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Dalla Dottrina Gerasimov alla Dottrina Putin

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 Vladimir Putin ha deciso che il Capo di Stato Maggiore delle forze armate russe, il Generale Valery Gerasimov (in carica da ben dieci anni), è ora direttamente responsabile delle operazioni militari in Ucraina. Siamo ormai abituati a repentini avvicendamenti dei vertici militari, che in questo caso vedono il predecessore al comando sul terreno, Generale Sergey Surovikin, quantomeno ridimensionato seppure non rimosso. Non serve un cremlinologo per immaginare che dietro i continui ricambi al vertice vi siano anche faide interne che prefigurano il futuro del Paese, ma quest’ultimo episodio è interessante per ragioni ancora più ampie.

Vladimir Putin e Valery Gerasimov

 

Il Generale Gerasimov non è soltanto una figura centrale nelle alte gerarchie militari; è anche il personaggio che ha dato il nome a una “dottrina” di politica estera, o meglio a una modalità di uso della forza militare al servizio di obiettivi politici. Un famoso articolo del 2013, a sua firma, è da allora considerato il riferimento concettuale che la Russia ha adottato: in estrema sintesi, un mix di strumenti mediatici, tecnologici, e paramilitari sarebbe utilizzato contro i nemici per provocare confusione e disorientamento prima ancora di colpire con un’eventuale azione militare. E’ chiaro che un simile armamentario è pensato soprattutto rispetto a “società aperte”, presumibilmente più vulnerabili a strumenti che passano sotto la soglia della minaccia diretta. In sostanza, Gerasimov e Putin parlavano a noi e di noi fin dal 2013, brandendo le loro armi di confusione di massa.

 

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Ne è stato fatto un uso deliberato proprio in Ucraina, fin dal 2014, quando gli obiettivi russi erano limitati soprattutto a conquistare la testa di ponte in Crimea e a creare le condizioni per un conflitto strisciante a bassa intensità nel Donbass.

Pur senza sottovalutare i rischi effettivi della disinformazione o degli attacchi cyber, va comunque notato che la cosiddetta Dottrina Gerasimov ha avuto un ruolo prominente nella proiezione internazionale della Federazione Russa proprio perché il Presidente Putin ha puntato sempre di più negli ultimi anni sul fattore militare – a discapito degli strumenti diplomatici che richiedono la condivisione di responsabilità con altri governi, ma anche di ogni forma di rinnovamento economico interno del Paese.

Sotto la patina “ibrida” della Dottrina Gerasimov si celava insomma (neppure troppo nascosta) la saldatura tra obiettivi esterni (l’opportunismo come linea-guida, vedendo nei conflitti più brutali un ambiente ideale di penetrazione, in particolare nel caso siriano) e obiettivi interni (la repressione crescente come sostituto della legittimità democratica, con un uso sistematico della propaganda e del controllo dei flussi informativi anzitutto contro i cittadini russi). In altre parole, questa impostazione della politica estera e di difesa offriva già un quadro piuttosto chiaro anche della natura del regime politico incentrato su Putin come uomo solo al comando. Gli osservatori occidentali hanno però, in larga misura, travisato questo segnale: hanno ben compreso e studiato i suoi punti di forza, ma hanno perso di vista i suoi punti di debolezza, che sono emersi in modo lampante (oltre che tragico) nel febbraio 2022 con la seconda invasione dell’Ucraina.

Si potrebbe quasi pensare, con l’incarico diretto conferito a Gerasimov, che il 2023 chiuda una fase della politica estera russa, quella in cui l’uso piuttosto disinvolto delle forze armate serviva interessi secondari in quadranti lontani dai confini nazionali; oggi Mosca sembra infatti concentrare le proprie risorse sulla guerra che ha scatenato in Ucraina, non potendola vincere e sperando almeno di non perderla totalmente. E’ presto per dirlo, nel senso che un possibile “congelamento” del conflitto ucraino è ancora un esito plausibile, il che consentirebbe a Mosca di liberare risorse per qualche impiego altrove.

Ma è comunque assai probabile che la Russia non avrà, nei prossimi anni, la capacità e le risorse per perseguire interessi “globali” di alcun tipo; dovrà occuparsi dei suoi gravi problemi socio-economici interni, e presto o tardi della terribile sfida della successione a Putin. Il tutto in un contesto demografico perfino peggiore di pochi anni fa, con un flusso inarrestabile che spinge alla fuga all’estero centinaia di migliaia di russi i quali non vedono alcuna prospettiva nel proprio Paese di origine.

In questo quadro a medio termine, la sfida immediata per il Generale Gerasimov è sopravvivere alle ire del suo Presidente, e idealmente offrirgli qualche successo tattico sul terreno. Il destino della sua visione dottrinale è comunque segnato: la Russia deve fare ricorso agli strumenti militari più tradizionali del XX secolo – i bombardamenti contro obiettivi infrastrutturali e civili – per infliggere ogni danno possibile e sperare di spingere gli ucraini a un tavolo negoziale. Resta poco o nulla, dunque, del sofisticato impiego di metodi “ibridi” che ha reso famoso il Generale.

C’è però una lezione da apprendere in questa tragica vicenda: troppi analisti occidentali, anche molto competenti, hanno gravemente sopravvalutato la duttilità del pensiero strategico russo (e di altri attori non occidentali, statuali e non); basti rileggere oggi un libro davvero interessante del 2020 come quello di David Kilkullen, “The Dragons and the Snakes”, col suo affascinante sottotitolo “How the Rest learned to fight the West”. Si può ora affermare, senza troppi dubbi, che i regimi autoritari avranno pure imparato qualcosa, ma non abbastanza per vincere. Non hanno certo “sconfitto” l’Occidente in alcun senso, e neppure hanno sconfitto l’Ucraina.