Il mondo dei Democratici che guarda alla Casa Bianca
Se c’è un fatto che balza subito agli occhi nella campagna elettorale americana, è il riannodarsi dei fili della storia nelle scelte politiche e nelle evoluzioni della società. Il Partito Repubblicano che si era compattato infine attorno a Donald Trump anche grazie al fallito impeachment lanciato dai Democratici, mostra a pochi giorni dal voto un atteggiamento defilato: diversi candidati repubblicani (al Congresso oppure nelle elezioni statali e locali) stanno tentando di smarcarsi dal nome del presidente, cosa naturalmente letta come un segnale di vantaggio a favore del democratico Joe Biden. Sappiamo però, e la storia del 2016 ce lo ricorda, che le interpretazioni sui movimenti interni ai partiti, soprattutto se unite a sondaggi generosi con i Dem, vanno prese sempre con le pinze.
Narrazioni, generazioni
Quel che invece accade in casa democratica, causa di un frizzante ottimismo, è che la candidatura di Biden, vicepresidente durante i due mandati di Barack Obama, riannoda il filo interrotto tra le amministrazioni del “primo Presidente di colore” e la candidatura sconfitta di Hillary Clinton nel 2016. E lo fa non solo per l’ordine naturale delle cose, un uomo della squadra Obama che conquista il sostegno del partito e torna a guidare la riscossa contro Trump e il trumpismo. Ma perché comporta una doppia grande sfida: parlare a un’America in cui l’elettorato non-bianco – le cosiddette minority-majority – è cresciuto negli ultimi dodici anni a scapito di quello bianco, ed è cresciuto maggiormente nella componente giovane. Quei millennial che nel 2016 Clinton cercava di convincere girando per i campus universitari, tendenti in maniera massiccia verso il partito democratico.
L’anno prima, nel 2015, la generazione millennial aveva superato per numero di componenti quella dei baby-boomer, a cui appartengono i Biden, Clinton, Pence e Trump per capirci. Nel 2019 i giovani tra i 23 e i 38 anni secondo i dati del Census Bureau erano 72,1 milioni mentre i nati dopo o intorno la seconda guerra mondiale si attestano intorno ai 71,6 milioni. Un cambio di prospettiva che non è solo generazionale, perché il numero dei giovani cresce grazie alle minoranze non bianche, che hanno fatto più figli negli ultimi venti anni: nel 2033, le persone tra i 23 e i 38 anni raggiungeranno secondo il Pew Research Center il numero di 74,9milioni.
Ma la storia non torna sul luogo del delitto invano. Nel 2016, la candidata per i Dem, Hillary Clinton lanciò il suo spot elettorale: un video di due minuti e mezzo in cui i protagonisti erano due giovani latinos, una coppia di afro-americani, una studentessa; “tutti pronti per il futuro” recitavano, assieme a pensionati e casalinghe più avanti con l’età. Oggi come allora, i baby-boomer come Clinton e Biden, dei millennial non possono fare a meno.
Nel 2020, Biden deve infatti tessere una trama di fili e nodi per comporre un messaggio promettente: riprendere il cambiamento interrotto di Obama. Con alcune differenze: un approccio più centrista, perché Biden è un candidato moderato. Una società che è diventata ancora più multirazziale, soprattutto non bianca e con una componente ispanica attiva quasi quanto gli afro-americani. La presenza, dal grande potenziale simbolico oltre che concreto, della “Obama donna” di questa campagna: Kamala Harris.
In un video su IGTV (l’applicazione per i video di Instagram) Kamala Harris, la running-mate, candidata vicepresidente per Biden, racconta della madre, biologa indiana, e delle giornate passate con lei, assieme alla sorella, nei laboratori dove la mamma lavorava per la ricerca contro il cancro al seno. La cornice narrativa non è più quella della società “giusta” e coesa dal patto inter-generazionale proposta da Hillary Clinton, ma il soffitto di cristallo rotto da una donna indiana: una donna che lavora per la ricerca scientifica, la conoscenza e il bene della società tutta, non solo americana, e che porta al lavoro le sue figlie, insegnando loro come si rompe quel soffitto.
Cosa ci rivela Kamala di Joe
A guardare i sondaggi, cinque giorni prima del voto, i democratici hanno la possibilità di conquistare la Presidenza, tenersi la maggioranza alla Camera, e addirittura “catturare” il Senato che all’inizio di quest’anno, l’annus horribilis del Covid, sembrava fuori portata. Gli 8 punti percentuali di vantaggio per il candidato democratico Joe Biden sul Presidente in carica Donald Trump (29 ottobre) che fanno anche chiedersi: vincere sì, ma per portare cosa alla Casa Bianca?
La candidatura di Biden, un moderato, si è detto, e che ha vinto le primarie benché parte del Partito Democratico si fosse spostato molto più a sinistra, ad oggi rivela alcuni tratti ma non molto di quello che sarà il cuore della sua possibile presidenza.
Quel cambiamento interrotto, non sembra possa spingersi molto oltre il limite raggiunto: nessuna riforma sanitaria ma il mantenimento e miglioramento dell’esistente a fronte della pandemia (c’è da difendere l’Obamacare messo sotto torchio da Trump), probabilmente il rientro degli Stati Uniti negli accordi sul clima di Parigi e meglio ancora un passo avanti sul climate change, forse la messa in sicurezza del DACA (Deferred Action for Childhood Arrivals, a tutela dei cosiddetti “dreamers”) con cui proteggere i figli dei migranti senza cittadinanza nel paese, magari un Dream Act che risolva la gestione del percorso della cittadinanza e la regolarizzazione degli immigrati o figli degli immigrati, sicuramente una forte discontinuità se non un vero e proprio cambio di passo sui flussi migratori al confine sud e la relativa gestione da parte del dipartimento dell’immigrazione e sicurezza (ICE), una retromarcia se non lo smantellamento (più difficile) del muro con il Messico. Tutto quello che un Presidente democratico centrista, assieme all’aumento del deficit pubblico, più un pizzico di tasse per i ricchi e leggi contro le speculazioni finanziarie, farebbe.
