international analysis and commentary

Il labirinto spagnolo ancora senza uscita

3,091

“Siamo in un labirinto”, aveva ammesso Pedro Sánchez pochi giorni prima del voto. La ripetizione elettorale spagnola (si era già votato il 28 aprile, senza che i partiti riuscissero ad accordarsi sulla formazione di un governo), una volta volato via il polverone dello scrutinio e dei primi commenti, lascia sul tappeto un panorama politico molto complesso. Perfino più complesso del precedente. La Spagna dove “la sera stessa delle elezioni” si sapeva chi avrebbe governato non esiste più, da tempo. Se qualcuno voleva riesumarla con queste elezioni anticipate, il tentativo è fallito.

Pedro Sánchez

 

Pedro Sánchez, il leader del Partito Socialista (PSOE), è anche presidente del governo uscente. Quale governo, ci si potrebbe legittimamente chiedere? Un governo nato in parlamento tra maggio e giugno 2018, quando una mozione di sfiducia disarcionò il precedente esecutivo, guidato dai Popolari di Mariano Rajoy. Sánchez, con il decisivo contributo dei parlamentari della sinistra di Podemos e degli indipendentisti e nazionalisti baschi e catalani, ebbe i numeri per costruire una nuova maggioranza senza elezioni. Oltre al meccanismo della sfiducia costruttiva, la Costituzione spagnola offre al presidente del gobierno anche il delicato e cruciale potere di indire le elezioni, scegliendo la data.

A inizio 2019 Sánchez credette di trovare nella manica l’asso giusto: il Partito Popolare (PP), travolto dagli scandali, era debole, con la nuova segreteria di Pablo Casado ancora in rodaggio; la destra era divisa a livello nazionale in tre partiti (PP, la neonata estrema destra di Vox e i liberali di Ciudadanos). E la legge elettorale spagnola, che ripartisce i seggi premiando il primo partito su base provinciale, punisce la frammentazione: la sinistra era composta solo di due forze (i socialisti del PSOE e Podemos), ed era dunque in vantaggio tattico. Allora, “A votare!”, pensarono gli strateghi socialisti: avremo finalmente una larga maggioranza. In tutta fretta si indissero le elezioni anticipate, con la campagna elettorale culminata nella settimana di Pasqua, e il PSOE le vinse. Con il 28,7% dei socialisti e il 14,3 di Podemos, più alcuni alleati da scegliere tra i partiti baschi, catalani e altre forze minori, una maggioranza di governo era possibile. Una maggioranza di sinistra, per di più, per la gioia dei militanti che andarono sotto la sede del partito socialista, la sera delle elezioni, per spingere Sánchez in questa direzione – e non, ad esempio, in quella di un patto con i liberali di Ciudadanos. La tinta ideologica del voto, infatti, era stata forte.

Sánchez, però, tentennò. L’idea di governare in coalizione è estranea alla politica spagnola, almeno a livello nazionale, dove i due partiti più grandi, PP e PSOE, sono abituati a considerarsi gli unici depositari delle chiavi degli esecutivi. Lo sono effettivamente stati dall’inizio degli anni ’80 fino ad oggi. Aspettiamo le elezioni europee (sarebbero state di lì a un mese), per vedere i nuovi rapporti di forza, e poi decidiamo, pensarono ai piani alti del partito socialista. E le europee furono rose e fiori: PSOE sopra il 32%. Podemos giù verso il 10. Questo significa che devo governare da solo, e che i partitini della sinistra devono sostenermi senza avere neanche un ministero in cambio, fu l’interpretazione di Sánchez – preoccupato che l’ingresso al governo della sinistra radicale lo avrebbe schiacciato, avrebbe mangiato il suo partito deciso a occupare invece il centro dell’arena politica. Non se ne parla neanche, gli risposero da Podemos: noi non siamo un partitino e vogliamo gli onori e gli oneri del governo. I ministeri. Le deleghe. Le vicepresidenze.

