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Il rebus Kamala Harris, “running mate”

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Non è arrivato come un fatto inaspettato, lo scorso 25 aprile, l’annuncio di Joe Biden di voler correre, di nuovo insieme alla sua vice Kamala Harris, alle elezioni presidenziali del 2024. È almeno dal 2021 che, nell’ipotesi di una ricandidatura di Biden, Harris è accreditata come sua running mate. E questo nonostante la Vicepresidente abbia, secondo i più, ampiamente deluso le aspettative. La notizia non è stata quindi vissuta come una novità e ha subito offerto l’assist a Nikki Haley – già nella squadra trumpiana come ambasciatrice alle Nazioni Unite ma soprattutto ex candidata presidenziale repubblicana contro lo stesso Trump e ora possibile sua running mate alle elezioni del 2024 – per sferrare un attacco politico, dicendo in realtà ciò che molti pensano, e che costituisce l’incognita più grave sulla coppia Biden-Harris.

Kamala Harris e Joe Biden

 

L’enigma del consenso

Haley ha sostenuto che Biden potrebbe finire anzitempo il suo secondo mandato – morire, insomma – e che pertanto un voto per lui sarebbe in realtà un voto per Kamala Harris Presidente. Parole dure ma chiare a tutte le parti in gioco: Biden è già ora il Presidente più vecchio nella storia degli Stati Uniti e Harris potrebbe dover subentrare alla Casa Bianca. E come sarebbe la prima Presidente (donna, appunto) di origini asiatiche e di colore? Sulla carta una rivoluzione, ma nella realtà – almeno quella percepita finora dall’opinione pubblica americana – una delusione. Come Vicepresidente Harris ha visto il suo rating di approvazione scendere molto presto e altrettanto rapidamente dopo l’inaugurazione presidenziale. Di norma c’è un fisiologico calo per l’apprezzamento dei Vicepresidenti da parte dei cittadini americani, anche perché nei primi mesi la scena è tutta del Presidente degli Stati Uniti. Per Harris, però, è andata peggio.

Gallup e Rasmussen Reports, insieme ad altri istituti che analizzano la popolarità dei Vicepresidenti dai tempi dell’amministrazione Clinton, hanno rilevato che la numero due di Biden si è attestata su livelli molto bassi di approvazione, forse i più bassi in assoluto (anche sotto il 30%) e la spirale, pur recuperando, non è particolarmente migliorata negli ultimi tempi: il tasso di consenso rimane sotto il 40%.

La questione Harris è da leggere quindi anche come una certa distanza tra la leadership del Partito Democratico, che con Biden ha voluto la sua riconferma, e gli elettori. Secondo i dati di un sondaggio Harvard CAPS – Harris per The Hill: il 49% degli intervistati voterebbe Trump se la sua controparte fosse Kamala Harris, 39%. Se fosse in lizza Biden, così come annunciato, le percentuali non sarebbero comunque migliori: se si votasse oggi il 46% sceglierebbe Trump, contro il 41% che voterebbe l’attuale Presidente. Dati che vanno letti insieme ad altri due sondaggi: il primo vede la maggioranza degli elettori (70%) a sfavore della ricandidatura di Joe Biden, con un 51% di elettori democratici contrari, il secondo – in grado di dare il “sentimento” complessivo – è che gli elettori non vorrebbero proprio avere la stessa alternativa del 2020, ovvero Biden vs Trump, visto che anche il repubblicano, sebbene alle prese con diversi guai giudiziari, ha fatto capire che intende ripresentarsi.

 

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Questi numeri mostrano un nesso da approfondire: Kamala Harris è vista come una promessa mancata, e vedremo perché e se questo è imputabile esclusivamente a lei, ma fino a che punto l’insoddisfazione attuale per Harris non è condizionata dallo sfavore con cui è vista la ricandidatura di Biden e – peggio – di Biden contro Trump? Per dirla ancora più chiaramente: e se il problema di Harris fosse il suo running mate?