La differenza che questa ipotetica nuova Casa Bianca potrà imprimere sta invece nell’aver scelto Kamala Harris come Vicepresidente: la Senatrice Harris offre un’indicazione su quale sarà la tendenza ideale della futura amministrazione Biden.
Kamala Harris, 55 anni, non una baby-boomer, Senatrice per lo Stato della California, magistrato e procuratore generale, è figlia non solo di una donna indiana ma di un economista giamaicano: sarebbe, se Biden vincesse le elezioni del 3 novembre, la prima donna afro-americana e asiatico-americana a rompere il tetto di cristallo della Casa Bianca. La promessa che porta con sé è quella di restituire competenza al governo.
C’è una linea sottile che si snoda sul concetto di law & order che i Democratici hanno avuto cura, fin qui, di non oltrepassare: sfruttare l’immagine di cambiamento di Kamala, tenendo nell’ombra il suo passato di pubblico ministero in California, stato dove non è riuscita ad imprimere un cambio di passo nelle disfunzioni del sistema carcerario e in cui si è battuta contro la legalizzazione della cannabis. Tutte questioni su cui Trump avrebbe la meglio. L’asset che Kamala porterà in dote è dunque soprattutto l’opportunità di identificazione per una platea di elettori più trasversali, le minoranze ispaniche e asiatiche, ma anche afro-americane, ma senza strappi politici e ideologici. La Harris infatti è anch’essa una candidata centrista.
Il voto Dem e i cambiamenti ideologici e demografici
Negli Stati dove sarà decisivo ogni voto, la componente ispanica è cresciuta più di ogni altro gruppo etnico. In tutti i cinquanta Stati americani, la quota di elettori bianchi non-ispanici è diminuita tra il 2000 e il 2018, mentre i potenziali elettori di tutte le altre minoranze sono cresciuti.
Secondo il Pew, la demografia dell’elettorato è cambiata, a favore della minoranza soprattutto ispanica, nel sud ovest degli Stati Uniti, Nevada, California e Texas, ma non solo. La tendenza è forte in alcuni Stati decisivi, come Florida e Arizona, dove rispettivamente il 20% e il 24% degli elettori potenziali nel 2018 erano ispanici, più del doppio rispetto a vent’anni prima.
Come votano o voterebbero, di norma, questi potenziali elettori? Afro-americani, ispanici e asiatici, sulla base degli elettori registrati intervistati dal Pew Research Center Survey, tendono verso il partito democratico ma dal 2017, questa tendenza è andata riducendosi. Mentre è cresciuta di 3 punti la quota di coloro, sempre appartenenti a queste minoranze, che si identificano con i repubblicani.
Identificazione e tendenza sono tuttavia differenti, come ricorda anche il Pew, perché l’identificazione consente di avere un elettore che è già schierato ma che va portato al voto, ma la “tendenza verso un partito” rappresenta un elettore che va anche convinto, prima di essere portato al voto. Dal punto di vista dell’identificazione, il partito Democratico ha guadagnato 8 punti (nella quota di persone che si registrano e si definiscono “democratici”) rispetto al 2017: evidentemente, una reazione di rigetto ideologica all’amministrazione Trump da parte di elettori già tendenti ai Dem, che hanno così confermato da che parte volevano stare.
C’è poi la componente “gender”: le donne sono associate maggiormente al partito Democratico ma anche qui, dove si potrebbe intravedere un vantaggio per i democratici, il quadro per Biden si fa più fosco se viene visto all’opposto: il 39% degli uomini si definiscono indipendenti rispetto al 30% delle donne, e sarà dunque più complesso portarli dalla propria parte. Un “gender gap” che diventa un gap da colmare: convincere coloro che non hanno ancora deciso, in questa elezione 2020. Cosa si aggiunge a questo quadro: i soliti millennial, o comunque una coorte di giovani under 40, che si è visto dai numeri possono rappresentare una chiave per il voto: continuano a tendere verso i democratici (54% dei registrati al voto, tendenti o identificati con i Dem), ma nel 2016 non hanno fatto la differenza per Clinton.
I baby-boomer, da parte loro, si mantengono stabili nella preferenza per il voto repubblicano. C’è invece un’incognita, un’incertezza che pesa come una spada di Damocle sui Dem e sul Gop: la cosiddetta “silent generation”, la coorte d’età di nati prima della seconda guerra mondiale (qualcuno di loro l’ha anche combattuta), sembra dividersi quasi alla pari tra il Partito Democratico e il Partito Repubblicano con un 48 e un 49%.
Il voto del 2020 dunque porta in nuce la necessità di un compromesso per entrambi i partiti: da una parte, risolvere il dilemma dell’ideologia per il Gop, concentrandosi sui bisogni dei cittadini in tempi di Covid e la crisi economica da esso determinata, anche modificando la propaganda trumpiana sui “crazed leftists”, democratici socialisti e impenitenti perché il ring di gioco – il sistema sanitario – è scivoloso in tempi di Coronavirus. Dall’altra dare dignità al doppio messaggio, per il Partito Democratico: cambiamento e centrismo non sono in antitesi.