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Il nuovo attacco jihadista a Istanbul e le strategie della Turchia

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Stanno lentamente emergendo i dettagli più rilevanti – identità dei terroristi, modalità operative – che consentono di interpretare l’attacco suicida all’aeroporto internazionale Atatürk di Istanbul del 28 giugno. Il bilancio è ormai pressoché definitivo: 44 morti di cui 19 stranieri e 230 feriti. Anche la dinamica e la matrice sono sufficientemente chiare.

I tre kamikaze sono arrivati in taxi, con alcune fonti che parlano di un commando di 7-8 membri (gli altri sarebbero riusciti a fuggire). Le esplosioni sono state in sequenza. Un primo attentatore è stato smascherato da un poliziotto in borghese – a causa del suo giubbotto che nascondeva la cintura esplosiva, piuttosto inusuale in piena estate – e ha azionato la carica nell’area sosta davanti all’ingresso. Gli altri due hanno assaltato a colpi di kalashnikov l’ingresso degli arrivi, meno sorvegliato del lato partenze, sfruttando anche il panico creato dalla prima deflagrazione: uno è riuscito a farsi esplodere tra la folla, l’altro è riuscito ad entrare nel terminal ma è stato colpito da un vigilante (la successiva esplosione non ha fatto vittime). Non ci sono state particolari falle nel dispositivo di sicurezza comunque in costante allerta, la risposta è stata pronta e professionale: altrimenti le vittime sarebbero state centinaia.

I sospetti si sono unanimemente concentrati sin dal principio sull’ISIS (o Daesh, nell’acronimo preferito dalle autorità turche), soprattutto in virtù del livello organizzativo sofisticato necessario a portare a segno l’attacco: intelligence, armi, logistica, coordinamento tra i membri del commando.

È già l’ottavo attentato organizzato dai jihadisti in Turchia dal 2015, ma quelli compiuti da affiliati locali sono stati di molto più facile esecuzione: uno o due terroristi che hanno colpito in spazi aperti, prima contro il movimento politico curdo lo scorso anno, e poi mirando ai turisti a Istanbul in gennaio e marzo. Per questo motivo, l’ulteriore ipotesi avanzata era quella di militanti addestrati militarmente inviati dalla Siria, in grado comunque di approfittare delle reti logistiche in loco.

La risposta è arrivata giovedì: gli attentatori sono di cittadinanza russa (un ceceno, o daghestano), uzbeca e kirghisa. Hanno alloggiato per alcuni giorni ad Istanbul nel quartiere centrale di Aksaray, dove sono insediate nutrite comunità provenienti dai paesi dell’ex-Unione sovietica e rifugiati siriani: la base perfetta per non dare troppo nell’occhio. A Istanbul vivono anche gruppi di ceceni legati alla malavita e alla dissidenza politica, e le cronache testimoniano omicidi di alto profilo attribuiti spesso all’intelligence russa.

E sempre dalla Siria, è stato reso noto, sono partiti altri commando per ulteriori attentati: ad esempio due aspiranti attentatori suicidi di nazionalità siriana già noti all’intelligence turca, secondo quanto affermano le autorità militari, sono state uccisi mentre tentavano di attraversare illegalmente il confine nella notte di lunedì 25 giugno.

Insomma, la minaccia jihadista in Turchia ha subito una completa metamorfosi. Questo soprattutto perché sono ormai state smantellate le più pericolose cellule locali, prima quella di Adıyaman – i suoi principali aderenti hanno compiuto attentati suicidi, come quello particolarmente sanguinoso alla stazione di Ankara nell’ottobre 2015 – e poi a maggio quella di Gaziantep (nel sud del Paese, vicino al confine siriano). Il leader di quest’ultima è uno dei personaggi di spicco del movimento estremista in Turchia, Yunus Durmaz, si è fatto esplodere mentre era in atto la sua cattura; nel suo computer portatile, sequestrato in un precedente raid, erano stati trovati piani dettagliati per azioni in 19 diverse città con lo scopo dichiarato di seminare animosità tra le minoranze etniche e religiose (curdi e aleviti) e di danneggiare l’industria turistica. Obiettivo ultimo: destabilizzare la Turchia.

