Il laboratorio politico spagnolo
E’ una campagna elettorale dall’esito aperto quella che sta vivendo la Spagna in vista delle elezioni del 28 aprile. La Spagna ha prodotto stabilità e prevedibilità politica per trent’anni, vero contraltare mediterraneo all’Italia, con solo tre primi ministri in tre decenni, dal 1982 al 2011 – Felipe González, José María Aznar e José Luis Zapatero. Due partiti, quello socialista (PSOE) di González e Zapatero e quello popolare (PP) di Aznar, si alternavano al potere in solitaria o quasi. Ma l’ultima crisi non ha soltanto deteriorato l’economia di un Paese che si vedeva lanciato tra i grandi del mondo a suon di tassi di crescita “cinesi”: ha anche incrinato le fondamenta del sistema politico e istituzionale scaturito dalla fine di Francisco Franco (morto nel 1975).
In quel sistema, il vecchio, la dittatura, aveva incontrato il nuovo, la democrazia, con alcune garanzie. Una, la moderazione politica, sancita da una legge elettorale che premiava i partiti grandi e capaci di imporsi nelle aree interne più che in quelle urbane o industriali. Un’altra, il contenimento del nazionalismo interno, o la blindatura del centralismo (a seconda dei punti di vista), resa possibile da una legge che standardizzava i poteri delle regioni, pur mantenendo il privilegio fiscale del Paese Basco. Un’ultima, la monarchia, impersonata dal re Juan Carlos, a cui tutti i poteri del “governo di Spagna” si mantenevano legati.
Negli ultimi anni, questi tre pilastri hanno tremato. Intanto, la Spagna ha cominciato a sfornare nuove forze politiche, ad esprimere nuove domande della cittadinanza: cinque anni fa nasceva Podemos, partito di sinistra emerso dalle proteste accese degli indignados, ma “fuso a freddo” dal professore universitario madrileno Pablo Iglesias e da altri giovani accademici e sindacalisti.
Dei cinque anni di Podemos, il più amaro per Iglesias è senz’altro l’ultimo, per divisioni e scissioni che hanno indebolito e demoralizzato il partito. Per il resto, Podemos è stato dirompente nel panorama politico spagnolo (tanto da aver sollevato l’interesse di apparati nascosti dello stato), fino a riuscire a deviarne la traiettoria: dall’elezione delle sindache Manuela Carmena e Ada Colau a Madrid e Barcellona, al 20,7% dei voti alle elezioni del dicembre 2015 e il 21,1 della ripetizione l’anno dopo, fino alla costruzione della mozione di sfiducia a Mariano Rajoy su cui nel giugno dello scorso anno riuscì ad agglomerare una maggioranza alternativa in parlamento, scalzando il leader popolare e portando al potere il socialista Pedro Sánchez, con l’aiuto dei nazionalisti baschi e catalani.
Podemos ha sfidato l’egemonia socialista sulla sinistra spagnola, fin quasi a conquistarla. Il sorpasso sul partito tradizionale però non è avvenuto, e non avverrà nemmeno il 28 aprile: le liti interne pesano. Ma una “vittoria” sui socialisti l’ha ottenuta, perché il PSOE ha dovuto adottare la narrativa podemita per resistere alle convulsioni di questi anni: le campagne di Sánchez, a cominciare da quella sorprendente con cui alle ultime primarie si riprese la segreteria socialista, portano ben visibile quel marchio di stile, narrativa e proposte.
Un altro quarantenne come Iglesias è stato protagonista di un cambiamento altrettanto fondamentale nella destra spagnola. Il perito legale barcellonese Albert Rivera nel 2006 fonda Ciutadans (“Cittadini”), un partito che per qualche anno vivacchia ai margini della politica della Catalogna, unica regione in cui è presente. Ma poco dopo l’avvento di Podemos, Rivera viene contattato da sponsor di peso: alcune grandi aziende e gruppi mediatici condividono i contenuti della sua proposta e sono interessati a lanciarla a livello nazionale. La dizione catalana Ciutadans diviene allora Ciudadanos, e Rivera si trasforma nel leader di un partito che molti considerano un “Podemos di destra”, per la giovane età dei capi, la critica alla “vecchia politica”, e le posizioni liberal-centriste, all’inizio in realtà molto attente a dichiararsi né di destra né di sinistra.