Pedro Sánchez e Pablo Iglesias durante uno dei numerosi episodi della trattativa per il governo

 

Da allora, Sánchez e il capo “podemita” Pablo Iglesias iniziarono la trattativa per conciliare queste due posizioni. Il governo rimase, ad interim, quello precedente alle elezioni. Trattativa? In realtà, il capo socialista non aveva intenzione di concedere nulla a Iglesias e ai suoi. Nessuna coalizione: o noi, o il caos, ragionavano nel partito. E se serve, chiederemo nuovamente il voto agli spagnoli. Podemos rifiutò di sostenere un monocolore socialista da posizione subordinata, e Sánchez, da capo del governo ad interim, indisse nuove elezioni.

Sull’affollato palco del coro della politica spagnola, pensava che la sua voce da solista sarebbe risuonata meglio delle altre. Perché? Per prima cosa, per il precedente del dicembre 2015: allora, il PP vinse le elezioni con il 28,7%, non trovò i voti per la fiducia in parlamento, indisse elezioni anticipate, e il giugno successivo salì al 33%, riuscendo così a governare. Poi, perché credeva che il partito socialista si sarebbe rinforzato grazie alla scissione subita da Podemos: il numero due Íñigo Errejón, con una grossa componente madrilena, se ne era andato per formare il suo proprio partito, Más País. Podemos si sarebbe ridotta a un cespuglio e non sarebbe stata in grado di avanzare alcuna pretesa.

Ma Sánchez era anche convinto che gli eventi previsti per l’autunno avrebbero consolidato la sua immagine di garante dell’ordine progressista e del sistema nazionale proprio prima del voto, da programmare dunque, scelse il presidente del gobierno, il 10 novembre. Da un lato c’era l’esumazione del cadavere di Francisco Franco (24 ottobre), spostato dal santuario costruito nella roccia dai prigionieri politici dove era stato sepolto con tutti gli onori nel 1975 a un normale cimitero, che avrebbe simboleggiato la capacità della Spagna socialista di chiudere i conti con le tragiche ferite ancora aperte della dittatura. Dall’altro arrivava la sentenza (14 ottobre) della Corte Suprema sul referendum indipendentista costituzionalmente illegale tenuto dal governo catalano il 1° ottobre 2017 e per i fatti a esso legati (organizzazione del voto e gestione della piazza): la pronuncia che si preannunciava già dura avrebbe spinto Podemos, da sempre fautrice di un compromesso con gli indipendentisti, a solidarizzare coi condannati, alienandole il sostegno del resto del paese. “Ahora sí” (adesso sì), era lo slogan con cui il PSOE invitava gli spagnoli a dargli la forza di governare da solo il 10 novembre.

La Camera spagnola dopo le elezioni del 10 novembre (La Vanguardia)

 

Invece, adesso no. Le urne sono state amare per Pedro Sánchez. Il suo PSOE resta il primo partito, ma scende leggermente, dal 28,7 al 28%, e da 123 seggi su 350 a 120. Considerando la minore partecipazione, si tratta di circa 700mila voti in meno. Il PP, quasi moribondo in aprile relativamente alla sua tradizionale forza nella politica spagnola, trova un parziale rilancio confermandosi in prima posizione nel fronte di destra risalendo dal 16,7% al 20,8. A destra c’è anche il salto di Vox – un po’ meno evidente nella realtà che nei titoli dei giornali: il partito di Santiago Abascal passa dal 10,2% di aprile al 15,1 di novembre (ma alle europee di maggio era ridotto al 6%).

Se il salto non è enorme, però, Vox, come terzo partito nazionale, esce definitivamente dai margini ed entra da protagonista nell’arena politica, viaggiando oltre il 20% in tutto il sud della Spagna (Andalusia, Murcia, Castiglia La Mancha), zone a lungo in grave sofferenza economica, e registrando risultati superiori al 18% nelle regioni di Madrid e Valencia. L’aggiustamento della narrativa di Abascal, prima soprattutto nazionalista e nostalgica, ai toni più “sociali” propri ad esempio di Matteo Salvini, ha certamente pagato.

