Il metodo Musk
Articolo pubblicato sul numero 99 di Aspenia
Un ragazzo sudafricano non troppo abile a parlare, ma abbastanza “nerd” da riuscire a diventare competente nella costruzione di imprese che vanno ai confini dell’immaginazione. Ha sfidato le istituzioni finanziarie tradizionali sui sistemi di pagamento nel web, insieme a Peter Thiel, con PayPal. Ha fatto concorrenza alle grandi case automobilistiche contando su motori elettrici, intelligenza artificiale e batterie al litio, con Tesla. Ha debuttato nella space economy, producendo missili capaci di tornare sulla Terra per essere riutilizzati, lanciando una costellazione di satelliti per l’accesso a internet che finalmente funzionano (Starlink) e inventando, nel frattempo, la narrativa tragica dei primi umani che andranno a morire su Marte, con SpaceX. Si è convinto che si possano davvero impiantare chip nel cervello, con Neuralink. E ora tenta di riconfigurare gli equilibri nelle reti sociali e non sembra perdere la propria ingenuità di fronte alla complessità infinita di una simile operazione, con Twitter. Intanto ha fatto dieci figli, da partner diverse, senza riuscire a essere simpatico a tutti, ma puntando sul piacere statisticamente a qualcuno di loro e comunque chiamandone uno con il nome della variabile per eccellenza: X.
In tutti questi casi Elon Musk ha percorso territori sconosciuti o almeno fortemente azzardati, dimostrando un solo filo conduttore: il suo approccio scientifico – provare, sbagliare, imparare – lo ha condotto a risultati che sembravano impossibili e non lo erano. Il suo maggiore successo, in fondo, è quello di essere restato credibile nonostante tutti i suoi annunci sbagliati, le promesse non mantenute, le sbruffonate superficiali, gli errori nella gestione dei mercati finanziari, le vere e proprie infrazioni alle regole. Che sia descritto come un imprenditore straordinario o come un nuovo nodo del potere mondiale è un problema in più del quale si è fatto carico. Del resto, questo atteggiamento attuale ha un precedente: quando qualche anno fa ha saputo che Ashlee Vance aveva deciso di scrivere la sua biografia, ha tentato sulle prime di intimidirlo e non essendoci riuscito ha cominciato ad aiutarlo.
PER UN PUGNO DI DOLLARI. È quasi insopportabile, Elon Musk. Non si riesce ad ascoltarlo con attenzione per quelle sue frasi sincopate. Non si riesce sempre a distinguere tra quello che dice per divertire e quello che dice per esprimersi. E poi non si riesce ad accettare che possa prendere in giro il mondo aiutando prima l’Ucraina con Starlink, con risultati decisivi, poi qualche mese dopo ghiacciando la resistenza del paese attaccato dalla Russia, con l’annuncio della possibilità di abbandonare tale operazione; e questo solo per confermare, qualche ora dopo, che Starlink resterà gratuitamente al fianco dell’Ucraina. Oppure quando sbruffoneggia a ted su come cambierà Twitter per poi cominciare a tentennare, arrivare alla causa in tribunale, comprendere che è destinato a perderla, accettare di completare l’acquisizione per 44 miliardi di dollari, e in pochi giorni licenziare tutti i maggiori manager del social network per sostituirli personalmente. E già che c’è, nella prima settimana, decidere di mandare a casa la metà dei collaboratori.
Il tutto per avviare in pochi giorni una rivoluzione nel modello di business dell’azienda. Sulle prime dice che farà pagare 20 dollari al mese per quella spunta che garantisce l’identità degli autori degli account. Stephen King, autore di bestseller, risponde che dovrebbe essere Twitter a pagare gli autori e non il contrario. E Musk risponde direttamente su Twitter, chiedendo se invece di 20 dollari sarebbe disposto a pagarne 8. Insomma, quel 1° novembre 2022, una persona che possiede 500 milioni di dollari e un’altra che ne ha 200 miliardi hanno mercanteggiato per un pugno di dollari. Ma tutti quelli che seguivano la discussione sapevano che quei pochi soldi avrebbero cambiato il senso della partecipazione a Twitter per milioni di persone, creando nuovi incentivi in un sistema complesso, finora dominato solo dalla logica della pubblicità.
I suoi annunci bombastici che non si realizzano non hanno eliminato la sua credibilità perché poi alla fine i risultati li ha ottenuti, anche se magari sono stati diversi da quelli che immaginava. Ma questo è proprio il punto: non è un tecnologo; non è un imprenditore prudente con gli investimenti; non è neppure un abile negoziatore nel mondo della finanza. Anzi spesso lo combatte, quel mondo. Probabilmente non considera i soldi un fine, ma un mezzo: quando è abbondante lo usa senza pudore, ma sa che cosa significa la sua scarsità, come è successo nel 2008, quando Tesla era prossima alla bancarotta ed è stata salvata alla vigilia di Natale dalla Daimler. Di certo ha soldi e notorietà, ma vuole anche il potere.