Queste cellule erano riuscite ad affermarsi essenzialmente per tre motivi: primo, l’esistenza di un network già attivo, creato da reduci della guerra contro l’Unione Sovietica in Afghanistan e animato da alcuni predicatori integralisti, successivamente trasformatosi in qaedista e poi passato in orbita Daesh. Secondo, un iniziale lassismo da parte delle autorità turche, che hanno tollerato movimenti di uomini e mezzi tra Turchia e Siria per favorire le attività dei ribelli anti-Assad, anche jihadisti. Terzo, la comunque naturale porosità del confine, esteso per 911 chilometri e attraversato dai passaggi storici dei contrabbandieri.

Gli aderenti turchi dello Stato Islamico, pertanto, hanno potuto sia ricevere addestramento in Siria, sia equipaggiamento e armi dalla Siria; si sono rifugiati al di là del confine quando le azioni antiterrorismo all’interno – a partire dal 2015 – si sono fatte più pressanti, per poi tornare in Turchia e compiere le loro azioni terroristiche. Sono riuscite almeno in parte nell’intento, anche se con sempre maggiore difficoltà perché la frontiera è stata gradualmente blindata.

L’attentato all’aeroporto di Istanbul può essere letto proprio come una risposta alla stretta antiterrorismo e ai suoi risultati tangibili e importanti, a cui si deve aggiungere l’impegno rafforzato dell’artiglieria turca nel colpire le posizioni jihadiste nel nord della Siria.

L’obiettivo apparente è triplice. Intanto, Daesh vuole agire sulle profonde divisioni politiche e mettere in crisi settori economici – il turismo – dall’elevata rilevanza occupazionale, così da alimentare sentimenti antigovernativi e magari proteste di piazza contro il presidente Recep Tayyip Erdoğan. Inoltre, trovandosi sotto pressione militare in Siria e Iraq, vuole motivare i propri membri e incentivare il reclutamento rinnovando la propria immagine di potenza e abilità bellica. Infine, vuole spingere le Forze armate turche a un intervento diretto in territorio siriano per avere a disposizione bersagli più facili.

Come si evince dalla propaganda jihadista contenuta nella pubblicazione in lingua turca Konstantiniyye – il nome ottomano di Istanbul – la Turchia alleata storica dell’Occidente e fortemente occidentalizzata, comunque antagonista del fondamentalismo islamico, è considerata apostata e pertanto un nemico da abbattere: va destabilizzata per trasformarla in una nuova Siria, in un nuovo teatro di guerra.

Quale sarà la risposta turca? Al di là del rafforzamento di alcune misure generali di sicurezza, peraltro già irrobustite in modo significativo negli ultimi due anni, non sono attesi cambiamenti essenziali: Ankara continuerà a colpire i jihadisti locali e a sostenere l’offensiva contro Daesh in Siria e in Iraq, evitando però un intervento di terra se non nell’ambito di iniziative a guida Nato o Usa (che appaiono piu’ probabili nel caso in cui venisse eletta alla presidenza Hillary Clinton).

Dei cambiamenti ci sono in effetti stati proprio alla vigilia dell’attacco del 28 giugno, ma riguardano scenari più ampi: la normalizzazione formale dei rapporti con Israele interrotti dal maggio 2010 in seguito all’eccidio della Mavi Marmara, e la ripresa del dialogo con la Russia dopo l’abbattimento di un jet di Mosca al confine turco-siriano nel novembre 2015.

La nuova strategia della Turchia è quella di appianare i contrasti coi partner regionali, al fine di ammortizzare le ricadute negative e destabilizzanti del proprio impegno nella crisi siriana. Rimane però il convincimento dei vertici politici che la minaccia terroristica verrà completamente neutralizzata solo ricostruendo la piena autorità dello Stato centrale in Iraq e assicurando una transizione per eliminare il regime di Assad in Siria.