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Il turbolento quindicennio dei Tory

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Pochi avrebbero il coraggio di dichiarare che le cose nel Regno Unito in questi ultimi anni sono migliorate. Ma se questo può valere anche per molte altre lande dello sfiduciato continente che la fronteggia, la Gran Bretagna sta facendo i conti con una serie di crisi che rischiano di minarne le stesse fondamenta. C’è l’impatto della Brexit, molto più sonoro di quanto tanti pensassero nel 2016, e che torna a complicare il rapporto tra le varie parti del Regno. In economia, stagnazione e inflazione spiccano in negativo nel già non festoso panorama europeo. E poi c’è la grave decadenza dei servizi pubblici, a cominciare dal sistema sanitario, da quello scolastico e dalle infrastrutture di trasporto, ancor più d’impatto dato che si verifica in un quadro di ampie diseguaglianze, in un Paese che ospita le regioni più povere dell’Europa Occidentale. Un contrappasso impietoso, se si ripensa a quello slogan per cui la Brexit avrebbe fatto risparmiare 350 milioni di sterline a settimana, da investire negli ospedali: otto anni dopo il referendum, la sanità britannica è al collasso.

 

Rule, Tories!

Sembra incredibile che questo periodo turbolento abbia visto il dominio di un solo partito sulla politica britannica. E invece, i Tory sono ininterrottamente al governo dal 2010, e hanno vinto quattro elezioni consecutive: la situazione attuale ha la forma che le hanno conferito le loro decisioni.

I premier Tory da Margaret Thatcher in poi: John Major, David Cameron, Theresa May, Boris Johnson, Liz Truss, Rishi Sunak.

 

Tutto cominciò con David Cameron, che divenne Primo ministro sconfiggendo i residui ormai logori dell’eredità politica di Tony Blair. In risposta alla crisi del 2008, seguendo ricette economiche già rivelatesi fallaci altrove, decise di adottare severissime politiche d’austerità, benché il Regno Unito non fosse particolarmente coinvolto dalle turbolenze finanziarie: nel 2010 il rapporto tra debito e PIL era più basso persino di quello della Germania. L’aumento della spesa per ospedali e scuole fu azzerato; furono privatizzate anche le celebri Poste. La sanità subì una sostanziosa riorganizzazione – salutata come “rivoluzionaria” dai media vicini a Cameron, criticata come una “privatizzazione mascherata” da altri – che sconvolse un sistema considerato eccellenza nazionale: non l’aveva toccato nemmeno Margaret Thatcher.

Ma intanto, di fronte alla debolezza dell’opposizione, Cameron provò a richiamare l’opinione pubblica su temi consensuali, come il matrimonio tra persone dello stesso sesso, anche sfruttando alcuni grandi eventi tanto politici quanto mediatici. Per prime le Olimpiadi di Londra, nel 2012. Poi il referendum per l’indipendenza della Scozia nel 2014 – in cui il “No” si impose con un buon margine. Due vittorie per il governo, che anticiparono quella elettorale di Cameron nel 2015: i Tory, con un risultato non memorabile, ottennero comunque la maggioranza assoluta grazie alla sconfitta dei laburisti in Scozia. Il partito guidato da Ed Miliband lasciò tutti i collegi della sua antica roccaforte al rampante Scottish National Party di Nicola Sturgeon.

Nei piani di Cameron, il referendum sull’Unione Europea (23 giugno 2016) doveva servire, proprio come quello scozzese, a spegnere un fuoco polemico prolungato ed estenuante. A chiudere la disputa con un vantaggio per Londra. Con la Scozia si risolveva una questione secolare, concedendo a Edimburgo un buon livello di autonomia e un partito localista a gestirla, ma salvando l’unità nazionale per i decenni a venire. La cosa metteva i laburisti fuori gioco, come si vide effettivamente alle elezioni del 2015.

D’altra parte, il nutrito e rumoroso fronte euroscettico inglese era pericoloso per i Tory perché poteva sedurne l’elettorato più radicale, con il suo nazionalismo esasperato e la narrativa contro gli stranieri: lo UKIP (United Kingdom Independence Party) di Nigel Farage era stato il secondo partito alle Europee del 2009 con il 15,6%. E il più votato a quelle del 2014, con un clamoroso 26,6% che relegava al terzo posto i Tory. Un voto definitivo per restare nell’UE toglierebbe un argomento decisivo a questa gente, pensò Cameron, convinto che gli inglesi non avrebbero voluto davvero uscire da un’Unione in cui contavano e beneficiavano molto – benché i media non lo dicessero. La politica britannica a Bruxelles, concentrata come da manuale sull’impedire ogni ulteriore passo in senso sovranazionale e federale, avrebbe appunto ricavato ulteriore legittimazione da un voto Remain: il referendum arrivava proprio dopo una serie di accordi europei falliti, tutti bloccati da Londra.