Ciudadanos, forse proprio perché coccolato da molti media, prima delle elezioni sembra sempre più forte di quanto risulti poi nelle urne. Con il 13,4% raccolto alle elezioni del 2015-6, Rivera non riesce a sfondare, né a capitalizzare la sua forza parlamentare nella Camera che prima conferma e poi sfiducia Rajoy. Perché arrivi il tanto atteso “Momento Ciudadanos”, Rivera dovrà aspettare ancora, e tornare da Madrid a Barcellona.
Le elezioni catalane del 21 dicembre 2017 sono il culmine di un “naufragio” (come lo ha descritto la giornalista Lola García): il naufragio del processo secessionista guidato dal nazionalismo catalano. Sulla lunga decantazione, sulla produzione in massa e sulla gestione avventurista di questo movimento d’opinione è stato scritto molto, anche su queste pagine. Nell’autunno del 2017 i partiti indipendentisti, pur senza la maggioranza dei voti nelle urne (si erano fermati a un soffio, attorno al 47%, che comunque gli fruttava il governo della Catalogna), non riuscendo a indirizzare lucidamente la grande mobilitazione che avevano fatto partire, prigionieri dei loro stessi slogan massimalisti, ma anche incoraggiati dalla miopia e dalla sordità del governo spagnolo di Rajoy, organizzavano un referendum (illegale) e in seguito procedevano a una “dichiarazione unilaterale d’indipendenza” nel parlamento di Barcellona.
Poco dopo, seguiva da Madrid la sospensione dell’autonomia regionale, l’incarcerazione e la presa in carico processuale degli accusati di ribellione e disobbedienza, e la chiamata a nuove elezioni, da parte di Rajoy, per il 21 dicembre: il meccanismo previsto dall’articolo 155 della Costituzione in caso di attentato all’unità del paese. A sancirlo, la presa di posizione del re Felipe (succeduto a Juan Carlos nel 2014), e il voto positivo di PSOE, PP e Ciudadanos. Intanto, il presidente del governo regionale e proclamatore della Repubblica, Carles Puigdemont, fuggiva in Belgio. Il 21 dicembre i tre partiti indipendentisti, sommati, conservavano il 47%; ma il partito più votato dell’elezione era, clamorosamente e senza che i sondaggi l’avessero previsto, Ciudadanos con il 25,4%. Clamorosamente per due motivi: perché era quello che più aveva contestato nei mesi precedenti, richiedendo la mano durissima, il secessionismo – la Catalogna non indipendentista, insomma, premiando Ciudadanos, diceva forte e chiaro che si sarebbe opposta, che non avrebbe lasciato passare la secessione. E perché il più votato al parlamento di Barcellona era un partito non catalanista, ma anzi ultra-centralista e “devoto” a Madrid: era la prima volta che accadeva.
Momento Ciudadanos, insomma? No. A rovinare i piani di Albert Rivera arriva un altro quarantenne. Santiago Abascal, ex affiliato al PP, erede di una famiglia di amministratori locali della destra spagnola e della dittatura nella provincia basca di Álava, fonda Vox nel 2013. Il partito resta inabissato per un certo periodo tra altre formazioni irrilevanti dell’estrema destra; partecipa alle “marce per la vita” e propaga una narrativa islamofoba, anti-immigrazione, tradizionalista, anti-femminista e centralista.
Ma nel 2018 il quadro cambia, e le elezioni per la regione Andalusia offrono l’occasione per misurare il consenso dei partiti. E’ passato un anno dal culmine della crisi catalana; sono passati pochi mesi dall’avvicendamento tra Rajoy e Sánchez: il nuovo governo socialista si regge sui voti di Podemos e dei nazionalisti baschi e catalani – un vero schiaffo ideologico alla destra tradizionale spagnola. Abascal, grazie al suo passato nel PP, durante l’anno riesce ad attirare elettori e amministratori locali di quel partito sulle sue posizioni.