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UN NUOVO MODELLO DI CAPITALISMO. Elon Musk raggiunge i propri obiettivi per tentativi ed errori. Quello che ha chiesto ai suoi tecnici, all’inizio della vicenda di Space X, è indicativo: voleva portare al limite i razzi in modo da farli scoppiare e imparare dove erano i loro punti deboli. Non erano errori, era ricerca. Non erano discrepanze tra promesse e realizzazioni, ma tra ipotesi e risultati sperimentali. Certo, non è un modo ortodosso di fare l’imprenditore. E infatti Musk non ha molti imitatori.
Ma il suo successo non manca di suggerire molti problemi e qualche idea su come stia evolvendo il capitalismo americano. Da un certo punto di vista, Musk prosegue e accentua l’idea di un mondo di aziende autoreferenziali nella creazione del proprio destino, ben disposte nei confronti dello Stato quando si tratta di ottenere commesse e fatturato, ma insofferenti per le regole definite dallo Stato stesso nella gestione del personale o nei limiti definiti dai regolatori del mercato finanziario, appellati senza pudore “bastardi” in un’intervista per TED.
Si direbbe che Musk veda le proprie aziende come un mondo a parte. L’imprenditore è energia, focalizzazione e visione, ma non è un modello che si ripete simile a sé stesso in tutte le situazioni. Nella gestione del personale ci sono soluzioni diverse, nei diversi contesti. A Space X il management delle persone è molto aperto, quasi una forma di auto-organizzazione, fondata sulla costruzione di consenso tra pari più che sulla gerarchia, come racconta un testimone che preferisce restare anonimo. Tutto il contrario per Twitter, a quanto pare dell’esordio imprenditoriale, almeno secondo le testimonianze raccolte da Hanna Murphy e Ian Johnston per il Financial Times: abituata a lavorare in una rilassata ma formalizzata organizzazione manageriale, la squadra di Twitter si è ritrovata in un’azienda familiare, con un cerchio di persone fidate del proprietario a decidere tutto, nella quale il capo ha innescato una frenesia lavorativa che ha portato molti a restare in azienda anche di notte per accontentare il nuovo proprietario e altri a sperare di essere tra i licenziati, o a progettare le dimissioni. Kushal Dave, un direttore dell’ingegneria di Twitter, ha scritto su LinkedIn: “Sinceramente felice di essere licenziato. L’avvento di Elon Musk è ‘bacato’. Per quando disordinata fosse Twitter prima di Elon, ora è diventata una buffonata, fatta di manovre politiche, presentismo e abusi psicologici”. D’altra parte, per un megastartupper non è del tutto facile applicarsi a un’azienda già grande e con una cultura già sedimentata: forse la via di Elon a Twitter deve per forza essere quella di imporre un “nuovo inizio”. Musk non pensa di poter agire gradualmente: tutto ciò che conta veramente deve per forza essere imprevedibile e dirompente.
Il nuovo corso del capitalismo americano sembra sintetizzato in questa vicenda. Il mondo degli stipendi si distacca decisamente dal mondo dei guadagni in conto capitale. E questi sono determinati dalle aspettative di rapida e duratura crescita. Si tratta di un capitalismo ai cui vertici ci sono molti casi di imprenditori che hanno inventato nuovi mercati, innovando con la tecnologia e i modelli di business, e che si sono così costruiti zone protette dalla competizione. E proprio per questo sono premiati da una finanza che inneggia ideologicamente al mercato libero, ma che crede davvero solo in chi controlla il mercato.
Una dinamica, questa, che può funzionare soltanto se gli imprenditori innovativi e il loro sistema abilitante si costruiscono una narrativa adeguata alla ricerca del consenso per la stabilità del loro status: una narrativa che – come succede in politica – garantisca ai protagonisti una presenza in scena continua, una capacità di suscitare ammirazione e impatto mediatico, una leadership indiscutibile. Per il funzionamento di questa dimensione del capitalismo occorre, infatti, che gli imprenditori siano seguiti da schiere vastissime di credenti nella loro visione, per tutto il periodo nel quale le loro innovazioni devo trovare i motivi del loro valore. Il loro potere si misura con i follower. Il loro impatto assomiglia a quello ricercato da politici e influencer.