 

To leave or not to leave

Ma la giocata di Cameron non si rivelò ben calcolata: l’entusiasmo degli inglesi all’idea di uscire dall’Unione Europea era maggiore del previsto, compreso quello di molti ministri che pretesero dal premier libertà di schierarsi per il Leave, benché la posizione ufficiale del governo fosse in favore della permanenza nell’Unione. La campagna elettorale fu dominata dai Brexiteers Boris Johnson e Nigel Farage, mentre i laburisti non riuscivano a rendere convincente il proprio sì alla UE. Inoltre, il voto svelò vere e proprie spaccature sociali all’interno del Regno Unito: grandi città contro provincia, centri universitari contro zone operaie, Scozia contro Inghilterra, giovani contro anziani. Il Primo ministro, dimissionario dopo la sconfitta, cedette il posto alla collega di partito Theresa May, incaricata di pilotare il Paese fino alle elezioni anticipate: il nuovo parlamento doveva scegliere il governo che avrebbe negoziato con Bruxelles l’uscita dall’Unione – la prima nella storia dell’integrazione europea.

 

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Le elezioni del 2017 videro una resurrezione dei laburisti, che guidati da Jeremy Corbyn recuperarono milioni di voti. Non bastò per vincere: i Tory aumentarono a loro volta i consensi, e riuscirono a ottenere la maggioranza dei seggi grazie all’accordo con il partito conservatore nord-irlandese. Ma i risultati del negoziato che il governo May conduceva con Bruxelles sembravano sempre deludere le “grandi speranze” dei fautori della Brexit, dominati dall’illusione che il Regno Unito sarebbe comunque restato nel mercato unico europeo. Per tre volte Theresa May portò i suoi accordi alla ratifica della Camera, e per tre volte la Camera la umiliò rifiutandoli. In soli due anni già dodici dei suoi ministri si erano dimessi, finché nella primavera del 2019 non lo fece anche lei.

Il Regno Unito tornò al voto, per la quinta volta in cinque anni. E per la quinta volta in cinque anni, tra Brexit, Europee ed elezioni generali, a imporsi fu una maggioranza conservatrice, nazionalista e favorevole a stare fuori dall’Unione Europea. Nei mesi prima del voto si erano succedute manifestazioni moltidunarie che chiedevano di rivotare sulla UE, di fronte ai fallimenti negoziali del governo May. Naturalmente un nuovo referendum era fuori discussione, ma il movimento filo-europeo metteva in evidenza le divisioni nel campo progressista, e indeboliva la leadership di Corbyn, davvero poco interessato all’argomento proprio come la base operaia laburista, oltre che colpito da numerose polemiche interne. Il 12 dicembre 2019 i Tory guidati dal campione della Brexit ed ex sindaco di Londra Boris Johnson addirittura trionfavano, con il miglior risultato in quarant’anni, mentre il Labour perdeva due milioni e mezzo di voti, in favore dei Liberal-Democratici e dei Verdi.

 

Wuthering lows

“Boris” deve tutta la sua carriera all’Unione Europea. Come corrispondente da Bruxelles di vari giornali, per lunghi anni fu capace di allietare i suoi lettori facendosi beffe dei funzionari della Commissione che nei suoi resoconti coloriti prendevano la forma di burocrati pazzi, ossessionati dal “misurare se la curvatura delle banane inglesi fosse adeguata”, “stabilire uno standard europeo per la puzza del letame”, “costringere le donne a restituire i loro vibratori”, o “far esplodere” la loro stessa sede, il Berlaymont. Una narrativa clownesca di grande successo sulla stampa britannica, dove s’è imposta. Una narrativa ovviamente a senso unico, e falsificata, che ha contribuito a fabbricare il clima sociale favorevole alla Brexit, fertilizzando quel senso di superiorità e distacco già naturalmente presente tra molti abitanti delle Isole Britanniche, rifiorito a vette xenofobe sorprendenti.

Johnson ha vinto la sfida con il parlamento di Londra, a cui ha fatto ingoiare nel 2020, sotto minaccia di elezioni anticipate, l’accordo con l’Unione Europea che prima non voleva accettare. L’accordo, tra l’altro, non ha risolto la questione dell’Irlanda del Nord: i nuovi controlli doganali penalizzano i flussi di persone e merci con il resto d’Irlanda, che nell’Unione sta ancora, e da cui le contee nordirlandesi dipendono. Lo scontento da quelle parti è stato tale da portare per la prima volta alla testa del governo di Belfast un partito cattolico favorevole all’unificazione con l’Irlanda, quel Sinn Féin che ha vinto le elezioni nel maggio 2022 e dopo un lungo boicottaggio dei partiti filo-britannici ha infine insediato la sua premier all’inizio del 2024. Ma s’è riaperto anche il fronte scozzese. A Edimburgo i nazionalisti vogliono un nuovo voto sull’indipendenza, ora che l’uscita del Regno Unito dalla UE è definitiva, e soprattutto così poco promettente: quasi due terzi degli scozzesi avevano votato Remain.