L’Andalusia è la regione spagnola più popolosa, decisiva per tutti gli equilibri politici nazionali. L’Andalusia è una regione che costituisce una specie di “pendolo” insieme alla Catalogna: quando da Barcellona c’è una spinta per cambiare qualcosa a livello nazionale, magari un governo o le attribuzioni di potere delle regioni, da Siviglia arriva sempre, a stretto giro, una risposta. L’Andalusia è una regione di sinistra, ma dove il potere del partito socialista, ininterrottamente al governo dal 1980, è ormai logorato dalle lotte intestine e dagli scandali. Il 2 dicembre 2018, Vox ottiene l’11% alle elezioni regionali: grazie al suo successo il PSOE è scalzato dal governo locale, sostituito da un tripartito di destra inedito nella storia politica spagnola, Vox-PP-Ciudadanos, che sale al potere regionale e si dichiara subito pronto a farlo anche a livello nazionale.
Il discorso di obbedienza trumpiana adottato da Abascal fa breccia in un elettorato conservatore deluso dai suoi rappresentanti tradizionali, benché il PP sia ora guidato dal giovane Pablo Casado, furioso per il nuovo governo di sinistra, desideroso di mostrarsi contrario ad alcuni cambiamenti in corso (uguaglianza di genere, integrazione degli immigrati) o in potenza (federalismo e nuove regole istituzionali, politiche sociali più inclusive). Ma quel discorso ha funzionato anche in una fascia di elettori vogliosi di protestare in generale, e stanchi di un dibattito politico che con la moltiplicazione dei partiti e dei fronti aperti pare estenuante e sterile.
Se abbiamo vinto in Andalusia possiamo vincere le elezioni nazionali, ripete il capo di Vox. Abascal – come altri leader nazional-populisti in giro per il mondo – ha catturato l’attenzione mediatica, ha acceso i sentimenti dei fan e dei contestatori, ha diffuso slogan ad effetto dei quali tutti discutono: basta questo a lanciarlo ancor di più nei sondaggi, anche se Vox non è nemmeno presente in parlamento. Ma Abascal ha ragione: il tripartito della destra potrebbe governare la Spagna.
Tuttavia, la legge elettorale penalizza la troppa competizione: i partiti di destra sono tre, quelli di sinistra sono due. Nessuno dei cinque è forte abbastanza da poter pensare di governare da solo; ma il partito socialista può sperare, avendo solo la concorrenza indebolita di Podemos, e con una destra schiacciata su posizioni radicali, di ottenere la palma di primo partito con un certo distacco sui concorrenti. E’ questo vantaggio strategico paradossale, dovuto alla saldatura del tripartito di destra, che ha convinto Pedro Sánchez (la Costituzione spagnola riserva questo potere al capo del governo) a sciogliere le Camere lasciando il governo faticosamente conquistato solo dieci mesi fa, e a indire le elezioni anticipate per il 28 aprile, con la Pasqua di mezzo.
Se vince la scommessa – “Fai che accada”, dice lo slogan del PSOE – Sánchez potrà varare il governo che la sinistra di tutta Europa sogna, il famoso modello portoghese: i socialisti in coalizione o collaborazione con la sinistra radicale, nel caso spagnolo con l’appoggio dei nazionalisti baschi e catalani. Sul serio? Forse. Sánchez ha anche un’altra scelta. Non avendo abbastanza seggi per governare da solo, invece che guardare a sinistra potrebbe rivolgersi a uno dei membri del tripartito di destra, e cioè Ciudadanos, teoricamente il più moderato – anche se Rivera nega questa ipotesi. Ne avrebbe vari vantaggi tattici: sfalderebbe la coalizione avversaria, conquisterebbe il centro dello spettro politico ergendosi ad arbitro della politica spagnola, spingerebbe le rivendicazioni radicali ai margini del dibattito, si libererebbe degli alleati catalani che il resto della Spagna detesta. Inoltre, la coalizione con Ciudadanos sarebbe in linea con gli accordi stretti nelle istituzioni europee, e certamente più apprezzata dalle potenti corporazioni economiche spagnole. Sarebbe un segno di ricucitura, e non di strappo, con quei pilastri del passato scossi negli ultimi anni.
Il comportamento degli indecisi e la capacità dei vecchi e dei nuovi partiti di accendere l’elettorato e di intercettare le correnti profonde della società, nonché qualche possibile sorpresa (in una campagna così corta) decideranno se la Spagna imboccherà il cammino di Lisbona, quello di Washington o quello di Bruxelles.