesce a produrre neanche un’utilitaria – o meglio, le fabbriche che ancora lo fanno sono straniere.
Questa evoluzione che investe il cuore delle identità e delle coscienze ha tra le conseguenze che quello dei bianchi sia ormai il gruppo che accede di meno all’educazione superiore (da cui emerge la classe politica): 32%, contro il 51% dei neri (africani e caraibici) e il 54% degli asiatici, tra cui spicca il 71% dei cinesi. E che anche in quella inferiore se la vede piuttosto male, con la componente maschile a ottenere i risultati peggiori. Se pensiamo che di questo regresso socio-educativo soffre quella che però resta la componente elettorale maggioritaria nel Paese, capiamo meglio perché l’involuzione che abbiamo descritto sia così centrale e profonda, e vediamo in maniera più chiara una delle cause della spirale di crisi politiche che ne è scaturita.
L’ansia e il disorientamento che ne derivano spiegano anche la ricerca ossessiva di capri espiatori: l’Europa, gli immigrati, o altro, a seconda del punto di osservazione. Al vincitore del 4 luglio il compito di dimostrare che il Regno Unito può ancora riprendersi dalla sua deriva.
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