Di certo, in Cina sarebbe impossibile un protagonismo del genere. È dimostrato dal giro di vite che il regime di Pechino ha deciso per ridurre il potere dei costruttori delle grandi compagnie digitali cinesi. E lo dimostra lo stesso Musk che mentre protesta sulle regole a garanzia dei lavoratori in California, accetta senza fiatare quello che impongono le autorità cinesi in relazione all’organizzazione in fabbrica nel grande paese asiatico. D’altra parte, nella logica comunicativa degli imprenditori americani, la coerenza non è sempre valore: solo il risultato conta.
LA MANO (DENIGRATA) DELLO STATO. L’intervento statale sta invece ritornando a contare per questo ceto imprenditoriale. Amazon, SpaceX, Microsoft e Google devono certamente una parte del fatturato alla spesa pubblica. Nonostante l’ideologia antistatale corrente. E il gigantismo che devono perseguire per fare bella figura nelle classifiche delle grandi aziende globali è misurato non in termini di fatturato, ma di capitalizzazione. Il che ancora una volta sottolinea il valore delle apparenze rispetto al valore della sostanza: il fatturato è composto da atti di vendita, cioè si realizza se i prodotti dell’azienda convincono qualcuno a comprare le azioni; la capitalizzazione è dovuta alle valutazioni compiute da un sottoinsieme del mercato, la borsa. La capitalizzazione è una variabile molto più soggetta a variazioni quotidiane, si forma su un mercato nel quale gli operatori ragionano in termini ben più complessi e astratti di quelli che guidano il mercato dei beni e servizi.
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Questa fase del capitalismo premia un pragmatismo alimentato da visioni utili a creare in anticipo – nella mente dei potenziali compratori – delle nicchie nelle quali si potranno testare le innovazioni. Soprattutto, si tratta di una fase coerente con la logica della rete: in questo contesto si moltiplicano le possibilità di costruire aziende che sbaraglino la concorrenza sfruttando quell’effetto-rete capace di garantire che “chi vince piglia tutto”. In questo contesto, i fenomeni non sono descritti dalla curva gaussiana in cui tutto quello che conta avviene attorno alla media; sono piuttosto descritti dalla curva chiamata power law (o legge di potenza) che registra la concentrazione e la polarizzazione delle risorse. E non a caso uno dei bestseller dedicati al capitalismo americano attuale si intitola proprio The Power Law, scritto da Sebastian Mallaby per raccontare il contributo del venture capital nella costruzione del futuro. Si tratta di un tipo di finanza che cerca le opportunità estreme, che accetta una enorme quantità di fallimenti pur di riuscire a trovare un piccolo numero di successi enormi. Se il resto delle istituzioni finanziarie punta alla prevedibilità dei fenomeni, il venture capital funziona pensando che il futuro non si possa prevedere, ma soltanto scoprire.
Se un’idea imprenditoriale pensata per la rete prende piede, in effetti, il suo valore “scala”, cioè la sua capacità di generare cassa, cresce con una velocità superiore alla necessità di accrescere i costi. Sono imprese che non si possono pianificare in base alle previsioni dei business plan, ma si possono guidare con l’esperienza, l’energia, l’ingenuità, e talvolta la brutalità. È un sistema che vuole diventare una fabbrica di “cigni neri”, nel senso definito da Nassim Taleb. E l’ambiguità del termine “power” è perfettamente adeguata ad alludere alle varie dimensioni di questo modello imprenditoriale e finanziario.
L’accoppiata fra imprenditori come Elon Musk e venture capital era originariamente presente soltanto negli Stati Uniti. Poi si è riprodotta in Israele, in Canada e Australia, nel Regno Unito e lentamente nel resto d’Europa, forse un po’ anche in India e Sud America. In Cina è nata, ha avuto un immenso successo ed è stata frenata dalla politica.
Il modello comincia ad avere una forma riconoscibile. Forti investimenti in ricerca, magari sostenuti dallo Stato e dalla spesa militare; emersione di potenziali imprese innovative e forti investimenti in venture capital per far crescere aziende che non hanno fatturato ma dimostrano il potenziale di conquistare mercati importanti o inventarli del tutto. Una prospettiva di remunerazione del capitale che si realizza con i pochi enormi successi necessari a ripagare la pletora di insuccessi. A quel punto la ricchezza generata va fuori scala. Così nel territorio dei fenomeni estremi diventa nel tempo estrema anche la comunicazione. O almeno di questo forse è convinto Musk. Il mercato dell’attenzione gli ha dato ragione. Il mercato dell’attendibilità deve ancora decidere.
Questo articolo è stato pubblicato sul numero 99 di Aspenia