Thomas Friedman, celebre editorialista liberal del New York Times, nelle stesse ore dell’annuncio di Biden, in un pezzo dal titolo “Why Kamala Harris Matters so Much in 2024”, ha aggiunto altro materiale su cui riflettere: Harris dovrebbe rappresentare e raccogliere le sfide principali dell’attuale amministrazione (magari con il sostegno del Partito Democratico), perché potrebbe essere il Presidente de facto. Fin qui tutto bene.  Friedman non si ferma a queste considerazioni, opinione peraltro condivisa dalla maggioranza dei commentatori, ma fa notare due punti: Harris doveva essere preparata alla ‘Presidenza de facto’ già nei mesi passati, meglio dire anni, cosa che non è stata fatta (perché?); in più, con lei i Democratici possono puntare su una vasta area di elettori che si reputano indipendenti, non entusiasti di Biden ma il cui voto è contendibile. Nei suoi anni da procuratrice distrettuale in California, Harris si è dimostrata una figura non di opposizione al sistema, al contrario ha cercato di coniugare la difesa la difesa degli agenti di polizia – che a San Francisco in particolare – sono stati particolarmente violenti proprio nei confronti degli afroamericani, disarmati – e si è fatta portavoce della politica del “Three strikes Law” e dello “Stop and Frisk“, che hanno reso più forte il sistema carcerario californiano. Harris ha tentato di apportare miglioramenti al sistema, cercando equilibrio e facendosi apprezzare non per il suo carattere di novità (donna, nera) ma per le sue idee. Anche Friedman chiama in causa un sondaggio Gallup citato da Axios, che è pur sempre ‘un’istantanea della pancia degli elettori’. Secondo i numeri citati dall’editorialista, questa vasta area in cui i due partiti possono fare ‘shopping di voti’, ammonta al 49% degli elettori.

 

Immigrazione e riforma del diritto di voto: un portfolio difficile per la vice Presidenza

Nel giugno del 2021, nel pieno della crisi migratoria nell’era Covid, al sesto mese di presidenza Biden, dopo i quattro lunghi anni di retorica e misure anti-immigrazione da parte di Trump, Harris disse a coloro che si ammassavano al confine con gli Stati Uniti in attesa di oltrepassarlo, di tornare indietro: ‘do not come to US’ (“non venite da noi negli USA”). Il discorso di Harris fu considerato paternalistico e incomprensibile, quasi un residuo del trumpismo, secondo le associazioni che si occupano dei diritti dei migranti. Fu come se Harris avesse cancellato d’un colpo l’immagine di un’amministrazione che diceva di voler invece abrogare le restrizioni precedenti – e che in parte lo stava faticosamente facendo – dimenticando che i migranti attraversano illegalmente il confine spinti da fame, violenza, disperazione. Per quel discorso la Vicepresidente è stata criticata persino da esponenti del Partito Democratico, come la deputata Alexandra Ocasio-Cortéz.

Con quelle parole, la numero due della Casa Bianca divenne ufficialmente un bersaglio e in qualche modo appannò la forza simbolica del suo ruolo di donna, di origine asiatica e di colore, in una carica di vertice. Eppure tre mesi prima, nel marzo del 2021, lo stesso Joe Biden aveva usato, in un’intervista ad AbcNews, le stesse parole: “do not come”, senza che questo suscitasse scandalo. Biden stesso aveva affidato a Harris la questione immigrazione e la riforma del diritto di voto, confidando che il suo essere ‘non bianca’ avrebbe aiutato. Ma è stato lo stesso dossier immigrazione a bruciare tra le mani della Presidenza: sebbene Biden avesse rimosso già a gennaio le restrizioni dell’era trumpiana, ri-aprendo l’ingresso ai rifugiati, proteggendo dall’espulsione i ‘Dreamers e sbloccando l’accesso alla Green Card e al relativo Medicaid, ha però confermato l’applicazione del ‘Title 42’, una misura di prevenzione dovuta alla pandemia da Covid, emanata dall’americano Center for Disease Control and Prevention (CDC), che impediva l’accesso di stranieri nel territorio americano per ragioni sanitarie.

Se il ticket Obama-Biden, nell’amministrazione democratica precedente, aveva significato anche equilibrio e moderazione grazie alla decennale esperienza di Biden al Senato, quello Biden-Harris, intendeva esprimere lo stesso equilibrio ma a parti invertite: con il ruolo innovativo (e inesperto) di Harris come vice a compensare il centrismo del Presidente.

Sull’immigrazione però, questa compensazione non è riuscita. Il discorso di Harris, pronunciato in Guatemala, è sembrato infatti voler dire che l’amministrazione aveva il controllo del confine e si rivolgeva piuttosto a quegli elettori moderati e/o indipendenti che guardavano con preoccupazione a quello che era a tutti gli effetti il caos: il 2021 è stato un annus horribilis, sia per l’alto numero di migranti adulti bloccati al confine in condizioni disumane e sia per il record di minori non accompagnati che erano entrati negli Stati Uniti illegalmente e detenuti per mesi nei centri di identificazione. Nonostante le responsabilità dell’intera amministrazione, l’insuccesso della missione di Harris in Guatemala le ha posto, metaforicamente, una corda intorno al collo.