Ma a spiegare il balzo in avanti della destra valgono anche altri due fattori. Il primo è la stanchezza dell’elettorato: quattro elezioni nazionali in quattro anni, senza che si trovi una uscita stabile alla crisi politica del Paese, hanno prima affaticato e poi davvero fatto infuriare gli spagnoli. Il voto a Vox è anche di protesta. Il voto al PP è il classico voto contro Sánchez, radicato soprattutto nelle roccaforti del partito popolare come Madrid, Castiglia e León, Galizia. Il secondo fattore è rappresentato dagli scontri a Barcellona e nel resto della Catalogna dopo la sentenza della Corte Suprema, durati una settimana: le cariche, le devastazioni urbane, le fiamme, hanno prodotto uno scenario imprevisto (non la protesta “normale” che si aspettava il PSOE), che ha spinto una certa fascia di elettori nel resto della Spagna verso le posizioni di reazione più dura.

Una immagine dei disturbi successivi alla sentenza della Corte Suprema, Barcellona

 

Ma le brutte notizie per Sánchez non finiscono con il successo della destra radicale – il PP sale da 66 a 88 seggi, Vox da 24 a 52. Chi non ha affatto trovato l’uscita del labirinto è Ciudadanos, la formazione liberale di Albert Rivera che più volte in passato sembrava vicina al governo del paese e che ora invece crolla dal 15,9% al 6,8, e da 57 a 10 seggi. Rivera, la cui proposta inconsistente è stata stritolata dalla radicalizzazione della campagna, ha perso i suoi voti soprattutto verso Vox e PP.

Il leader di Vox Santiago Abascal

 

E’ una brutta notizia per Sánchez perché il leader socialista usava Ciudadanos come “secondo forno” nei confronti di Podemos; come dire “non ho bisogno di voi, posso sempre rivolgermi a Rivera”, il partito più moderato della destra. In effetti, dopo aprile, un’intesa di governo tra socialisti e Ciudadanos sarebbe stata possibile. Invece, “Ahora no”. Rivera si è dimesso annunciando il ritiro a vita privata e i 120 seggi socialisti con i 10 di Ciudadanos restano ben lontani dai 176 necessari per la maggioranza parlamentare.

Tanto più che Podemos non si è affatto liquefatta. Certo, il partito è sceso dal 14,3% al 12,8, e ha perso 7 seggi (da 42 a 35). Ma la scissione è fallita: Más País si è fermata al 2,4% e Podemos resta la forza egemone nella sinistra radicale spagnola. Non solo. Resta l’interlocutore-chiave per la formazione di un futuro governo di sinistra, proprio come in aprile (anche se stavolta la matematica lo complica ancora di più) in collaborazione con le forze nazionaliste basche e catalane – collaborazione che il PSOE vorrebbe evitare come la peste.

Il capo della fazione secessionista catalana di centro-destra, Carles Puigdemont, resta in fuga a Waterloo, in Belgio, e il suo successore alla guida della Catalogna, Quim Torra, già promette un nuovo referendum. Il leader del partito più votato in Catalogna, Sinistra Repubblicana-Sovranisti, politicamente più vicino ai socialisti spagnoli, è quello che ha ricevuto la condanna più pesante dalla Corte Suprema: Oriol Junqueras deve scontare 13 anni di carcere per sedizione e malversazione. Questi partiti dovrebbero entrare nella maggioranza di governo? Sánchez preferirebbe qualsiasi altra ipotesi.

Ma l’alternativa Ciudadanos non c’è più. Dispiace a molti: dall’Europa, dove Rivera era considerato da Emmanuel Macron la pedina per ripetere in Spagna l’intesa tra liberali e socialisti stretta a Bruxelles; ai centri di potere economico-mediatici spagnoli interessati a un esecutivo centrista moderato. Per uscire dal labirinto, Sánchez potrebbe dover affidarsi alla grande coalizione con i Popolari.

Idea mai testata in Spagna, nemmeno nelle giunte regionali, dove il fronte di destra (PP-Vox-Ciudadanos) si sta anzi consolidando. Ma i tre partiti di destra, in parlamento, oggi sommano 150 deputati, lontani dai 176 della maggioranza. E allora, il leader del PP Pablo Casado potrebbe offrire la disponibilità almeno a un patto temporaneo con il PSOE. L’idea di una nuova ripetizione elettorale dà i brividi un po’ a tutti, e Casado potrebbe approfittare dell’accordo istituzionale per scrollarsi di dosso i radicali di Vox. Il prezzo? La testa di Sánchez. In tal modo il leader socialista, principale architetto del labirinto in cui ora si trova perduto, farebbe la fine del Minotauro.