 

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A parte questo, Johnson ha sprecato la sua vittoria storica e la popolarità del suo personaggio tra scandali, litigi e controversie: restano famose le feste di ministri e funzionari Tory organizzate di nascosto durante la pandemia, alla faccia del lockdown – c’era anche Boris, of course, che si dovette scusare perfino con la regina, anche perché uno di questi allegri ricevimenti illegali si svolse il giorno prima del funerale di suo marito. Due rimpasti in due anni e la cifra record di 122 ministri avvicendati hanno suscitato una fronda interna che nel luglio 2022 lo ha costretto alle dimissioni. Prima di andarsene, ha fatto in tempo ad abolire la riforma sanitaria di David Cameron, quella “rivoluzionaria”. Per finire, ha salutato la Camera chiudendo il suo ultimo discorso con “Hasta la vista, baby”, come in Terminator 2.

Nei suoi quarantacinque giorni da premier, la subentrata Liz Truss ha potuto assistere alla morte di Elisabetta II, all’incoronazione di Carlo III e ai funerali della sovrana quasi centenaria. Ma è riuscita anche a far crollare la sterlina ai minimi storici sul dollaro, a ricevere le critiche dei mercati finanziari, della Banca d’Inghilterra, del Fondo Monetario Internazionale e del presidente USA Joe Biden, grazie al progetto di diminuzione permanente delle tasse ai ricchi, presentato senza copertura finanziaria, con cui pensava di rilanciare l’economia nazionale. Travolta dalla reazione spaventata di un’opinione pubblica ormai molto preoccupata, e mollata pure dai suoi, Truss si è dimessa lasciando i conservatori ai minimi termini nei sondaggi, e il Paese in un’atmosfera di caos che ha spinto molti media a constatare “ormai siamo come l’Italia”. Nel suo discorso d’addio Truss ha comunque rivendicato il suo piano, sostenuto da quei poteri che vorrebbero cogliere l’occasione dell’uscita dall’Unione Europea per trasformare definitivamente il Regno Unito in un paradiso fiscale per miliardari: “possiamo farlo grazie alle libertà che ci offre la Brexit”, ha ribadito.

 

The Sunak countdown

Rishi Sunak, che ne ha preso il posto dopo essere stato ministro delle Finanze di Johnson, ha un’immagine più seria e pragmatica, ma non è riuscito a mettere sotto controllo un partito ormai imbizzarrito ma anche stremato dalla mancanza di prospettive e direzione politica. All’ultimo Congresso, mentre il nuovo premier si sgolava sull’importanza della gradualità, della sobrietà, della programmazione di lungo periodo, le correnti più facinorose hanno occupato la scena. I membri più populisti sono stati acclamati, come l’ex ministra dell’Interno Suella Braverman, cacciata da Sunak per aver accusato la polizia di “trattare coi guanti di velluto i teppisti pro-palestinesi, mentre si accanisce sugli estremisti di destra”, o Lee Anderson, il vice presidente del partito che vuole reintrodurre la pena di morte, e persino Liz Truss ha incassato le sue ovazioni. Per loro resta l’immigrazione il principale problema del Regno Unito: ripresenteranno il progetto di rilocalizzazione in Ruanda di rifugiati e richiedenti asilo, nonostante il no della Corte Suprema. Se poi qualcuno dovesse lamentarsi, magari adire le vie legali, “usciamo dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo”, vociano dal partito. Dei Paesi del continente, solo Russia e Bielorussia non ne fanno attualmente parte.

In questo clima che ha molto di trumpiano, non poteva mancare di farsi vedere Nigel Farage: entro nei Tory, “se diventano conservatori davvero”, ha detto sibillinamente. Ma non dev’essere successo, dato che subito dopo ha lanciato un nuovo partito, Reform UK, portandosi dietro pure Anderson. Slogan: make Britain great again. A proposito di comeback, nell’ennesimo rimpasto a novembre 2023 è riapparso anche David Cameron: all’uomo che ha provocato l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea è stato dato il ministero degli Esteri. E il titolo di barone, che gli consente di sedere alla Camera dei Lord.

Sunak dovrà infine decidere quando indire le elezioni generali, se prima dell’estate o in autunno. Una scelta tra Scilla e Cariddi, perché i laburisti stavolta dovrebbero riuscire a vincerle, almeno per disperazione. In effetti, il loro leader Keir Starmer non brilla per carisma e ha deciso di adottare un programma molto moderato per occupare il centro dell’arena politica, fino a rischiare l’eccesso di prudenza. Gli elettori britannici, stremati anche loro, saranno presto chiamati a decidere se l’ultimo ciclo dei Tory al potere si interromperà prima di compiere quindici anni.