Nell’agenda della Vicepresidente c’è da ricordare anche la riforma del diritto di voto, portata avanti con due iniziative legislative: il John R. Lewis Voting Rights Advancement Act e il Freedom to Vote Act. All’indomani delle accuse di Trump di ‘vittoria rubata’ alle elezioni 2020, gli Stati a guida Repubblicana hanno incrementato le misure per restringere il diritto di voto, a partire dal divieto di voto elettronico, mostrando una coesione senza precedenti. Con questo scenario, Biden ha affidato a Harris il compito di fare muro contro questa ondata, impedendo che queste misure potessero estendersi tra gli Stati e favorendo il rafforzamento del diritto di voto, soprattutto per contrastare le discriminazioni razziali. Un incarico importante, potenzialmente perfino storico.

Harris ha costruito un gruppo di pressione, ingaggiando i leader dei movimenti per i diritti civili (soprattutto afroamericani), montando una forte pressione sul Congresso e agendo direttamente sui suoi rappresentanti, coinvolgendo persino le agenzie federali. Infine guadagnando la scena, parlando nell’anniversario dell’assedio a Capitol Hill del 6 gennaio accanto al Presidente e accompagnandolo in Georgia, intervenendo con un suo discorso. I due provvedimenti però sono ancora bloccati al Congresso, in parte per il voto contrario, al Senato, del Democratico Joe Manchin, e per il passaggio della Camera sotto il controllo dei Repubblicani a partire dal voto di Midterm di novembre 2022.

Il Partito Democratico ha reso i due provvedimenti imprescindibili per l’agenda Biden, fin dai primi giorni del mandato, ed in effetti sarebbe una misura rivoluzionaria: l’H.R. 4 – il nome dell’iniziativa legislativa John R. Lewis Voting Rights Advancement Act – se approvata dal Congresso, darebbe al governo la possibilità di bloccare le leggi statali discriminatorie sul diritto di voto. Al tempo stesso, il Freedom to Vote Act – misura legislativa che deriva dal For the People Act – punta ad espandere l’accesso al voto e contrastare gli sforzi da parte del GOP di alterare i provvedimenti legati alle elezioni, ma è stato inserito in un complesso schema di pacchetti di misure che non riescono ancora a trovare un consenso, anche qui perfino nel Partito Democratico.

Il lavoro di Harris ha comunque prodotto risultati: diversi Stati a guida democratica hanno infatti approvato leggi che vanno nella direzione dei due provvedimenti, cercando così di rafforzare i diritti di voto. Tuttavia il risultato finale ancora manca: Biden, per il 58esimo anniversario del ‘Bloody Sunday’ a Selma, in Alabama, lo scorso 5 marzo, ha rinnovato l’appello al Congresso affinché approvi queste due misure. Ma con questi ultimi 18 mesi che separano il Congresso dalle elezioni del 2024, è improbabile che accada. Viene quindi da chiedersi se la missione assegnata ad Harris non sia stata eccedente le sue possibilità, se, in sostanza, oltre che all’inesperienza della Vicepresidente, il fallimento sia addebitabile a una mancanza di realismo di Biden, e di coesione del Partito Democratico.

 

Non si cambia un simbolo

A chi non ha gradito la conferma di Harris per la corsa del 2024, ci sarebbe da ricordare che cambiare una running mate come lei appare una sfida improba e anche sconveniente: sulla carta tutto sarebbe (stato) possibile fino all’annuncio del 25 aprile, ma il simbolo costruito sulla figura di Harris – come ricordato, donna, di origini asiatiche e di colore – ha ancora una forza troppo grande per essere sostituito da un candidato o una candidata anche più preparata ma che non abbia una connessione con le minoranze, con l’inclusione, con la storia di Harris, figlia di due genitori immigrati, e che rappresenta l’America aperta e più giusta – proprio secondo la visione del Partito Democratico.

 

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Harris ha fatto parlare di sé anche per i difficili rapporti con i suoi collaboratori, per i continui cambi di staff, per aver assunto sua sorella, per non aver dimostrato continuità e non essere riuscita a crearla per la sua immagine e per la sua comunicazione. È stata oggetto di facili attacchi sulle reti sociali, di campagne d’odio che hanno avuto sapore sessista e razzista. Tuttavia l’aver voluto giocare, da parte sua, un ruolo di mediazione con gli elettori più moderati – un ruolo quasi centrista che Biden ha smesso di interpretare negli ultimi tempi – alternandolo ad uno più progressista quando si è espressa sul diritto all’aborto, come ha fatto nel suo discorso alla sua ex alma mater Howard University poche settimane fa, ha restituito di lei una figura incerta, involuta, senza un’identità chiara, soggetta ai contrasti dello stesso Partito Democratico. Una figura dunque ancora problematica su cui si dovrà lavorare molto in vista delle elezioni del 2024.